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Contro la mafia vince l’educazione

Cheerful group of friends – it

© Conrado

Chiara Santomiero - Aleteia Team - pubblicato il 22/01/14

La Chiesa a fianco dei figli dei mafiosi per restituire speranza

I figli dei mafiosi possono cambiare vita? Si può sottrarre un giovane all'influenza del suo ambiente e della cultura nella quale viene cresciuto? E' la scommessa educativa per la quale ha dato la vita il beato p. Pino Puglisi ucciso dalla mafia proprio perché sottraeva alla malavita i ragazzi proponendo loro uno stile di vita alternativo, basato sui valori contrari a quelli della violenza e della sopraffazione. Ed è anche il testimone raccolto da quanti nella Chiesa operano con ragazzi a rischio tentando di aprire loro orizzonti diversi.

A Polistena (Rc), nella Piana di Gioia Tauro, i Padri Concezionisti gestiscono una casa famiglia nella quale ospitano 12 minori a rischio, tra i 7 e i 14 anni, figli di mafiosi. Nel tempo la struttura ha accolto oltre cento minori calabresi, con alterne fortune. “Se metto sui piatti della bilancia vittorie e sconfitte – ha raccontato il responsabile della “Comunità Luigi Monti”, fratel Stefano Caria, al giornalista Toni Mira di Avvenire (22 gennaio) – forse ottengo un pareggio ma mi pesano molto le sconfitte anche se poi sono proprio quelle che ci impegnano a cambiare strategie per essere più esigenti nei nostri progetti educativi”.

L'esperienza ha dimostrato che esiste uno spazio possibile nel quale fare breccia. “C’è davvero una grande possibilità di lavorare, pur tenendo conto dell’incidenza delle famiglie da cui provengono – ha aggiunto Caria – . Se non ne fossimo convinti dovremmo chiudere. Per questo puntiamo soprattutto sulla relazione con loro. In ogni bambino c’è la parte buona che deve essere aiutata ad uscire fuori. Se riescono a scoprirla possono poi scegliere. E restano stupiti che vengano riconosciute altre loro qualità diverse da quelle a cui sono stati abituati in famiglia. E non sono poche…” (Avvenire 22 gennaio).

E se instaurare una relazione con bambini sbandati nelle piazze dei paesi, facile obiettivo di futuro arruolamento da parte della criminalità organizzata, può essere più semplice, l'osso duro è rappresentato proprio dai figli dei mafiosi. “Da piccoli hanno già imparato tutto dai genitori e dai fratelli. Conoscono bene il modo di fregarti. Bisognerebbe incominciare a 4 anni perché a 10 è tardi…forse…” (Avvenire 22 gennaio).

Alcune richieste di aiuto arrivano anche dai contesti familiari, soprattutto dalle mamme, che vorrebbero per i figli una vita diversa da quelli di mariti e padri, ma molto spesso gli operatori si trovano di fronte una finzione di collaborazione o il tentativo di riprenderli dalla casa famiglia. Ostilità, negazione, accuse di tradimento della famiglia: spesso arriva solo questo dalla cerchia dei clan a chi tenta di intraprendere una strada diversa. Chi non ricorda la tragica storia della diciassettenne Rita Atria, la figlia di un piccolo boss di Partanna (Tp) che, sull'esempio della cognata Piera Aiello, raccontò al giudice Borsellino tutto ciò che sapeva dei traffici e degli intrecci mafiosi del suo territorio? La stessa madre la rinnegò e quando Rita si suicidò, sconvolta dall'assassinio del giudice Borsellino, suo solo amico nella solitudine della vita di collaboratrice di giustizia, demolì addirittura la sua pietra tombale al cimitero a colpi di martello.

Per questo è ancora più necessario sostenere i giovani che decidono di interrompere il legame con la storia malavitosa della propria famiglia trovando il coraggio di cambiare vita. Aiutare i figli dei testimoni di giustizia con una legge che permetta loro di cambiare identità anagrafica è la richiesta rivolta alla presidente della Camera Laura Boldrini da don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, l'associazione contro le mafie. E' il caso di Denise Cosco, la figlia di Lea Garofalo, la donna uccisa dal compagno per aver collaborato nelle indagini contro le ‘ndrine calabresi. La ragazza vive da anni sotto protezione. “Denise – ha spiegato don Ciotti – vive in una specie di ‘terra di mezzò. Ci sono tante persone che vivono in questa condizione: non sono collaboratori, nè testimoni di giustizia. Come Libera ne conosciamo tante di queste persone, che non possono avere il cambiamento anagrafico, quindi non possono avere una vita normale, perché vengono ‘intercettate' e identificate da chi le cerca” (Antimafia Duemila 25 novembre 2013).

E' accaduto a una donna calabrese con tre figli, senza marito, probabilmente ammazzato da quelli che una volta erano suoi complici. “Mi ha chiesto aiuto – ha raccontato don Ciotti -, mi ha detto mi aiuti a far crescere in miei figli in un ambiente sano. Non è una pentita, non è una testimone e quindi?”. Libera le ha fatto cambiare città tre volte, perché ogni volta è stata individuata dai clan ma così non può lavorare e i figli hanno difficoltà a scuola. “Per questo – ha spiegato Ciotti – chiediamo una proposta di legge per aiutare questa gente che vuole rompere il cerchio, persone che devono essere tutelate perché hanno voglia di vivere”. Denise, ha concluso don Ciotti, “vuole vivere. È coraggiosa come lo era la madre, che non ha voluto fare compromessi e , una volta che si è trovata di fronte a un bivio della sua vita, non ha avuto paura di scegliere da che parte stare” (Antimafia Duemila 25 novembre 2013).

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