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Instagram aumenta ansia e depressione nei giovanissimi?

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Di sergey causelove|Shutterstock

Paola Belletti - pubblicato il 21/09/21

Il Wall Street Journal ha reso pubblici i risultati di una ricerca durata tre anni e realizzata da Facebook sugli utenti giovani e giovanissimi della piattaforma di cui è proprietario, Instagram. Soprattutto nelle ragazze si registrano disturbi di ansia e disturbi del comportamento alimentare. Ma cosa c'è davvero di nuovo sotto il sole?

I giovani su Instagram

Qualche mese fa mia figlia, la più grande, che ora ha più di 17 anni, mentre scrollava la home di Instagram, mi ha detto all’incirca così:

“Mamma, se scorro Instagram e guardo un po’ di profili che seguo sembra che tutti abbiano una vita bellissima, più bella della mia”. Aveva aggiunto che qualche volta, dopo essere stata un po’ sul social che finora è il più congeniale ai giovani, si sentiva triste.

Guardare le vite “postate”, ormai con una certa competenza da parte di molti ragazzini che sanno come valorizzare un’immagine, quali inquadrature o espressioni funzionano meglio, che tipo di sorriso persino…, e prestarsi ad un paragone con la nostra può generare tristezza e ansia.

Una condivisione apparente

Costringe ad un confronto impari e falsato, più che impietoso: l’altro ci si mostra ma non ci sta guardando e non può scendere con noi nell’agone della relazione (se non con i messaggi diretti, ma lì è il numero di followers a fare da freno). Non può, per esempio, mostrarsi incerto e goffo come ora ti senti tu, insaccato sul divano, vestito “da casa”, con le briciole di un biscotto che scivolano dalla tua bocca allo schermo.

E’ questa asimmetria emotiva, forse, una delle radici del disagio; il confronto con modelli perfetti e irraggiungibili c’era già (e già faceva danni) con le riviste di moda e la tv. Ora, la potenziale aggravante del social, è che l’esposizione è cresciuta in modo esponenziale e l’accesso a questi modelli è libero 24 ore su 24. Inoltre, se prima i modelli potevano appartenere ad una cerchia di privilegiati ora sembra che chiunque, tranne il sottoscritto che scorre il Feed e si deprime, possa avere una vita meravigliosa, amici, un bel fisico, hobby interessantissimi o storie commoventi da raccontare.

Se scopri il gioco non funziona più

Per questo la constatazione tanto lucida di mia figlia mi ha colpito, preoccupato ma anche rassicurato. Perché rendersi conto delle dinamiche, si sa, è già il primo passo per chiamarsi fuori da un gioco che inizia a fare male. Peraltro la sua esperienza generale sui social è invece positiva e fruttuosa: ha trovato amicizie con cui condivide interessi musicali e allena il suo inglese, per esempio.

La ricerca commissionata da Facebook

Lo sa anche Facebook, proprietario di Instagram e di WhatsApp (un quasi monopolio dei social più utilizzati, di fatto) che le ragazze, soprattutto, si fanno condizionare dai modelli che vedono sui social; lo sa perché ha portato avanti una ricerca sui propri utenti adolescenti per tre anni e solo ora, come leggiamo sul Wall Street Journal, ne ha pubblicati i risultati. L’ipotesi d’indagine era scoprire l’effetto sulla mente degli adolescenti dell’esposizione continua a modelli e stili di vita inarrivabili, ovvero il tipo di sollecitazione che chi frequenta Instagram riceve.

Ecco cosa dichiara un terzo dei giovani intervistati

“Il 32% delle adolescenti afferma che quando si sente male con il proprio corpo, Instagram le fa sentire peggio

In questo caso non occorre rivendicare parità di genere: le ragazze sono in schiacciante maggioranza, riferisce lo studio.

Il dato significativo è che l‘aumento di disturbi alimentari, bulimia e anoressia, è stato messo in correlazione causale con l’uso dei social, Instagram soprattutto.

Facebook è per i vecchi

I nostri figli ci prendono in giro perché noi vecchi stiamo ancora su Facebook (di loro resiste solo una minoranza, 5 milioni negli Usa); del social già considerato vintage la seconda figlia mi ha confessato che lo trova così noioso che pensa di uscirne al più presto.

Instagram, invece, e TikTok hanno un potere ipnotico, ci sono video divertenti, parodie spassose, cuccioli, ragazze che si vestono proprio come vorrei vestirmi io, mamma. E so anche dirti il brand e l’indirizzo dello shop on line. Mi serve quella felpa, crop possibilmente.

Instagram è immagine per eccellenza e l’immagine sta lì a ricordarti quanto sei meno attraente, meno in forma, meno magra, meno. Arriva e ci convince prima ancora che abbiamo il tempo di mettere in atto il più complesso processo del giudizio.

Immagini bellissime o specchio deformante?

l’uso della piattaforma (è) stato collegato dai terapisti all’emergere di disturbi nei pazienti, soprattutto di ragazze under 20 che hanno particolarmente sofferto di bulimia e anoressia, oltre ad altri problemi legati all’alimentazione, in virtù di quanto il social porti a mettere in mostra il proprio aspetto fisico. 

Ibidem

Ciò che succederebbe, secondo la ricerca, quando si sta sulla piattaforma di condivisione foto più usata al mondo è che nei giovanissimi, ragazze in primis, cambia il modo di vedere e descrivere sé stesse.

Solo negli USA sono 22 milioni gli adolescenti che si collegano ogni giorno al social.

Adolescenti e bambini sono anche consumatori

Ora, ciò che viene contestato ai giganti dei social che hanno nei teen ager il loro pressoché sterminato mercato è che abbiano finora minimizzato gli effetti negativi sulla salute mentale dei ragazzi e sullo sviluppo psicologico di adolescenti e preadolescenti.

Pare infatti sia allo studio una piattaforma pensata per intercettae gli under 13 (che già scalpitano, lo sappiamo).

“Anche meno” , direbbe mia figlia a questo punto.

Secondo il WSJ questi studi sarebbero stati attentamente assimilati e compresi dal management, Zuckerberg in testa, e Mosseri, capo di Instagram, ma, visto come e cosa gira su Instagram, commenta la testata, non hanno quasi per nulla agito di conseguenza.

Anzi, leggiamo da Skytg24, vediamo

come siano stati compiuti “sforzi minimi per affrontare questi problemi e come siano stati minimizzati in pubblico”.

Ansia e depressione

Da un lato abbiamo un burrascoso fiume immissario che porta nel bacino del gruppo Facebook 100 miliardi di entrate l’anno; dall’altro l’ipotesi, ma poi sarà vero? (sembrano dire), che alcuni ragazzi possano soffrire di ansia e depressione proprio per via delle immagini che si trovano davanti agli occhi ogni volta che aprono Instagram.

I social non sono un “mezzo” come gli altri?

Anzi, ci sono studi che mostrano come la possibilità di parlare di sé e incontrare altri coetanei su IG abbia effetti positivi sul benessere psicologico dei ragazzi.

Di sicuro, questo mezzo ha sia riscontri negativi sia positivi e mantiene, a suo modo, una funzione neutra, di semplice corriere di contenuti.

Forse allora sono proprio i contenuti più diffusi, lo stile verso il quale tendono ad uniformarsi, i trend che vengono premiati a ingenerare disagio, sofferenza e, in molti casi dichiarati dagli stessi intervistati, ricorrenti pensieri suicidi.

Ricordiamo certamente le famigerate challenge che hanno portato alla morte di bambini e ragazzi.

Content is king

Ora, non si diceva una volta, a inizio era internet che Content is king? Bene, allora è il caso di far salire al trono un re degno. Non possiamo ricadere nell’illusione ottocentesca che il mercato, qualunque piazza abbia scelto ora, si autoregoli fino a trovare un equilibrio armonioso senza bisogno del nostro intervento, che anzi sarebbe dannoso.

Attenzione a come si fa ricerca

Repubblica cita la neuropsicologa del Meyer (FI) Tiziana Metitieri, che “dal 1997 svolge attività clinica e di ricerca in ambito psicologico e neuropsicologico, orientate alla diagnosi, alla consulenza riabilitativa e all’educazione” la quale invita alla lucidità e alla presa di coscienza delle dimensioni reali di un simile fenomeno, ovvero la dipendenza da nuove tecnologie e la minaccia per la salute mentale dei più piccoli.

E fa anche un’osservazione preziosa per il tema più largo e drammaticamente attuale della comunicazione scientifica sui media: anche in questo ambito esistono le mode, esistono argomenti che si impongono oltre le proporzioni che meritano, esistono pareri grossolani che diventano criteri guida.

Esempio topico il trend di articoli e servizi dedicati, prima della pandemia, al rischio da esposizione allo schermo per i più piccoli, soppiantati e addirittura ridicolizzati dalla assoluta controtendenza dei pareri che si sono fatti strada durante, quando la tecnologia ci ha tenuti almeno un po’ vicini. Addirittura l’OMS, che solo nel 2019 aveva inserito la dipendenza digitale nell’ ICD 11 (la sua classificazione internazionale delle malattie)

assieme a 18 aziende produttrici di videogiochi, l’OMS ha lanciato l’iniziativa #PlayApartTogether con l’obiettivo di “giocare tutti insieme a distanza per battere il coronavirus”. 

Tiziana Metitieri

Serve un salto qualitativo

In sintesi gli effetti dell’uso delle nuove tecnologie sui giovani vanno studiati meglio, con metodo e precisione.

Ecco per esempio un primo risultato sugli ipotizzati cambiamenti (e deterioramenti) delle relazioni sociali nei bambini di oggi

Stando a uno studio longitudinale pubblicato a gennaio da Douglas Downey e Benjamin Gibbs, non è neppure confermato che le bambine e i bambini di oggi abbiano meno relazioni sociali faccia a faccia rispetto a quelli cresciuti negli anni 1990, in base alle valutazioni fornite da insegnanti e genitori. I due ricercatori hanno osservato che il tempo trascorso sui dispositivi digitali non si associa a una riduzione delle abilità sociali nel campione di bambine e bambini statunitensi valutati nel 2010 a casa e a scuola, rispetto a quelli valutati nel 1998. 

Ibidem

Ah, una volta…

Questa tendenza a ritenere le generazioni attuali in declino rispetto al passato è, ironia della sorte, una costante di tutte le epoche e nemmeno noi, che abbiamo sì visto una rivoluzione tecnica epocale ma meno impattante di altre, facciamo eccezione. Anche noi obbediamo a due inclinazioni:

 la tendenza a notare soprattutto i difetti degli altri e l’effetto di un’illusione che ci fa vedere i tempi passati sempre migliori di quelli attuali. È un’illusione perché la nostra memoria del passato è frammentaria e parecchio selettiva.

Ibidem
CMC, Centro Culturale di Milano|Youtube

Cosa resta sempre uguale se non il compito inderogabile di educare?

Non si tratta di sottrarre i nostri figli da una nube tossica in stile Chernobyl quindi, ma, caso mai e da che mondo e mondo, di non sottrarre noi stessi, gli adulti, dal cruciale compito di educarli.

Sempre secondo la Metitieri

“i problemi di salute mentale non sono aumentati con l’uso delle nuove tecnologie. I social media possono rappresentare uno spazio per esprimere le difficoltà psicologiche e per chiedere aiuto. Inoltre, possono essere il mezzo per condurre campagne di promozione della salute mentale che ingaggino gli stessi adolescenti. Sono questi contenuti che dovrebbero essere incentivati. Molta ricerca è ancora da fare, è necessario che sia più trasparente e che tenga conto di effetti negativi, neutri e positivi ma sappiamo che l’attenzione sarà spostata altrove quando l’allarme su Instagram non sarà più funzionale alle decisioni politiche e di mercato”, ha concluso.

Il tema non è solo cosa ci facciano i nostri figli su Instagram e quanto tempo ci passino, ma di che cosa hanno bisogno per diventare grandi, per vivere bene, per costruirsi come uomini e donne.

Certo che anche Instagram e altri strumenti tecnologici hanno moltissime potenzialità positive, persino per la salute mentale che sembrano minacciare e sia per le amicizie di cui a volte paiono un triste surrogato.

La Chiesa non si è chiamata fuori

Dovrebbe rassicurarci il fatto che la Chiesa stessa, maestra millenaria di umanità e sapienza, non abbia paura di essere presente anche lì e che inviti a restarci sul serio, ovvero essendo e comunicando (e preservando) sé stessi e la verità di cui si è testimoni; ciò che dovrebbe starci più a cuore di tutto è che i figli non siano ridotti a user, consumatori, influencer. E quello, più che da che cosa guardano sui social, dipende da chi li guarda e come nelle loro vite “live”. In ogni ambito servirebbe questo promemoria: l’altro è persona, prima, durante e dopo la sua qualsivoglia esperienza utente.

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