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La “Madre Teresa” del Brasile: ha avuto mille figli, ha salvato un popolo

Hermana Genoveva – it

© DR

CELAM - pubblicato il 16/05/14

La storia di suor Genoveva

Il caso di suor Genoveva e delle sue compagne, come quelli di Charles de Foucauld e di Madre Teresa, sono esperienze che dimostrano come il desiderio di fraternizzare si stia realizzando davvero, in certi casi grazie all’amore eroico di pochi; il caso di una comunità agropecuaria del Messico, le “Città di Maria” e quello di Mosuo (Cina) sono alcuni esempi che corroborano l’ipotesi che c’è un altro mondo da scoprire.

Genoveva, più nota come Veva (francese di origine), viveva da 60 anni con i Tapirapé, vicino a Confresa, nel Mato Grosso (Brasile). La missionaria viveva nel villaggio di Urubú Blanco, il più grande.

Insieme a due consorelle è arrivata in Brasile il 24 giugno 1952 per vivere insieme agli Apyãwa della tribù Tapirapé in condizioni simili a quelle dei nativi, iniziando a mangiare le stesse cose e ad avere lo stesso stile di vita.

L’antropologo Darcy Ribeiro considera questa esperienza “una delle più esemplari della storia dell’antropologia”, e il teologo Leonardo Boff la propone come modello per la vera “evangelizzazione”.

Le suore hanno imparato la lingua dei locali, i loro costumi e la loro fede, riuscendo a evitare che questo popolo si estinguesse. Quando sono arrivate c’erano solo 43 membri. Il capo ha detto loro con tristezza che lì tutto aveva un valore tranne loro: “La terra vale, i pesci valgono, il legno vale, solo gli Apyãwa non valgono”, diceva quasi piangendo.

L’amore di queste suore ha però rafforzato l’autostima degli Apyãwa, e ha convinto le donne a unirsi ai loro uomini.

Il 24 settembre 2013, quando Genoveva è morta all’età di 90 anni, il villaggio Tapirapé dell’Araguaia era popolato da circa mille Apyãwa. Genoveva ha vissuto come un membro della tribù. Quella mattina aveva ammassato del fango per sistemare la casa. Nel pomeriggio è morta tra le braccia della consorella Odile.

Una grande costernazione ha invaso il villaggio. I canti funebri si sono protratti a lungo, la notte e il giorno successivo. Ovunque si udivano pianti e lamentazioni.

La missionaria è stata sepolta nella casa in cui viveva secondo il rito Apyãwa, su un’amaca appesa ricoperta di terra setacciata dalle donne e in seguito bagnata per consolidarsi come fango, seguendo un rituale preciso accompagnato da canti. Il corpo di Genoveva è lì da allora, a circa 40 centimetri dal suolo, nell’amaca in cui dormiva tutte le notti, tra quelli che ha scelto perché fossero il suo popolo.

La notizia della sua morte ha attirato visitatori da tutto il mondo. Alcuni hanno viaggiato per 1.100 chilometri per vederla sulla sua amaca. Il capo Tapirapé ha sottolineato il rispetto con il quale il suo popolo è stato sempre trattato dalle suore in questi sessant’anni di convivenza.

“Noi Apyãwa dobbiamo la nostra sopravvivenza a queste suore”, ha detto. E così Genoveva è diventata un “monumento di coerenza, silenzio e umiltà, di rispetto e riconoscimento del diverso”, ha osservavo Antonio Canuto, “provando come sia possibile, con azioni semplici e piccole, salvare la vita di tutto un popolo”.

Se il cristianesimo è un progetto comunitario di salvezza, queste Piccole Sorelle di Gesù stanno dimostrando che il progetto è possibile tra bianchi e aborigeni, nel nord-est del Mato Grosso, come hanno fatto Charles de Foucauld all’inizio del XX secolo nel deserto dell’Algeria e Madre Teresa in India, accompagnando ogni moribondo a morire nella propria fede, come tutti coloro che si avvicinano al diverso non per parlargli dell’amore di Dio ma per essere quell’amore, per convivere, conoscere e valorizzare la sua diversa cultura e religione.

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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