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La riforma della Curia in un’ottica di economia aziendale

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Queriniana Editrice - pubblicato il 25/07/13

Un organismo collegiale di governo, maggiore flessibilità nell’impiego del personale: alcune proposte degli esperti di management e imprenditoria.

di André Zund (in Stimmen der Zeit)

La curia romana va considerata, per una volta, da altre prospettive. Voglio tentare di applicare sensatamente alla chiesa cattolico-romana conoscenze provenienti dal bagaglio di sapere e di esperienze  proprio dell’imprenditoria. I funzionari che ruotano attorno al papa hanno copiato spesso, nel corso della storia, le strutture di governi secolari. Imparare da esperienze proprie del mondo non è dunque contrario alla tradizione del Vaticano, anzi è tradizione antica. La chiesa d’oggi può imparare qualcosa anche dagli esperti di management.

Chiesa universale e gruppi societari mondiali

La chiesa non è un’impresa  (sebbene qualcuno abbia già parlato anche di una “impresa di servizi pastorali”); la chiesa universale non è una multinazionale. E tuttavia esistono dei parallelismi tra la chiesa universale e una holding mondiale: si potrebbe, ad esempio, analogamente ad un gruppo societario mondiale, indicare la chiesa cattolica romana come un insieme di chiese locali e particolari che formano una unica comunità ecclesiale sotto una direzione unitaria. Sia per gruppi societari che per la  chiesa vige lo stesso principio: unità nella pluralità.

Tra chiesa universale e gruppi societari mondiali ci sono dunque le seguenti caratteristiche comuni: sono entrambi dei sistemi che operano in ambienti differenti, hanno una direzione unitaria, presentano una struttura gerarchica, devono trovare una via di mezzo tra centralizzazione e decentralizzazione dei processi decisionali e devono lottare contro la burocrazia. Le differenze stanno soprattutto nel fatto che la chiesa non è soltanto una organizzazione sociale;  stando alla sua comprensione, essa è di origine divina e ha un mandato divino.

La curia attuale: un prodotto della storia e non della teoria del management

La curia romana è paragonabile ad un complesso edificio antico, al quale, nel corso del tempo, sono stati aggiunti fabbricati dei più diversi stili architettonici e le cui facciate sono state, di epoca in epoca, nuovamente dipinte, senza che siano state ogni volta sottoposte ad un rinnovamento complessivo.

Gli inizi della curia risalgono agli ultimi secoli del primo millennio, quando un piccolo numero di persone aiutava il vescovo di Roma nella gestione delle attività di amministrazione e di redazione dei documenti. Una prima spinta alla centralizzazione si registrò nella seconda metà del secolo XI e nel secolo XII, quando con la riforma di papa Gregorio VII ebbe luogo un trasferimento del potere al concistoro dei cardinali. Ne seguì un incremento del  personale di curia; alle funzioni centrali, in continua espansione,  in particolare alla funzione finanziaria, si aggiunse infatti anche una istanza giuridica di appello. Il nepotismo dei papi del Rinascimento appoggiò gli sforzi assolutistici per una monarchia papale. La riforma di papa Sisto V, del 1588, divise il concistoro in ambiti specifici sotto la direzione di cardinali, le cosiddette Congregazioni, cosa che fece diventare la curia una struttura burocratica difficilmente gestibile, che si identificò sempre di più con il vertice monarchico, ossia con il papa.

Nel secolo XIX la perdita dello stato della chiesa riportò la chiesa romano-cattolica alle sue dimensioni spirituali, e il concilio Vaticano I dichiarò, quasi a compensare la perdita del potere secolare, il dogma della infallibilità del papa in questioni di fede e di morale. La riforma di papa Pio IX  si limitò a sciogliere congregazioni divenute obsolete e a creare la congregazione dei sacramenti, che si doveva contrapporre alla secolarizzazione del matrimonio che andava imponendosi. La Segreteria di Stato divenne il vero e proprio organo di intervento del papa. Neppure il concilio Vaticano II potè intraprendere una riforma della curia perché il papa la riservò a sé come una questione di sua specifica competenza. Negli anni 1967 e 1968 papa Paolo VI, egli stesso uomo di curia, diede mano ad una riforma della curia. Questa comportò sì una quantità di ridenominazioni, di chiarificazioni di competenze, di fusioni e ripartizioni, ma nessuna riforma strutturale. Nemmeno papa Giovanni Paolo II riuscì a fare una vera e propria riforma della curia. Ebbero più successo i suoi sforzi per le finanze del Vaticano, sforzi che in seguito ai noti scandali, portarono a decisioni su un migliore controllo della gestione finanziaria e ad una maggiore comunicazione dei bilanci.  

Oggi la curia romana è formata dalla Segreteria di Stato, nove Congregazioni, undici Consigli, tre Tribunali, nonché di ulteriori Segretariati e uffici. Le mini-riforme finora compiute della curia non introdussero alcun cambiamento di paradigma, ma rimasero attaccate all’immagine della chiesa finora nota, di stampo medioevale, anzi  rafforzarono – per lo più in modo sottile – l’orientamento centralistico della curia quale strumento di potere  di un papato monarchico. Quale forma la curia debba assumere in futuro, dipende essenzialmente dall’idea di governo della chiesa, ossia dal modello di chiesa.

Due modelli di chiesa in contrapposizione

Due modelli di chiesa stanno uno di fronte all’altro: da una parte, quello ancorato nell’autoritarismo romano-cattolico, che comprende la chiesa in modo gerarchico, centralistico e uniforme, e dall’altra parte quello ancorato nel paradigma postmoderno contemporaneo ed ecumenico, che si radica in un’idea collegiale di chiesa. Dopo il concilio, il cardinale Leon-Joseph Suenens ha definito, in un’intervista, i due modelli di chiesa secondo l’angolo visuale di centro e periferia della chiesa. Nella chiesa le tensioni tra il “centro”, Roma, e la “periferia”, il resto della chiesa universale, scaturiscono, secondo lui, dalla tensione tra due diverse modalità di considerare la chiesa: una, che parte dal “centro” e va verso la “periferia”, ad esso subordinata; l’altro, che parte dalle chiese locali autonome, unite alla chiesa di Roma quale centro dell’unità tra tutte.

Montesquieu ante portas

I rappresentanti della chiesa non si stancheranno di ripetere che la chiesa non è una moderna democrazia e che perciò non è tenuta a seguire alcun principio dello stato di diritto, quasi fosse un merito poter rinunciare ancor oggi alle conquiste della Rivoluzione Francese. La questione è soltanto questa: se una istituzione universale del genere, con la sua elevata pretesa morale, all’inizio del terzo millennio sia credibile abbastanza per trovare nel mondo ascolto e rispetto, come essa propriamente meriterebbe. Una fondamentale idea filosofico-politica, che è alla base di ogni costituzione moderna, purtroppo nella chiesa cattolica è ancora poco penetrata: si tratta della dottrina della separazione dei poteri, che risale a Montesquieu, per impedire abusi di potere. Se un prestito dall’ambito secolare ha realmente senso, è proprio l’accettazione di provati principi propri dello stato di diritto, quale la divisione dei poteri in esecutivo, legislativo e giudiziario.

Secondo questo principio, il potere supremo nella chiesa potrebbe,  a grandi linee, articolarsi nel modo seguente:

Esecutivo: un potere collegiale al posto di un vertice monarchico, come si mostrerà più avanti.

Legislativo: il sinodo dei vescovi. Nella chiesa esso deve passare da un organo consultivo (finora ampiamente inefficace) del papa a un organismo (realmente in grado di con-decidere) a carattere legislativo. Ad esso dovrebbe essere assegnato – analogamente alla corte dei conti e agli organi parlamentari di vigilanza presenti negli stati – uno strumento di verifica. Come tale potrebbe fungere la prefettura per le faccende economiche, a cui finora è stata affidata la revisione interna della curia e che potrebbe diventare un organismo autonomo con funzioni di controllo finanziario, di controllo del sistema e di controllo della gestione amministrativa.

Giudiziario: esso è dato dai tre tribunali della curia: la Penitenzieria Apostolica, che si occupa di scomuniche da parte della Santa Sede; la Sacra Romana Rota, che per lo più impegna autorità giudicanti e nella quale si trattano principalmente processi relativi alla nullità dei matrimoni; inoltre, la Segnatura Apostolica, il supremo tribunale della chiesa, del cui ambito di competenza fa parte la giurisdizione amministrativa.

Al centro dell’interesse, per quanto riguarda la chiesa, sta l’esecutivo, a cui intendiamo rivolgere l’attenzione in quanto segue.

La futura guida della chiesa: un organismo collegiale di governo

Le odierne direzioni d’azienda sono,  nella stragrande maggioranza dei casi, strutture collegiali con differenti organizzazioni interne. Nei gruppi societari mondiali un vertice costituito da un uomo solo si trova solo molto raramente  – il francese PDG (Presidént- Directeur Générale) può essere un esempio –  ma poi tale vertice è inserito in un sistema di “checks and balances”, come lo conosciamo a partire dalle istituzioni del Presidente francese e specialmente di quello americano. Con una direzione collegiale d’azienda si contrasterà il rischio di una conduzione centrata puramente sulla personalità e perciò fondamentalmente instabile, che determina mancanza di continuità.  Un collegio troppo grande è inadatto a dirigere operativamente un sistema complesso, perché è troppo pesante. A un organismo, i cui membri non operano in modo pienamente ufficiale, manca la caratteristica della disponibilità in ogni momento, un requisito di cui hanno bisogno specialmente le strutture collegiali più piccole. Da sconsigliare, per quanto riguarda la direzione operativa, è anche un sistema di conduzione duale, come papa e collegio episcopale, e questo sulla base di esperienze negative in economia e in politica, dal momento che in questo modello conflitti interni di competenza sono nocivi per l’efficienza della gestione.

Che cosa si può dedurre per la chiesa dalla dottrina e dalla prassi che riguardano modelli imprenditoriali di direzione?  Sulla base della prospettiva del management, al posto del papato nella sua forma odierna e del collegio episcopale, sarebbe pensabile un organismo formato da cinque  a nove persone, ossia un gruppo-nucleo nel quale il papa dovrebbe avere assolutamente una posizione più forte di quella di un semplice “primus inter pares” oppure di un portavoce dell’organo direttivo. Mi sembra importante che l’odierna distanza gerarchica tra il papa e i suoi più importanti responsabili di compiti direttivi venga eliminata e sia sostituita da un collegium con responsabilità collettiva. In questo organo supremo di direzione dovrebbero prendere posto personalità con esperienza di direzione, provenienti da dicasteri  decisivi e da regioni importanti. Se i singoli membri dell’organo di direzione si possano concentrare solo sulle decisioni da prendere in comune oppure se, oltre a ciò, possano assumere anche una responsabilità operativa, andrebbe dettagliatamente chiarito; infatti, entrambi i modelli presentano vantaggi e svantaggi. Non è possibile dare un consiglio univoco su come agire. Una affermazione tendenziale dice che il modello della unione personale, il cosiddetto “principio dei due cappelli”, nasconde il pericolo del sovraccarico dei dirigenti con compiti generali e specifici e del potenziale imporsi di egoismi di settore. Viceversa l’unione personale possiede il vantaggio che i membri dell’organismo direttivo supremo non si rendano estranei rispetto alla realtà, bensì a motivo della familiarità con il quotidiano dei loro ambiti  migliorino lo stato informativo della direzione e così contribuiscano decisamente ad elevare la qualità delle decisioni.

Il fatto che un esecutivo collegiale della chiesa sembri essere in contraddizione con il primato definito nel concilio Vaticano I non deve trattenere coloro che hanno delle responsabilità nella chiesa dal continuare a porre la questione delle strutture di direzione.

La curia romana: braccio del papa, centrale o stanza di compensazione?

All’inizio del suo pontificato papa Paolo VI tenne un discorso ai membri della curia. In esso il papa delineò, con diverse formulazioni, come egli vedeva la curia.  E’ il discorso di “un organo di diretta appartenenza e assoluta ubbidienza, di cui si serve il pontefice romano per svolgere la sua missione universale”. In breve: la curia è lo strumento di governo del papa.

Con questo modello di curia, corrispondente al paradigma della chiesa autoritaria, i padri conciliari del Vaticano II non erano d’accordo. Essi riconoscevano sì che, da una parte,   le autorità curiali sono organi ausiliari del papa, ma sottolineavano, d’altra parte, che l’operare di queste autorità deve essere orientato al bene delle chiese particolari. In tal modo il concilio ha chiaramente segnalato che la curia non rappresenta soltanto un braccio prolungato del papa, un posto di comando, bensì una centrale della chiesa universale.

Guida della chiesa e Centrale della chiesa stanno in un reciproco rapporto funzionale. La curia compensa in qualche modo la instabilità personale di un vertice ecclesiale individuale e da ciò dipende la sua importanza. Con il passaggio dalla direzione monarchica a quella collegiale della chiesa viene smorzato anche il ruolo della curia, perché una direzione collegiale è più stabile di una individuale. Che la curia sia al servizio anche del papa, è fuori discussione. Se la curia però non è più soltanto uno strumento di governo solo del papa, allora nella sua organizzazione ha una parola da dire anche il collegio episcopale. In futuro difficilmente si ammetterà che il papa indichi la curia come “sua res”, sottraendola alla discussione in un concilio o in un sinodo di vescovi.

Anziché perderci nel groviglio dell’organizzazione attuale della curia, vogliamo delineare, anche solo a grandi linee, una possibile organizzazione futura di essa. Nel far questo partiamo da un principio di esperienza di tipo organizzativo: “Structure follows strategy” (la struttura segue la strategia). Secondo questo principio la forma organizzativa deve seguire l’orientamento strategico, che a sua volta dipende dal modello di chiesa. Se l’idea complessiva di chiesa cambia, ciò ha anche delle conseguenze per le strutture che servono alla sua realizzazione.

Il modello collegiale di chiesa, sviluppato nel Vaticano II, con lo spostamento del baricentro dal centro verso le unità periferiche, richiede una centrale curiale orientata alle chiese locali e alle conferenze episcopali, con strutture più semplici, più snelle e più trasparenti, e con elementi innovativi.

Esistono approcci che orientano verso una struttura organizzativa tridimensionale: certe unità sono competenti per determinati territori (Propaganda Fide, chiese orientali), altre sono responsabili per determinate questioni oggettive (fede, liturgia) e altre ancora per  specifiche categorie di persone (vescovi, religiosi). La suddivisione orizzontale per compiti, sul piano gerarchico immediatamente sotto la suprema guida della chiesa, dovrebbe corrispondere ad una “struttura regionale integrata”, perché questo tipo di organizzazione meglio permette un adattamento delle chiese locali ai differenti ambienti e ha bisogno di un limitato coordinamento da parte della curia. L’idea regionale dà alle chiese locali e particolari una maggiore libertà di autodeterminazione e porta ad una più profonda motivazione dei responsabili. Il tipo organizzativo regionale rende meglio giustizia al principio di sussidiarietà, tanto invocato nella dottrina sociale cattolica.

La complessità della chiesa universale si riflette in misura minore anche nella organizzazione della curia. Le differenti funzioni che una centrale ecclesiale come la curia deve gestire – parallelamente alla centrale di gruppi societari di una multinazionale – non vengono semplicemente soppresse nel caso di una riorganizzazione radicale. Così, attraverso un’ampia decentralizzazione dei processi decisionali, le funzioni di direzione e di armonizzazione perderebbero peso, mentre guadagnerebbero importanza le funzioni di consulenza e di prestazione di servizi. Come saldo la conseguenza sarebbe una riduzione dell’apparato di impiegati. Così, la curia si trasformerebbe in una centrale stanza di compensazione, in un forum per idee e programmi delle chiese locali, che vengono condivisi con altre chiese locali e da loro valutati.

Nella curia come centrale stanza di compensazione l’odierna Segreteria di Stato (che allora dovrebbe ben cambiare nome) potrebbe giocare un ruolo importante di coordinamento e mediazione. Essa sarebbe responsabile a che il flusso di informazioni tra centrale ecclesiale e chiese locali sia facilitato e dovrebbe  perciò far sì che la dominante mania di segretezza venga meno  e guadagni invece terreno la trasparenza, oggi universalmente richiesta; infatti, “Sunlight is the best desinfectant” (la luce del sole è il miglior disinfettante!).

La trasformazione funzionale delle unità di gestione finora operanti dovrebbe, nel caso di una autentica riforma della curia, andare anche oltre. Come secondo esempio si può accennare all’odierna Congregazione per la dottrina della fede, l’antica Inquisizione, poi Sant’Ufficio. L’organismo, composto da eminenti teologi, potrebbe all’inizio del terzo millennio fornire alla chiesa un servizio migliore che non quello di ridurre al silenzio dei teologi scomodi. Invece di inquisizione, innovazione! Si tratta della disponibilità e della capacità di configurare attivamente il cambiamento. Compito di sottosistemi innovativi è l’incremento della capacità di adattamento del sistema complessivo a sviluppi futuri, attraverso un continuo miglioramento di soluzioni esistenti e l’elaborazione di soluzioni totalmente nuove ai problemi. La “nuova” Congregazione per la dottrina della fede potrebbe stimolare lavori di ricerca, proporre tesi da discutere, e anche organizzare competizioni alla ricerca di idee e simposi. Sarebbe il “think tank” di una chiesa aperta, promotrice di futuro. Che compito affascinante!

Politica personale: il tallone d’Achille della riforma della curia

Ciò di cui la curia ha bisogno, oltre ad una riorganizzazione delle strutture, è una maggiore flessibilità nell’impiego del personale. Nella curia domina oggi il “principio clericale”; fondamentalmente i membri della curia sono dei religiosi. Ci sono solo poche donne, impiegate per lo più come segretarie e in compiti di scrittura. Ci sono anche dei laici in alcuni consigli, ma si tratta di eccezioni.

Alla rigidità del sistema ha contribuito, non da ultimo, il legame tra posizione ecclesiale e funzione curiale. Vige la regola che i detentori di alti uffici di curia abbiano il rango di vescovi, arcivescovi o cardinali. Che sarebbe di dignitari ecclesiastici della curia, dignitari di alto rango, se per qualunque motivo non possono più svolgere i loro compiti curiali? A ciò si aggiungono pesanti perplessità di natura giuridica. La combinazione di ufficio di curia esecutivo e ministero ecclesiale legislativo in una sola persona contraddice in modo pesante al principio della divisione dei poteri. Perciò in una riforma della curia occorre seriamente riflettere se non debba essere presa in considerazione una separazione tra ufficio di curia e ministero ecclesiale.

La rinuncia  ai due principi di politica personale finora seguiti avrebbe come conseguenza che molti più laici potrebbero ricoprire uffici di curia, che anche delle donne potrebbero assumere funzioni curiali di grado superiore, che accanto a un effettivo di membri di curia stabili, potrebbero operare nella curia a tempo determinato religiosi e laici provenienti dalle più diverse regioni, aree linguistiche, culture e tradizioni. In questo modo la curia diventerebbe un autentico luogo di scambio di idee.

La resistenza della burocrazia

Chiesa universale e gruppi societari mondiali, come abbiamo visto, hanno in comune la burocrazia. La curia fa parte delle strutture burocratiche più antiche, che ritengono sia loro compito garantire la continuità della loro organizzazione; infatti,  “la gerarchia romana vuole sopravvivere”. Tutte le burocrazie hanno perciò in comune la “resistance to change”, la resistenza contro i cambiamenti dello status quo.

Una disciplina, quale la curia come organo del papa ha consolidato, potrebbe dimostrarsi una via per accelerare il processo di riforma. Secondo la Costituzione Apostolica sulla curia romana di papa Paolo VI, del 15 agosto 1967, direttori, membri e consulenti delle sezioni interne vengono nominati di volta in volta sempre soltanto per cinque anni, ma le rinomine sono possibili e abituali. Più importante però è che i cardinali, che presiedono un dicastero, dopo la morte del papa devono dimettersi dai loro uffici e il nuovo papa, entro tre mesi dalla sua elezione, deve confermare tutte le nomine. Se sul trono di Pietro salirà un nuovo papa intenzionato alla riforma, potrebbe, in breve tempo, attuare i più importanti cambiamenti che riguardano le persone,  per realizzare una riforma duratura della curia.

Per riuscire a realizzare una riforma della curia è necessario un forte collegio episcopale che determini la direzione e si attenga con perseveranza alla linea scelta, e c’è bisogno di un papa forte che sia disponibile a rinunciare alla sua pienezza di poteri finora detenuta a favore della collegialità nel senso della “communio”, a commutare cioè il “potere di Pietro” nel “servizio di Pietro”.

Ricapitolazione

1.Il baricentro della chiesa deve situarsi in futuro fortemente nelle chiese locali e particolari, le quali sono più vicine alle persone che non la lontana curia. Lo vuole anche il principio di sussidiarietà difeso dalla chiesa.

2.Una riforma della curia è urgente, perché l’organizzazione attuale non corrisponde né al modello ideale di chiesa né ai bisogni  pratici del futuro.

3.In una riforma della curia dovrebbero essere valorizzate le conoscenze e le esperienze delle scienze del management, poiché si possono trovare molti parallelismi tra chiesa universale e gruppi societari mondiali.

4.Una riforma della curia presuppone la riforma della direzione della chiesa. Il vertice monarchico va sostituito da un governo collegiale, il centralismo romano va rimpiazzato da una decentralizzazione a favore delle chiese locali e particolari, così come aveva auspicato il concilio Vaticano II.

5.In una riforma della curia, accanto a moderni principi di gestione, si dovrebbero applicare anche i principi della divisione dei poteri.

6.La curia non è soltanto un braccio prolungato del papa, bensì anche la centrale di una organizzazione mondiale e un polo di idee delle chiese locali.

7.La riforma della curia richiede strutture semplici, snelle e trasparenti, come pure la installazione di punti innovativi.

8.La separazione tra posizione ecclesiale e funzione curiale contribuisce al rafforzamento della cooperazione dei laici e ad un maggiore flessibilità dell’apparato amministrativo.

9.Una riforma della curia è realizzabile, nonostante la resistenza della burocrazia, immediatamente dopo l’elezione di un uovo papa, a patto che ci sia realmente la volontà di riforma.

Chi odia la chiesa grida con Voltaire: “Ecrasez l’infâme!”. Chi ama la chiesa invoca riforme; costui non vuole la morte della chiesa, bensì che essa viva, anche nel nuovo millennio. Egli però ne ha abbastanza di professioni platoniche: “Ecclesia semper reformanda” (La chiesa deve sempre rinnovarsi). Vorrebbe vedere dei fatti, per poter una buona volta dire: “Ecclesia tandem reformata” (La chiesa si è finalmente rinnovata!”).

© 2000 by Stimmen der Zeit (Verlag Herder, Freiburg im Breisgau)
© 2013 by Teologi@Internet
Traduzione dal tedesco di Gianni Francesconi
Forum teologico diretto da Rosino Gibellini
Editrice Queriniana, Brescia (UE)

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