Cosa lega impresa, libero mercato e sviluppo della libertà e della dignità umana?
Gregg: Una buona descrizione di questo intreccio si può ritrovare in un documento redatto nel 2012 dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e intitolatoLa vocazione del leader d’impresa. Probabilmente è la migliore dichiarazione, da un punto di vista cattolico, su come gli affari facilitino direttamente e indirettamente il progresso umano. Di particolare impatto è l’insistenza del documento nell’affermare che gli affari apportano un notevole contributo al bene comune attraverso l’attività economica. Detto in altro modo, il loro contributo non consiste in primo luogo in quanto possano donare a questo o quella causa, anche se si tratta di cause benefiche. Il loro contributo primario al bene comune si ha piuttosto e più precisamente quando si permette alle imprese di occuparsi appunto di impresa.
Oltre a richiamare temi già sviluppati da Giovanni Paolo II (le parole "creatività" e "iniziativa" sono ripetute quasi allo sfinimento), il documento La vocazione del leader d’impresa evidenzia anche i beni non materiali che possono derivare da attività economiche. Imprese e mercati, afferma, offrono "un contributo senza pari al benessere materiale e persino spirituale dell’umanità”. Si tratta di un linguaggio veramente potente. Non solo infatti le imprese sono il mezzo normale attraverso cui possiamo soddisfare le nostre necessità materiali e i nostri desideri legittimi. Ma costituiscono anche un ambito nel quale le persone possono partecipare ai beni morali di base che definiscono la nostra umanità.
Lei si è lamentato in più occasioni della progressiva perdita d’identità che si osserva in quelle associazioni cristiane che hanno percepito fondi statali fino a ritrovarsi invischiate sempre più in una dipendenza finanziaria e inibite nel riuscire a seguire fedelmente e autenticamente la concezione cristiana della moralità e della cultura. Quali possono essere le ricadute?
Gregg: Quando i fondi derivanti da contratti statali cominciano a costituire una parte significativa delle risorse finanziarie di organizzazioni cattoliche, è proprio quello il momento in cui la loro cultura può cominciare facilmente a mutare. Fare affidamento su un tale sostegno incentiva ad evitare confronti potenziali con le autorità statali circa le modalità e le ragioni del loro operato. Capita sovente alle organizzazioni cattoliche che ricevono – o sono alla ricerca – di contratti governativi di arrivare a sminuire sottilmente (e a volte neanche così sottilmente) le loro radici cattoliche, la loro missione e identità. Così facendo cessano lentamente di essere istituzioni che partecipano della libertas ecclesiae. Fino ad arrivare a trasformarsi in ciò che George Weigel descrive a ragione come “meri veicoli per la fruizione di un sussidio definito e approvato dallo Stato”, piuttosto che cercare di mettere in pratica il comandamento di Cristo ad amare concretamente il nostro prossimo con la pienezza della verità rivelata da Cristo stesso alla sua Chiesa.
C’è poi l’aspetto deprimente che il fatto che entità cattoliche accettino finanziamenti statati può incoraggiare molte persone che lavorano in tali organizzazioni a vedere nel governo il loro principale padrone. Ripeto, ciò non dovrebbe destare stupore. Se l’80% del reddito di una associazione caritatevole cattolica proviene da contratti statali, il governo è divenuto a pieno titolo il loro ufficiale finanziatore. Ma il risvolto ancora più inquietante è la prospettiva portata avanti da alcune organizzazioni cattoliche che usano il pretesto del finanziamento statale per legittimare la loro volontà di diluire qualsiasi impegno concreto cattolico in appelli così vaghi alla giustizia sociale, che a volte si fa fatica a distinguerli dai programmi di movimenti sociali secolari e progressisti.