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L’italiano di Seul

Corrupt Christians cause grave harm to Church, says pope – it

Marcin Mazur/Catholic NewsUK

Vinonuovo.it - pubblicato il 21/08/14

L'uso da parte di Papa Francesco dell'italiano anche fuori dall'Italia è un promemoria per una vocazione più ecumenica?

Tra i tanti spunti che in questi giorni il viaggio di Papa Francesco in Corea ha offerto ce n’è uno – un po’ marginale – che personalmente mi ha colpito molto: il fatto che Bergoglio in Estremo Oriente abbia pronunciato tanti discorsi in italiano. Anche quando si è trattato di parlare a braccio davanti ai giovani coreani, non sentendosi abbastanza forte con l’inglese, non ha comunque optato per lo spagnolo, la sua lingua madre: ha scelto lo stesso l’italiano. Vado a memoria, ma negli ormai cinquant’anni di storia dei viaggi papali non credo proprio che ce ne sia stato un altro che abbia visto la nostra lingua utilizzata così tanto e per di più in un contesto così lontano, dove è decisamente poco parlata e compresa.

Non so se quella del Papa sia stata una scelta dettata da ragioni pratiche o abbia dietro anche una motivazione ecclesiologica (il vescovo di Roma parla la lingua di Roma, anche se è nato in Argentina e si trova in Corea). Sta di fatto, però, che sentire un Papa parlare in italiano dell’Asia di oggi e delle sue sfide mi è suonato molto intrigante. Non ho potuto fare a meno – infatti – di ragionare su un paradosso: abbiamo un successore di Pietro "venuto dalla fine del mondo" che visitando popoli lontani si esprime in italiano. Ma oggi abbiamo anche un’Italia che non solo non eccelle nel dono delle lingue, ma fa proprio una fatica enorme a guardare a qualunque cosa accada fuori dai propri confini.

C’è voluta una tragedia immane come quella di queste ultime settimane – ad esempio – per farci capire che in Iraq (non da ieri) sta capitando qualcosa di grave. Oggi tutti parliamo dell’Isis. Ma forse varrebbe la pena di ricordare che per via della vicenda di padre Paolo Dall’Oglio noi italiani saremmo dovuti essere stati i primi a capire. Avremmo dovuto sapere che è dall’estate scorsa che a Raqqa è successo tutto quanto poi puntualmente si è ripetuto a Mosul e a Qaraqosh, con le stesse violenze e le stesse stragi. Ma così non è stato.

Il dramma che si sta consumando in Medio Oriente non è, però, l’unico esempio. La nostra sola preoccupazione di fronte al virus Ebola è se abbiamo preso tutte le contromisure perché il contagio non arrivi anche qui da noi. Lo stesso Expo2015 di Milano – che pure poteva diventare un’ottima occasione per parlare di una questione cruciale come "nutrire il mondo" – l’abbiamo trasformato in una sagra dell’agroalimentare su scala globale, condita con qualche bello slogan sul diritto all’alimentazione.

L’elenco potrebbe andare avanti a lungo: dalle prime pagine dei quotidiani alle ore di geografia a scuola, dai tweet che inviamo ai libri che leggiamo, siamo un Paese in cui non c’è spazio per ciò che sta fuori dai nostri confini. Ed è un fenomeno che viviamo anche come Chiesa: qual è l’ultima esperienza ecclesiale interessante praticata in un altro Paese che abbiamo messo in circolo nelle nostre comunità italiane? E – nonostante tutte le parole di Papa Francesco – quali iniziative di approfondimento sul tema della giustizia tra i popoli abbiamo messo in campo in questi mesi? Senza andare troppo lontano, è un discorso che vale anche per Vino Nuovo: ogni articolo che parla di vicende non italiane vede inesorabilmente scendere il numero delle visite al sito. Questo tanto per dire che la tentazione di rinchiuderci su noi stessi ce l’abbiamo dentro proprio tutti.

Ecco, il punto è proprio questo: Papa Francesco oggi è l’unico a utilizzare l’italiano per parlare del mondo intero. Non lo fanno i nostri politici (con buona pace del gran parlare di Iraq di questi ultimi giorni), non lo fanno gli imprenditori o gli intellettuali, lo fa il Papa. Ma non è che così facendo Bergoglio ci sta anche richiamando quella che – invece – sarebbe una precisa vocazione del cattolicesimo italiano? Il mondo guarda a Roma. Persino l’Isis – quando lancia le sue minacce deliranti – parla di Roma come del simbolo per eccellenza di qualcosa di universale. E allora come possiamo noi cattolici rassegnarci a vivere in un Paese che non sa spingersi oltre alla Garbatella e appiattire su questo formato bonsai anche le nostre comunità?

Io credo che questo tema debba starci oggi molto a cuore come Chiesa italiana. Se non siamo noi i primi a educare ad andare oltre l’ambito ristretto dei nostri confini e a far vedere che respirare a pieni polmoni nel mondo è molto più salutare, non lo farà nessun altro. Alla fine di ogni viaggio del Papa ci si interroga puntualmente su quale segno resterà del suo passaggio in quel determinato Paese. Ed è giusto. Ma forse dovremmo anche aggiungere una seconda domanda: quanto fermarci a guardare le immagini delle folle di Seul o ascoltare le parole forti sul dramma iracheno sono state anche qui in Italia esperienze che hanno aperto di più il nostro sguardo e il nostro cuore? Perché – se non sono accompagnate da forme di attenzione più quotidiana – le stesse giornate come quella di domenica scorsa per i cristiani perseguitati resteranno sempre e solo un passo incerto di un cammino che non compiremo mai davvero.

Dunque? Proviamo almeno a ragionarci. Chiediamoci – ad esempio – se in Italia in questi anni non abbiamo fatto troppi passi indietro nell’attenzione ecclesiale al tema "Giustizia e pace" (lo stesso organismo Cei oggi è un semplice ambito dell’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro). Se l’insistenza solo sul "micro" (la testimonianza di "quel" missionario, il singolo progetto, l’aiuto concreto che incide subito…) non ci abbiano fatto perdere di vista i grandi processi, le "strutture di peccato" – per dirla con le parole di Giovanni Paolo II – che avvelenano i rapporti tra i popoli. Chiediamoci anche perché il nostro cattolicesimo – nonostante le mille sollecitazioni che l’attualità di oggi ci offre – non è più capace di generare figure che, come faceva Giorgio La Pira, sanno coniugare presenza su un determinato territorio con uno sguardo aperto ai bisogni del mondo intero.

Torniamo a porci questo tipo di domande. In quell’italiano che Papa Francesco ci fa riscoprire lingua tuttora capace di parlare a ogni latitudine.

Qui l’originale

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