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Camilliani, essere accanto ai malati con professionalità e umanità

padre Renato Salvatore

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Lucandrea Massaro - Aleteia Team - pubblicato il 16/10/13

Intervista a padre Renato Salvatore, Superiore Generale dei Ministri degli Infermi
San Camillo inventò la professione dell'infermiere e si dedicò ad essa sui campi di battaglia del '600, o tra i poveri delle campagne. Morì nel 1614 a Roma e i figli spirituali che ha lasciato a continuare la sua opera hanno aperto da qualche mese il proprio anno giubilare nel quarto centenario dalla sua dipartita. Una occasione per festeggiare e far conoscere un santo che mise tutto se stesso nella cura e nel servizio degli altri. Molto attivi nel campo sanitario i camilliani hanno di recente riconfermato alla propria guida, Superiore Generale, Padre Renato Salvatore. Aleteia lo ha intervistato per iniziare a scoprire questo IV centenario camilliano. 
Padre Renato, chi era San Camillo de Lellis di cui celebrate i 400 anni dalla morte?
Salvatore: È stato il fondatore del nostro Ordine religioso il cui fine è di testimoniare nel mondo della salute e della malattia l’amore misericordioso di Dio. Un compito che lui ha saputo affrontare in modo eccellente dal momento che il Papa Benedetto XIV lo ha definito “iniziatore di una nuova scuola di carità verso gli infermi”. E successivamente è stato proclamato patrono universale dei malati, degli operatori sanitari e delle strutture ospedaliere. Ha realizzato una profonda riforma dell’assistenza sanitaria, è da considerare un rivoluzionario della cultura medico-sanitaria e l’inventore dell’infermiere moderno.
Lei è stato riconfermato Superiore Generale proprio in questo momento molto importante per la vita del suo Ordine: 1200 religiosi, 20 mila laici, oltre 40 paesi in cui operate. Numeri di tutto rispetto, davvero i Camilliani sono a loro volta una Task Force della Chiesa universale in un mondo segnato dalla sofferenza e dai conflitti. Quali prospettive per il futuro?
Salvatore: La celebrazione del IV centenario della morte di San Camillo è una grande opportunità per tutti coloro che si ispirano al suo carisma e alla sua spiritualità. Molte delle iniziative in cantiere tendono a far rivivere nell’oggi la straordinaria spinta delle origini: la fedeltà a quei valori deve coniugarsi con la capacità di rispondere con creatività alle grandi sfide presenti nei diversi contesti (50 nazioni) in cui operano i membri della Grande Famiglia di S. Camillo (Religiosi Camilliani, Suore Figlie di San Camillo, Ministre degli Infermi di San Camillo, Istituto Secolare Missionarie degli Infermi “Cristo Speranza”, Famiglia Camilliana Laica, volontari). Se riusciremo a essere creativi nella fedeltà avremo la forza interiore per continuare a ricollocarci nelle periferie del mondo della salute, segnato da tante ingiustizie e assenza di solidarietà.
Perché farsi camilliani oggi? 
Salvatore: San Camillo avrebbe risposto: “Per vivere già nel paradiso terrestre su questa terra con la certezza di vivere eternamente in quello celeste”. Chi si dona a Cristo e lo serve nei malati esperimenta ogni giorno la verità delle parole di Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Questo è un grande segreto che spesso sfugge ai giovani in cerca della felicità: essa non la si potrà mai possedere se non donandosi!
Perché Lei è camilliano? Come è nata la sua vocazione?
Salvatore: Non per scelta mia, ma perché Lui ha scelto me. Da piccolo quasi all’improvviso, senza segni premonitori, decisi entrare in un seminario dei francescani, invece non ci misi mai piede: credo il Signore avesse un altro disegno da realizzare e così all’età di 11 anni partii dal mio paese (Ripa Teatina, provincia di Chieti) per il seminario dei Camilliani di Roma. Fu per me un grande viaggio, oggi non ancora terminato.
La guerra, la fame, le migrazioni di massa. Sono tematiche giornaliere alle quali l'occidente si sta più che rassegnando, abituando, come un pezzo della scenografia del mondo moderno, senza più viverle con angoscia. Il Papa sul tema della pace e su quello dell'accoglienza dei migranti ha subito sferzato le coscienze, si è subito messo in gioco. Cosa ne pensa?
Salvatore: Dico semplicemente che Francesco è, come chi l’ha preceduto, il Papa di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno. Sono molto grato a Dio per questo dono: Papa Francesco apporterà radicali riforme di cui la Chiesa tutta ha estrema necessità per essere fedele a Dio e per servire gli uomini. La sua voce e soprattutto il suo esempio oltrepassano con immediatezza i confini della Chiesa, influenzando positivamente tutta l’umanità. 
Oggi il Papa chiede alla Chiesa di spingersi verso la “frontiera” di abbandonare le posizioni di comodità e di farsi prossimi alla sofferenza. San Camillo sarebbe orgoglioso di servire Francesco? Come si traduce questa richiesta per voi, concretamente?
Salvatore: Tra l’altro, per noi si traduce nell’andare fuori per incontrare e condividere. In concreto, non legarci alle strutture (peggio se molto grandi) e alla loro amministrazione per essere liberi e leggeri nel cammino che conduce a chi non potrà mai essere al “centro”, ma è costretto a vivere ai margini della società senza essere ascoltato nei propri bisogni né considerato nella propria dignità. Sfide presenti già all’epoca di San Camillo e che lui ha affrontato unendo le forze di tutti coloro che condividevano la sua battaglia in favore dei “poveri malati”. Una strategia che ha interessato i più grandi ospedali del suo tempo, i malati più temuti (gli appestati), i malati a domicilio e i feriti sui campi di battaglia (la prima croce rossa).
I malati, gli infermi, gli esclusi vale a dire – davvero – gli ultimi nel senso evangelico, quindi i più prossimi a Cristo. Come ci si accosta al sofferente senza farne una sorta di totem? Come si supera il rischio del “buonismo” e si resta autenticamente accanto a lui?
Salvatore: Camillo amava ripetere ai suoi religiosi: “Più cuore in quelle mani!”. Professionalità e umanità: ecco i due elementi fondamentali per essere positivamente accanto al malato. Detto diversamente, saper curare prendendosi cura della persona nella globalità dei suoi bisogni: fisici, psicologici e spirituali. Direbbe Benedetto XVI: non basta donare qualcosa a chi è nel bisogno; “devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona”.

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