Si sa che quello del sensus fidei – antico quanto la Chiesa – è uno dei temi prediletti del pontefice argentino: in tal senso esso conosce nel suo pontificato una nuova primavera, così come il Vaticano II auspicava. Scivolato parzialmente nell’oblio, esso riguarda una realtà di fede apparsa fin dai primi tempi della Chiesa.
Con la Pentecoste, il Popolo di Dio è unto dallo Spirito e, grazie a questo dono, è capace di sentire (nel consensus fidelium) quel che va o non va nel senso della fede, e ciò in maniera infallibile. È a questa certezza di permanere nella verità della fede, certezza data dallo Spirito, che la Chiesa ha dato il nome di sensus fidei.
Benché l’espressione – in punta di vocaboli – non si trovi né nelle Scritture né nell’insegnamento della Chiesa prima del Vaticano II, essa trae la propria legittimità da diversi passaggi scritturistici e acquisisce significato teologico già dagli scritti dei primi Padri e degli ultimi dottori medievali.
Non tutti concordano sul nome o sul senso di questa realtà spirituale, ma tutti riconoscono l’esistenza di una conoscenza spirituale di Dio, o di un “senso” di Cristo che l’insieme dei cristiani riceve dallo Spirito Santo presente in loro, per penetrare più a fondo «nella verità tutta intera» (cf. Gv 16,13) e testimoniarla.
E nondimeno si dovette attendere il Concilio Vaticano II (1962-1965) perché la dottrina del sensus fidei, che invoca pure il concetto di consensus fidelium, venisse confermata, approfondita e messa in pratica. Definito da Giovanni XXIII “nuova Pentecoste”, il Concilio ha coniugato il sensus fidei all’“infallibilità in credendo” che la Chiesa nel suo insieme possiede, come soggetto credente in pellegrinaggio attraverso la storia.
Con Lumen Gentium la Chiesa dà fiducia al «senso cristiano dei fedeli», alla «retta coscienza morale degli uomini», alla «saggezza e competenza dei teologi», tutti rischiarati dalla fede e guidati dall’autorità del pastore.
Il Concilio ha ereditato una tradizione apostolica e teologica ricca e talvolta contraddittoria, ma non si è limitato a interinare la dottrina del sensus fidei. Superando l’opposizione tra una Ecclesia docens e una Ecclesia discens, il Vaticano II predilige piuttosto la categoria olistica di “Popolo di Dio” e rende possibile la partecipazione dei battezzati, cioè anche dei laici, alla funzione profetica di Cristo. Da quel momento, consultare la collettività dei battezzati diventa uno dei fondamenti della conversione pastorale della chiesa, e il sinodo è luogo privilegiato di espressione di tali dinamiche.
Da quando col motu proprio Apostolica Sollicitudo (1965) Paolo VI ha istituito il “sinodo dei vescovi per la Chiesa universale”, i pontefici non hanno cessato di richiamare l’importanza di un organismo sinodale basato sul sensus fidei, pur riconoscendo che resta del cammino da fare.
Tuttavia, il timore che il “senso della fede” sia confuso con l’opinione della maggioranza o con l’oggetto di una ricerca sociologica o statistica, per esempio, ha rallentato l’attuazione di queste disposizioni. L’assenza di una menzione letterale dell’espressione “sensus fidei” nel Codice di Diritto Canonico del 1983, ad esempio, riflette un segno di queste esitazioni.
Così la pubblicazione, nel 2013, di Evangelii gaudium, ha dato l’idea di un ritrovamento: primo documento papale nel post-concilio a trattare in modo approfondito del sensus fidei, l’esortazione apostolica di papa Francesco richiama la dottrina del Vaticano II: «Il Popolo di Dio è santo a causa di questa unzione che lo rende infallibile in credendo» (nº 119). Così riformulato, il sensus fidei lascia pure il suo aspetto rigidamente teologico e si vede ribattezzato dal pontefice argentino, il quale volentieri parla del “fiuto” che il Gregge possiede per «discernere le nuove vie che il Signore apre alla Chiesa».
Auspicando una realizzazione dello spirito del Vaticano II, papa Francesco intende fare del sensus fidei la dimensione costitutiva della Chiesa, e del cammino sinodale il luogo di espressione di questo dono pneumatico ai cristiani. Nel 2015, appoggiandosi a san Giovanni Crisostomo, egli assicurò che «“Chiesa” e “Sinodo” sono sinonimi». Precisando l’etimologia del termine “sinodo” (“strada-insieme”), egli ha sottolineato che
Rimettendo il sensus fidei all’ordine del giorno, il pontefice argentino non manca di arricchirlo delle sue intuizioni personali, in particolare degli insegnamenti che egli trae dalla teologia del popolo sviluppatasi in America Latina nella seconda metà del XX secolo.
Popolo di Dio, la Chiesa deve incessantemente dialogare con i popoli della terra e con le loro culture: allora la pietà popolare diventa un luogo teologico a pieno titolo, «la manifestazione di una via teologale animata dall’azione dello Spirito santo» (nº 125). Quando la fede cristiana è autenticamente incultura, sostiene il pontefice, la «pietà popolare» costituisce una parte importante del processo per il quale «il popolo si evangelizza continuamente da sé stesso» (nº 122).
In combinato disposto con la teologia del popolo, il sensus fidei è diventato in pochi anni la parola-cardine del pontificato di Francesco. Dopo aver chiesto alla Commissione Teologica Internazionale un rapporto sul «sensus fidei nella vita della Chiesa», nel 2014, il 266º papa romano ne ha fatto il cuore pulsante del suo progetto sinodale.
Del resto in quello stesso anno il vescovo di Roma ha lanciato in un circolo di fedeli una consultazione in occasione del duplice appuntamento sinodale sulla famiglia. Una prima esperienza che lo ha incoraggiato ad ampliare il processo sinodale: «Come sarebbe stato possibile – ha chiesto il pontefice a posteriori – parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, le loro angosce e i loro dolori?».
Francesco resta quindi convinto che una Chiesa sinodale sia una Chiesa che non ha paura di ascoltare molto: la decisione di fare appello a tutti i fedeli cattolici che lo desiderano, per il sinodo annunciato, è la manifestazione di questa intuizione profonda.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]