Ancora oggi, in tarda mattinata, si sarebbe potuto sentire alla radio un qualche sottosegretario del governo italiano dichiarare che abbiamo (si riferiva sia all’Italia, evidentemente, sia all’Occidente)
Dichiarazione melliflua e piacevole all’udito (non a caso è “la canzone del momento” in tutte le radio – e non solo…), ma nondimeno zeppa di approssimazioni e mezze verità, se non di “bugie diplomatiche”:
La “questione femminile” è – insieme con le drammatiche immagini delle persone in caduta libera dagli aerei in partenza da Kabul – l’unico tema divulgabile a buon mercato nei talk show, ma la riluttanza ad affrontare la questione dei rapporti tra terrorismo e islamismo (nonché, più a monte, quella delle relazioni tra Islam e violenza) appiattisce la narrazione nel solito rozzo manicheismo de “la civiltà dei diritti contro la barbarie oscurantista”. Una specie di salsa BBQ dell’opinionismo: finché non ti chiedi che cosa c’è dentro puoi versarla abbondantemente su tutto.
L’alternativa sarebbe mettersi alla scuola di politologi esperti di paesi islamici, che per frequentazioni di lungo corso sappiano inquadrare sia la disfatta dell’esercito afghano, lasciato dalla missione internazionale a presidiare il Paese e sgominato in pochi giorni, sia le ricorrenti foto delle donne in gonna al ginocchio all’inizio degli anni ’70 del Novecento. Laurent Marchand ci ha reso in ciò un grande servigio pubblicando ieri su Ouest France una lunga e corposa intervista con Olivier Roy.
A proposito del “gran tema” delle donne, con una lucidità che sfiora il cinismo il politologo ci dice che secondo lui la cosa passerà in cavalleria:
Difficile fare pronostici particolari sul destino di Zarifa Ghafari, che della quota rosa nella nuova classe dirigente è diventata un po’ il simbolo: Roy non ne parla espressamente, e del resto nessuno può tutelare una persona dalla violenza di una mina vagante (o “lupo solitario” che dir si voglia), ma la tesi esplicita del politologo francese è che i talebani di oggi non siano quelli del 2001, e non da oggi.
Queste parole basterebbero a demolire la narrazione della “dottrina Wilson” (e dei suoi inevitabili aggiornamenti), secondo la quale il ruolo planetario degli Stati Uniti (e dell’Occidente Atlantico, a partire dalla “versione Reagan”) sarebbe la propagazione del sistema politico democratico (e di quello economico liberale): la guerra d’Afghanistan sarebbe stata invece, nelle intenzioni, una ingente dimostrazione di forza che nella propria grandezza doveva sfumare, fino a confondere, la propria natura di fondo – una rappresaglia.
La restaurazione talebana è stata perlopiù narrata come un Blitzkrieg inatteso e stupefacente, una novella Guerra dei Sei Giorni. Roy non sembra del parere:
Insomma, quando la fanfara mediatica occidentale si è accesa – cioè alla vigilia dell’ingresso delle truppe a Kabul – il grosso dell’operazione militare era fatto e archiviato. E si deve pensare che davvero gli statunitensi se ne fossero andati via ritenendo che la situazione potesse reggere autonomamente?
Insomma, raggiunto lo scopo ignobile (quantunque forse inevitabile), e visto che quello nobile non si riusciva a consolidare, si sarebbe giudicato che non conveniva restare. Ora sarebbe dunque in corso una pantomima a molte parti il cui punto di caduta (necessariamente provvisorio) dovrà essere un futuribile status quo che salvi “le capre dei talebani” e “i cavoli degli americani” (e degli occidentali).
Se ci si chiede quali siano, in concreto, “le capre dei talebani”, si può rispondere (senza molta originalità) che esse consistono nel potere in Afghanistan. Roy ci aiuta a guardare più nel dettaglio:
Se i Russi non ripeteranno – secondo Roy – l’errore di attaccare l’Afghanistan,
Qui tornano in gioco “i cavoli degli Americani” (e dell’Occidente), perché se la narrazione mediatica in Occidente si sta imperniando tutta sulla “questione femminile” evidentemente stampa e tv dovranno pur imbastire la trama di un “ravvedimento moderato” dei talebani – non repentino perché sennò si farebbe fatica a tenerlo insieme con i fotogrammi dell’aeroporto preso d’assalto dai civili, ma insomma in un arco narrativo che si possa seguire senza difficoltà. E difatti le prime pagine di questi giorni imbastiscono tale narrazione.
Dopo vent’anni di (sempre più stanca) epopea della lotta senza quartiere al male del mondo – che erano i talebani – i media occidentali avviano la necessaria virata che giustificherà sul piano comunicativo l’assunzione di una politica occidentale non interventista in Afghanistan. Ai vecchi-padroni-ritornati si chiederà di ripudiare il terrorismo e di assumere (magari anche nel dress code, chissà!) una decenza che fluidifichi i bisogni narrativi dell’Occidente: niente lapidazioni di donne, almeno in pubblico, e soprattutto niente aerei contro i grattacieli. Poi noi si farà presto calare il sipario sulla scena e lì dentro accadrà quel che accade già da sempre in centomila angoli di mondo.
A questo punto ci si può chiedere perché le parti debbano accondiscendere a questo (comunicativamente) poco onorevole compromesso. Roy prova a spiegarlo rispondendo alla domanda sull’immagine dell’Afghanistan come “cimitero degli imperi”:
Sullo spaccato sociale, del resto, Roy aveva già offerto una descrizione complessa dei rapporti interni, e proprio lui – il politologo che più avanti nell’intervista avrebbe individuato nella corruzione la ragione-chiave del fallimento della missione occidentale – ha voluto sfumare l’invito di Marchand a ragionare della corruzione interna alla società afghana:
E c’è la contaminazione con l’Occidente, a segnare almeno dal primo dopoguerra mondiale la recente storia dell’Afghanistan: l’influenza dell’orbita imperiale britannica, evidentemente, ma anche l’egemonia culturale francese (Roy vi fa un accenno carico di riverenza, anzi sembra intendere la componente francofila quale il collante dei migliori elementi della società civile e politica autoctona).
Queste le valutazioni di Roy, questi i pronostici di uno tra i più navigati esperti del settore: la storia, del resto, non si fa coi “se” e coi “ma”, e neppure è una scienza esatta per cui possano valere predizioni stringenti. Ad esempio Roy ritiene improbabile che nel 2021 i talebani si lasceranno andare all’imprudente iconoclastia di vent’anni fa, mentre proprio in queste ore ci raggiungono notizie che sembrerebbero contraddire il punto: si devono interpretare come episodi simbolici di propaganda talebana ad intra (diciamo per farsi riconoscere ancora come quelli “duri e puri”)… oppure l’evoluzione politica suggerita da Roy non c’è stata, e tutto quel che potremo fare sarà ancora una volta scegliere tra la guerra e il disonore?
La storia mostra abbondantemente che la lezione di Churchill, chiara sul piano teorico, risulta sempre opaca su quello pratico: quasi fatalmente scegliamo il disonore, cioè tentiamo un dialogo che a posteriori si rivela fallimentare, e poi ci ritroviamo in una guerra più rovinosa di quella che avremmo avuto in un primo tempo. C’è anche una terza opzione, pure largamente praticata: voltarsi da un’altra parte e far finta di niente. Come se le ingiustizie potessero occultarsi per sempre sotto al tappeto del silenzio…