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Giovani (e non) e lavoro: quelli che “startup”


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Simone Sereni - pubblicato il 23/08/13

Tanti ne parlano e il governo tenta di sostenerle: sono le piccole imprese fondate su un’idea innovativa. Speranza e sfida con qualche dubbio “all’italiana”


Hai una buona idea? Fatti coraggio, definiscila bene e comincia da solo a svilupparla: falla diventare un’impresa. Start-up, insomma, per dirla come piace. Qualcuno, forse, ti aiuterà e ti finanzierà. 

È lo spirito di chi vede (e spiega) la crisi economica anche come terreno propizio per chi ha qualcosa di nuovo da dire e da fare; sullo sfondo il mito americano della big company miliardaria nata un giorno in un garage per mano di qualche studente visionario e incompreso. Secondo Andrea Pili – che “dopo oltre 15 anni” di vita imprenditoriale spesa in Italia da innovatore sul web, ha deciso “di intraprendere una nuova avventura nella Silicon Valley” – “una bella idea può nascere dappertutto. Ma solo in un posto può avere la possibilità di crescere e diventare grande. È la Silicon Valley, o meglio, la Bay Area” (CheFuturo.it, 22 agosto).

Ma qualcuno crede possa succedere anche in Italia. Per esempio, al Meeting per l’amicizia fra i popoli, tradizionalmente organizzato da Comunione e Liberazione in questo periodo dell’anno, c’è uno spazio dedicato alle start-up e alle storie di chi “ce la sta facendo” anche qui da noi (alcuni dicono uno su 10): c’è per esempio il 32enne esperto di marketing on line che dal nulla ha dato lavoro a 20 persone e fattura 3 milioni; e quella dello startupper meno giovane che riconverte su una piattaforma web di successo la sua esperienza nel settore immobiliare (“Quotidiano Meeting”, 21 agosto).



E ci crede anche il pur traballante governo Letta. Sebbene discussi e discutibili, sia il decreto Lavoro (76/2013) sia il cosiddetto decreto “del Fare” (69/2013) – ma anche il nascente progetto “Destinazione Italia”, votato ad attrarre capitali esteri sempre più latitanti – dedicano una certa attenzione alla promozione della “start-up innovativa”; sia cercando di semplificare la burocrazia sia sfruttando una serie di programmi e fondi dell’Unione europea.
 
La questione chiave dei finanziamenti è però un tema critico. Lo è in generale, perché da anni le imprese faticano a dir poco ad ottenere credito dalle banche italiane. Figuriamoci per giovani imprenditori alle prime armi magari con un’idea talmente innovativa da risultare incomprensibile e senza garanzie. Ma secondo alcuni esperti del settore new media, anche laddove non manchino i fondi, il rischio per le startup è che essi si disperdano piuttosto che arrivare tutti a destinazione.



Secondo Massimo Melica, avvocato ed esperto di diritto applicato alle nuove tecnologie, bisogna  finanziare “direttamente le startup e non far passare i fondi disponibili “attraverso: incubatori, acceleratori d’impresa, società di capitale di rischio, spazi di coworking, organismi di finanziamento regionali, associazioni di Pmi e imprese tecnologiche. Ogni passaggio assorbe una piccola fetta del finanziamento” (massimomelica.net, 21 agosto). Melica fa risuonare l’allarme e l’invito a una “operazione trasparenza” sui fondi pubblici di un altro blogger esperto di nuove tecnologie, Antonio Lupetti. Secondo Lupetti, nonostante l’intermediazione, si rischia di finanziare senza controlli adeguati anche delle vere truffe, come quella della GreenFluff (Workup.com, 21 luglio).



La strada maestra da percorrere secondo alcuni, anche per evitare queste distorsioni, è la vecchia e cara “colletta”, che in epoca 2.0 si chiama crowdfunding: io startupper, direttamente o tramite una delle ormai numerose piattaforme web specializzate, spiego e “vendo” alla gente (crowd) le mie idee e spero che qualcuno voglia versarmi direttamente in tasca anche solo 1 euro per farle diventare concrete. Senza intermediari.

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