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Una legge di libertà per vivere l’Alleanza

10 comandamenti

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Dimensione Speranza - pubblicato il 11/08/14

L'Alleanza, le Dieci parole e il dono della Terra sono una unità inscindibile nei rapporti tra Dio e l'umanità
André Wénin *

Indipendentemente dall'esatto rapporto con fatti storici, il racconto biblico stabilisce tra la liberazione dall'Egitto, l'Alleanza stabilita dalla Legge e il dono della Terra, legami che rischiarano il significato della Legge in generale e delle Dieci Parole in particolare.

Il Pentateuco colloca il dono delle Dieci Parole nel cuore di una complessa sequenza narrativa. Liberati dall’Egitto dall’azione congiunta del Signore e di Mosè, i figli di Israele attraversano il deserto sino alla montagna di Dio. Egli propone allora di concludere un’alleanza. Avendo dato il popolo un’approvazione di principio, Dio può venire verso di lui nel fuoco e nella nube e proclamare l’essenza di ciò che Israele deve accettare se si impegna nell’alleanza:le Dieci Parole. Una volta siglato il patto, il popolo costruisce una tenda per Dio e riceve una legislazione che organizza la sua vita e il suo culto. In seguito, esso si rimette in marcia verso una terra che gli è stata promessa quando era ancora in Egitto.

Questa sequenza narrativa esposta nei libri dall'Esodo al Deuteronomio ha fondamento storico? Gli esegeti dibattono il problema ormai da lungo tempo. La loro conclusione è che vi sono ben poche possibilità che le cose si siano svolte come le presenta la Bibbia. Ragioni valide inducono a porre in dubbio il legame originario tra gli «eventi del Sinai» – senza discutere quali siano stati – e l'attuale Decalogo.

Analogamente, il cammino dall'Egitto sino in terra di Canaan non riguardò certamente che un ristretto gruppo del futuro Israele, un gruppo forse diverso da quello che fece l'esperienza di una presenza misteriosa e potente di Adonai sulla montagna. Riflettendo, è lecito pensare che la definizione in termini di alleanza tra Israele e Adonai risalga al periodo regale. Questa presentazione è ricalcata sui trattati di vassallaggio che intercorrevano nell'antico Vicino Oriente e la cui formulazione ha influenzato il racconto biblico: la citazione dei benefici del sovrano (nel caso di Israele, Dio) costituisce la base di un patto secondo i cui termini il vassallo si impegna ad essere fedele al suo signore ed a compiere un certo numero di obbligazioni nei suoi confronti, grazie alle quali egli rimarrà nelle sue buone grazie e godrà ulteriormente dei suoi benefici.

Indipendentemente dall'esatto rapporto con fatti storici, il racconto biblico stabilisce tra la liberazione dall'Egitto, l'Alleanza stabilita dalla Legge e il dono della Terra, legami che rischiarano il significato della Legge in generale e delle Dieci Parole in particolare. Inoltre, queste ultime si collocano esse stesse su una linea temporale, che va dall'Esodo, ieri («Sono io, il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dall'Egitto»), al dono della terra, domani («…la terra che il Signore tuo Dio ti ha destinato»). Quanto ai precetti, essi dicono come accogliere oggi questi doni dell'Alleanza e conoscere l'«amore fedele» che Adonai testimonia a «coloro che l'amano e rispettano i suoi precetti». La Legge appare così direttamente legata ai doni di Dio: il dono della libertà, prima, e la Terra promessa, come garanzia – due segni dell'amore straordinario di Dio che è la vera base dell'Alleanza.

Dieci Parole per una vita da uomini liberi
Entrando in scena, il Dio che dà la Legge si presenta come colui che ha donato vita e libertà portando Israele fuori da una dimora di schiavitù. Questo giustifica il suo diritto di legiferare e il dovere di Israele di obbedirgli? Si può concordare, tuttavia l'Antico Testamento non privilegia questa lettura. Esso ripete che la legge è fatta per permettere al popolo di espandere la vita e la libertà ricevute come autentica fortuna. In questo senso, la formulazione negativa delle Dieci Parole – che può apparire ostica – ha in sé qualche cosa di liberatorio: limitandosi a interdire comportamenti che impediscono di vivere e di essere liberi (le strade che riportano in Egitto), essa evita di dire che cosa bisogna fare e lascia aperto un largo spazio in cui creare dei comportamenti di vita.

Detto questo, le prime parole sembrano precisare i doveri di Israele verso il suo Dio. Ma non è che la superficie della realtà. Per quale motivo infatti proibire gli altri dèi o le immagini? Perché proibirne il culto? Dio rifiuterebbe la concorrenza? Sarebbe così preso di se stesso? In realtà, se gli idoli e le immagini di Dio sono bandite dagli orizzonti dell'Alleanza, è perché essi minacciano nel modo più grave la libertà e la vita di Israele.
Un «dio», in realtà, si presenta sempre con una rivendicazione di dominio assoluto di fronte al quale l'essere umano in sé diventa relativo. Così gli si sacrificano esseri umani o si rinuncia alla propria libertà a suo favore. È questo, del resto, un buon criterio per giudicare degli dèi di una società – a che cosa essa sacrifica degli uomini? – e degli dèi di un individuo – per che cosa egli è disposto ad alienare la sua libertà, a perdere la sua vita? -. Si capisce che il Decalogo precisa che questi dèi sono il contrario di Adonai. Come egli non si mostrerebbe geloso contro ciò che mette in pericolo la vita e la libertà che egli vuole per i suoi?

Forse più pericolose sono le immagini scolpite di Dio. Perché il fatto che si tratti del vero Dio può creare un'illusione di verità. Ora, qual è la funzione dell'immagine, se non rappresentare Dio? Rappresentare significa «rendere presente», ma a partire dal passato. E scolpire l'immagine è fissarla nel legno o nella pietra. Allora, si tratta di rappresentare Dio come se stesso si è rivelato nel passato, in modo da sfuggire al rischio di «Colui che è e che viene» ponendo le mani su «colui che era». E di dove proviene un tale comportamento? Non è la paura della mancanza, della precarietà, del non senso che precipita l'uomo nella ricerca di una verità pietrificata, adatta a calmare le sue angosce? Ma questa immagine non affranca dalla paura: essa la trattiene, mascherandola. Essa è la caratteristica di un uomo schiavo della sua paura di vivere o di assumersi la porzione di insicurezza propria della libertà. In questo, essa è agli antipodi di Adonai.

Per concludere, nel profondo, i primi comandamenti mettono in guardia Israele contro ciò che rischia di compromettere, ovvero di annientare, il primo dono che esso ha ricevuto da Dio e di cui ha assunto il rischio alla sua uscita dall'Egitto: una vita in libertà.

Dieci Parole per una terra di giustizia
«La terra che il Signore tuo Dio ti ha destinato»… Nel Decalogo, questa espressione crea il legame tra il precetto dei padri e madri e le ultime parole che riguardano il prossimo. Essa evoca il bene futuro che il Signore promette a coloro che da lui hanno ricevuto vita e libertà: una Terra in cui vivere in autonomia senza più dipendere direttamente da Dio per il nutrimento quotidiano. E come il Decalogo si apre con l'affermazione di un dono di Dio, la libertà, prima di precisare il modo di servirsene bene, così accade anche a proposito della Terra.

La Terra è dunque evocata alla conclusione del precetto di onorare il padre e la madre. Un legame nascosto permette questo accostamento: un essere, che riceve da Dio il dono della vita quando i genitori ne accettano il rischio, eredita anche da loro la terra donata da Dio, con ciò che comporta di beni indispensabili alla vita. In questo senso, «dare peso» al padre e alla madre, secondo il senso concreto del termine ebraico, è riconoscere che ciò che ogni essere umano può desiderare – una vita in espansione («perché i tuoi giorni si prolunghino»), la capacità di creare relazioni positive («perché ci sia felicità per te», Dt 5,16)e i beni necessari («la terra che Adonai tuo Signore ti dona») – non è un diritto, ma un dono, di cui padre e madre sono gli attori. Ma non per questo sono perfetti. Così, dare loro dei pesi, è anche rifiutare di portare al loro posto questi pesi di cui essi hanno potuto caricare indebitamente i loro figli, è fare loro l'onore di crederli capaci di assumerli in prima persona (D. Sibony).

Ad un primo sguardo, le ultime parole sembrano prive di un rapporto diretto con il precetto dei genitori legato al dono della Terra. Tuttavia, nella versione del Deuteronomio, un legame si designa nettamente: i doni di Dio che un essere cerca di coltivare in una giusta relazione con il padre e la madre – la vita, le relazioni fortunate, una terra e dei beni -, le parole successive invitano a non privarne gli altri: «Non ucciderai; non commetterai adulterio; non ruberai». Questo legame molto chiaro si collega alla regola aurea: «Non privare alcuno di ciò di cui non vorresti essere privato». Ma la conclusione va oltre. Essa mette in guardia nei confronti di atteggiamenti interiori che possano portare a privare il prossimo di ciò che gli è necessario per espandere la sua vita. Una falsa testimonianza può provocare la sua morte, sia pure una morte sociale. Desiderarne la moglie può condurre all'adulterio che spezzerebbe le relazioni da cui egli attende felicità. Quanto all'avidità, essa è un cammino che conduce al furto.

È possibile, del resto, leggere il precetto del padre e della madre, che ordina in modo positivo di riconoscere il dono per ciò che esso è, come un tentativo per prevenire deviazioni riguardanti il rispetto degli altri. In realtà, se qualcuno si allarga nello spirito di questo unico ordine esclusivamente positivo del Decalogo, quale presa troverà in lui l'inclinazione all'omicidio, all'adulterio o al furto? Infine, bisogna sottolineare che la Terra non è data al popolo come prezzo per la sua obbedienza alla Legge, ma che è destinata piuttosto a regolare il rapporto al dono in modo da promuovere la giustizia. Il frutto di questa, il godimento condiviso del dono di Dio, sarà tuttavia minacciato dalla dimenticanza della Legge e dall'ingiustizia che ne deriva.

Dieci Parole per sigillare per un'alleanza
Se l'uscita dall'Egitto precede il dono della Legge in modo che questo è offerto alla libertà di un popolo invitato a prendersi cura di questo bene essenziale, se il dono della Terra è all'orizzonte della Legge che ne regola in anteprima l'uso in modo che un giusto godimento garantisca a tutti la vita, il presente del dono delle Dieci Parole è l'Alleanza proposta da Adonai. Già la prima parte del testo (Es 20,2-6) lo sottolinea, sia pur a suo modo. Che Dio punisca «la colpa dei padri nei figli» o che mostri il suo amore fedele «fino a mille generazioni» dipende dalla scelta del popolo di fronte agli idoli, il che significa anche faccia a faccia con la propria libertà. In altri termini, che il dono di vita e di libertà si espanda o no in alleanza dipende dall'opzione che Israele eserciterà di fronte alla Legge. Il legame con l'Alleanza è più forte, benché più discreto, nel precetto che è il vero cardine delle Dieci Parole: il sabato. Nella versione di Esodo 20, l'esigenza di fare del settimo giorno un giorno santo si fonda sul riposo del Creatore. Quando Dio compie la sua opera nel sabato (Gn 2,1-3), pone un limite al dispiegamento della sua signoria, mostrandosi così più forte della sua stessa forza (R. Beauchamp). Allo stesso tempo, ritirandosi, egli apre uno spazio di autonomia all'universo creato che egli affida alla responsabile signoria dell'umanità. Assumendosi così un limite e ponendo di fronte a lui un partner libero e responsabile, egli crea le condizioni della possibilità di un'alleanza fra gli uomini e lui. Ma perché essa possa svilupparsi, non è necessario che il partner umano stia al gioco, che anch'egli accetti un limite alla signoria che egli esercita, e che consideri questo limite come una «perdita di tempo» sotto la forma del «sabato per Adonai tuo Dio»?

Del resto, vi sarebbe qualche cosa di idolatrico nel rifiutare un limite al lavoro. Sarebbe asservire se stessi alla propria volontà di potenza e di profitto, espressione visibile della paura di mancare, di lasciare la presa – cosa senza la quale non vi è nulla in realtà di veramente umano. Sostando, agendo così, l'uomo rivelerebbe l'immagine del Dio a cui immagine vuole realizzarsi: un Dio la cui superpotenza non accetta – limite – in realtà, un idolo. Un altro aspetto dell'apertura all'Alleanza emerge dal testo del Deuteronomio. Il sabato lì è collegato alla liberazione dall'Egitto: come il popolo è stato schiavo, così lavora per sei giorni. Ma il settimo giorno è di non lavoro, segno che Israele non è più schiavo perché Adonai lo ha affrancato. In memoria di questo dono, l’Israelita smette di lavorare, ma ugualmente non fa lavorare né suo figlio nè sua figlia, i suoi famigliari, il suo bestiame ed anche lo straniero che vive presso di lui. Egli manifesta così che la sua casa non è una casa di schiavitù, e proclama la fondamentale uguaglianza fra tutti poiché, quel giorno, coloro che abitualmente lavorano per lui, sono «come lui». Non sono queste le condizioni perché un'autentica alleanza unisca i membri di un popolo?

Così dunque, in profondità, il precetto centrale del sabato ingiunge a Israele di coltivare una logica di alleanza in mancanza della quale non può esserci un'economia del consenso e una perdita di signoria, grazie alla quale fare posto all'Altro e agli altri.

* Docente di Esegesi – Facoltà di Teologia dell’Università Cattolica di Luovain-la-Neuve
(tratto da Il mondo della Bibbia, n. 51)

Qui l'originale

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