Intervista al grande regista che da anni racconta le molteplici sfaccettature delle famiglie italiane
di Claudia Di Lorenzi
In questi giorni di Sinodo si è anche descritta la famiglia quale luogo di bellezza e di relazione, culla in cui nascono le vocazioni, luogo di preghiera e di «accoglienza delle persone più fragili o più deboli, in particolare dei malati e degli anziani, come luogo di tenerezza e di conforto per la sofferenza». ma il dibattito sulla famiglia in questi giorni si è allargato anche alla società civile, al mondo della politica, dell’arte e della cultura. Noi ne abbiamo parlato con il regista e produttore cinematografico Pupi Avati, che la famiglia ha reso protagonista di molte sue pellicole.
Maestro Avati, che famiglia vuole raccontare nei suoi film?
Voglio raccontare la sola famiglia che conosco, quella all’interno della quale sono stato cresciuto, e le centinaia e migliaia di famiglie che ho visto vivere accanto alla mia nell’arco lungo della mia vita, da quando ero bambino; le famiglie degli altri bambini che venivano all’asilo, che erano sfollate durante il tempo di guerra, o che abitavano a Bologna negli anni meravigliosi della mia esperienza musicale. Alcune erano famiglie più felici altre meno, ma erano famiglie dove i ruoli genitoriali erano nella gran parte dei casi rispettati, sia dai figli che riconoscevano ai loro genitori il ruolo educativo che devono avere, sia dagli stessi genitori che questi ruoli interpretavano. È il tipo di famiglia che io conosco e so di poterne parlare sapendo anche quelle che sono le problematiche. La mia esperienza che pesca in tempi molto lontani e si rifà anche alla famiglia patriarcale: quando ero piccolo il tipo di famiglia era molto allargata, una famiglia in cui la presenza in casa dei nonni o addirittura delle zie era prevista, poi i figli erano più numerosi di quanto non lo siano oggi che nelle famiglie il numero dei componenti si va riducendo. Però anche nella famiglia più essenziale, come può essere quella odierna, in cui non si va al di là di un papà, una mamma e un figlio quando c’è io riconosco che ci sono dei ruoli chiari, netti, precisi.
Una rappresentazione della famiglia che oggi, sempre più, viene messa in discussione. Come mai secondo lei?
Secondo me questo accade per delle forme di egoismo e ignoranza. L’egoismo è nell’essere umano: è evidente che ognuno di noi nel momento in cui si sposa pensa di amare e di aver sposato la donna più bella del mondo. Poi, dopo qualche anno, ci si accorge che di donne più belle del mondo ce ne sono altre. Allo stesso modo ci si rende conto che l’aver avuto dei figli può costituire un vincolo alla carriera o alla espressione e all’investimento di creatività all’esterno. In questi casi qualcuno comincia a pensare alla possibilità che da quel vincolo, da quell’impegno, da quella promessa ci si possa e ci debba emancipare.
L’ignoranza è invece pensare di poter valutare un matrimonio dopo averlo sperimentato per soli tre, cinque o sette anni: il matrimonio come istituto lo conosci se sei stato sposato per tutta la vita. Solo allora puoi dire se hai sbagliato, se hai fatto un investimento errato o se è stato un sacrificio che valeva la pena fare. Io che ho vissuto 50 anni di fianco alla stessa persona posso dire che i pregi del matrimonio, i frutti dei sacrifici fatti per la persona che ti è accanto, li si riconosce e li si raccoglie soprattutto alla fine. Intendo il fatto di sopportarsi reciprocamente, di superare assieme migliaia e migliaia di momenti non facili, di vivere turbolenze e giornate dolorosissime, tempestose, e poi anche momenti di estrema gioia, il fatto di avere accanto a te una persona che ti conosce nelle tue manifestazioni peggiori e in quelle migliori. Ecco per tutto questo, quella persona diventa qualcuno che ti è indispensabile, di cui non puoi fare a meno. Ma questa “persona indispensabile” la produci negli anni, non la puoi definire sbrigativamente dopo tre o quattro anni, quando ci si separa e si dice che non è la persona giusta per mettersi poi in giro a cercarne un’altra.