Quando, lo scorso 18 maggio, di buon mattino ci colse la notizia della morte di Franco Battiato, in diversi trovammo spontaneo tornare con la mente alle tante volte che il cantautore catanese aveva voluto parlare della morte – fatale passo che attende ogni vivente – e di quanto le fa seguito. Ricordammo cioè da una parte la sua granitica fiducia nell’esistenza di un aldilà, e anzi il suo non potersi capacitare di come alcuni uomini possano essere increduli e/o scettici a riguardo, magari perché materialisti; d’altro canto non potemmo passare sotto silenzio il fatto che più volte, e in modo quanto mai esplicito, Franco Battiato si sia detto persuaso o certo della dottrina della reincarnazione.
Mettiamo le mani avanti brandendo i due versi del noto distico di Marco Masini: la nostra «religione / [non] è di credere ai cantanti». Il rocker fiorentino biasimava quel sistema che aveva inculcato nelle giovani generazioni l'illusione che – in quanto personaggi pubblici – i cantanti fossero ipso facto (più) fededegni di altri, o che in qualche modo la loro arte avesse un contenuto veritativo particolarmente qualificato. Ecco, noi non cerchiamo questo in Battiato, quindi non ci preme “canonizzarlo” né (tanto meno) “scomunicarlo”: evidentemente non sarebbe in nostro potere fare alcuna delle due cose, ma soprattutto non ci interessa farlo, mentre ci preme discutere “con lui” e “per lui” delle sue idee.
Oggi però, a sette giorni dalla scomparsa del cantautore dalla «scena di questo mondo» (1Cor 7,31), vale la pena di ragionare insieme su qualche passaggio meno encomiastico e più problematico del pensiero di Battiato, e lo facciamo perché egli stesso aveva inteso esternare il proprio intimo percorso proiettandolo sulla sfera del personaggio pubblico che era stato.
Da molti anni ormai, infatti, Battiato aveva condiviso con i propri fan (detestava il vocabolo: preferiva pensarli “condivisori”) la maturata convinzione della dimensione spirituale dell'esistenza, come ad esempio lo si vide fare nel novembre 2012 alla fnac di Milano, durante la presentazione dell'album Apriti sesamo.
In questi pochi minuti lo si sente anche accennare agli “universi paralleli”, un altro dei suoi pensieri ricorrenti (benché non sempre chiarissimamente definiti).
Fu però il 2014, per Battiato, uno degli anni più densi e fecondi sul piano della maturazione spirituale: alla fine di quell'anno fu presentato il libro “Attraversando il Bardo”, che aveva simultaneamente dato vita anche a un documentario (del quale il Catanese era stato regista):
campeggia nero su bianco in esergo.
Proprio in questi giorni l'amica Syusy Blasi ha pubblicato su YouTube il proprio (più breve) report di viaggio – la conduttrice era stata parte della comitiva recatasi «in pellegrinaggio» in Nepal – nel quale si documenta (un po' nello stile dei “turisti per caso”) il dietro le quinte del documentario di Battiato.
Ecco, quel che ci interessa – e su cui osiamo prendere parola, come se anche noi fossimo “amici di Franco” – è il “viaggio di Francesco”: la parabola umana anzitutto, almeno nella sua parte palese, che egli stesso ha voluto vivere alla luce del sole; e poi la parte in penombra che è cominciata una settimana fa.
Che cos'è dunque “il Bardo” (non si parla di Shakespeare)? Nel suo breve video-diario di viaggio Blasi sintetizzò:
Secondo i Lama intervistati in quella circostanza, il momento del trapasso sarebbe
Parole sibilline che rimandano a un'antropologia sensibilmente differente da quella aristotelica cui in Occidente siamo un po' tutti abituati, ma se si leggono antichi trattati occidentali come il De anima di Tertulliano si ritrova qualcosa delle domande che anche da questa parte del mondo stavano sottese alle risposte trovate in Oriente. Qualcosa di più familiare troviamo nella netta affermazione di Battiato:
Perché nell'escatologia accolta e proposta dal Siciliano c'è spazio, in qualche modo, per una retribuzione dei meriti ovvero una punizione delle colpe. Anche di questo, in mezzo a tante (troppe?) cose, si parla in una corposa intervista rilasciata il 2 giugno 2014 a don Gianni Ciro, ideatore e fondatore del Meeting del Mare.
Alla sera Battiato si sarebbe esibito per i giovani destinatari dell'audace pastorale di don Ciro, e al mattino – complice l'attesa dell'orchestra che si era persa per le strade cilentane – i due hanno conversato davanti ai giovani e con loro.
Dal video saltano all'occhio alcune dichiarazioni “sopra le righe” – per forma e contenuto – che in questo nostro specifico contesto ci corre l'obbligo di evidenziare (altrimenti ragionarne diventa difficile):
Anche tutto il resto è degno d'interesse, e come si vede l'interesse di una ricerca personale non si misura col numero (o con la qualità) delle cantonate prese:
Queste cose le scriviamo oggi, ragionando con Franco Battiato ma più a nostro che a suo vantaggio: lì dove egli è adesso di certo non gli abbisogna la soffiata dei secchioncelli dai primi banchi, mentre invece molto gli gioverà – al netto di qualche sbandata – l'aver molto cercato e molto amato.
Tra i numerosi e importanti studî di Lanfranco Rossi ce n'è uno della cui lettura tutti ci gioveremmo: è dedicato ai “primi quaranta giorni dopo la morte”. «Perché – ci si può chiedere – che succede nei primi quaranta giorni? La faccenda non si risolve tutta quanta all'istante del trapasso?». In un certo senso sì, naturalmente, ma potremmo facilmente chiedere: e allora perché far celebrare messe nell'ottavario dalla morte? E nel trigesimo? Da dove nascono queste usanze, che solo a prezzo di grande e presuntuosa ingenuità potremmo ritenere sprovviste di senso spirituale?
Tra le opere spurie di Macario di Alessandria – riporta Rossi – ce n'è una in cui due angeli fanno della strada con lui e rispondono alle sue domande su questa e sull'altra vita. Quando l'asceta chiese «chiarimenti sulla tradizione di fare offerte e preghiere per il morto al terzo, al nono e al quarantesimo giorno» gli angeli risposero
Come si vede, mai in queste elaborazioni della dottrina che nell'Occidente latino siamo soliti chiamare “del Purgatorio” si nega che l'uomo abbia facoltà di operare per il proprio bene solo fino alla morte, e non oltre; quello che però in molti cercano nella fascinosa (ma filosoficamente insostenibile) idea della reincarnazione è la possibilità di una salvezza che non cada sulla testa dell'uomo come un giudizio eteronomo, bensì che germogli dalla propria consapevolezza. E proprio questo è ciò che il cristianesimo propone agli uomini.
Quanti abbiano scorso i video sparsi per il testo qui sopra si saranno forse stupiti di ritrovare più volte citato da Battiato (anzi: nel documentario è inquadrato in primo piano per diverse decine di minuti) un monaco che per i nostri lettori risulterà “una vecchia conoscenza”: padre Guidalberto Bormolini è infatti non solo “il prete che ha celebrato i funerali di Battiato”, ma uno di quelli a cui il Catanese ha spesso e volentieri fatto riferimento quando, dal 2014 in qua, ha toccato temi apertamente spirituali e teologici.
Abbiamo contattato padre Guidalberto e ci siamo concessi una conversazione che speriamo possa aiutare a gettare luce non solo su Battiato e sul suo percorso di vita e di fede, bensì anche sull'urgenza di tornare tutti quanti ad esercitare – per la durata della vita terrena – l'arte di imparare a morire.
È stato molto semplice. Un rito di commiato senza la Messa perché eravamo in una casa privata. Massima semplicità come era desiderio di Franco e della famiglia: benedizione della salma, saluto, qualche preghiera e testimonianze da parte di persone a lui care. Abbiamo letto – non l’abbiamo voluta cantare – L’ombra della luce quasi fosse una preghiera in cui molti potevano identificarsi.
Ci tengo a ringraziare il fratello Michele e tutta la famiglia per quello che hanno fatto per lui: oggi in un mondo in cui la gente “invia” appena può in istituto qualcuno che può diventare un peso, il fratello pur ottantenne è stato sempre con lui.
Sì, non è stata una vera e propria omelia perché non c'era stata la Messa, anche se ovviamente io poi l'ho offerta per lui lo stesso giorno… Alle volte ai giornalisti certe cose tecniche sfuggono pure…
Lì mi sono permesso di dire molto dell’intimità di Franco. So che sono state cose gradite da quelle poche decine di persone raccolte per questo saluto.
Ce n’era uno solo, a quanto si poteva sapere dal di fuori: era un monaco amico di Franco, Massimo, che era andato con lui a Kathmandu. Una bella persona.
Il percorso di un’anima è un mistero e lo conosce solo Dio. Io ho imparato a rispettarlo, nella mia vocazione per la nuova evangelizzazione. Posso dire che era molto interessato al cristianesimo e l’ha voluto approfondire: ha voluto leggere i mistici, si è appassionato ai padri del deserto e provava un grande fascino per il cristianesimo. La canzone è abbastanza esplicita, non ci sono dubbi su cosa ha voluto esprimere. L’ho detto anche nella trasmissione di “Uomini e profeti”.
“Il mio giardino” mi sembra che rappresenti sia la sua vita interiore sia la sua terra, lì dove ha vissuto la sua spiritualità, la sua tradizione, dove è stato spinto a riscoprire cose antiche…
Lui ha cominciato a interrogarsi più a fondo sulla morte subito prima della lavorazione del Docufilm Attraversando il Bardo.
Lui era un ricercatore. Non era dogmatico, neanche su questo. Franco voleva capire, sperimentare, vedere, ricercare. Non so se la cosa vada posta in termini di ripensamento o meno. È stato sempre aperto alla ricerca, fino all’ultimo respiro. Essendo una persona libera accettava nella sua ricerca molti stimoli che gli offrivo, e sentivo nelle sue risposte cose belle che mi hanno fatto sentire molto vicino a lui.
Io? Non sapevo che avesse detto questa cosa (ridendo)… comunque no, io credo nel Purgatorio, cioè che dopo morti c’è la possibilità di purificazione e infine di salvezza.
Questa è una cosa per me molto importante: la dottrina del Purgatorio andrebbe riscoperta … la parola non è “attraente” per i contemporanei, mentre nella mistica ci sono tanti altri modi di parlare del Purgatorio. Mi viene in mente Caterina da Genova che diceva proprio “il purgatorio amoroso del divin fuoco”.
Se sapessimo riproporre la dottrina del purgatorio con linguaggi adeguati, facilmente molti vi troverebbero le risposte a ciò di cui hanno bisogno e che vanno a cercare in altre dottrine.
Ci sono delle tappe: è indiscutibile che hanno un valore antropologico, si trovano dal Giappone all’Egitto passando per il Tibet. Ci sono giorni simbolici che attraversiamo nel post-mortem. Sono anche giorni in cui il suffragio è molto importante.
Io penso che la gente abbia bisogno di essere rassicurata perché troppi hanno un’immagine della morte e del giudizio come qualcosa di terribile ed inquietante. La gente teme l’incontro con un Dio giudice. Invece alla luce del robusto pensiero teologico di J. Ratzinger penso all’introduzione in un destino di fuoco e d’amore: «Chi di noi – dice Isaia – può abitare presso un fuoco divorante? Chi di noi può abitare tra fiamme perenni?». Sembra parli dell’inferno, ma nei versi seguenti descrive l’ospite di quel fuoco facendo il ritratto del santo! Infatti le fiamme perenni sopra descritte ai più evocano il ricordo dell’Inferno, ma sono in realtà la sede della vita beata: il Paradiso!
Il destino comune è quindi di essere immersi nel fuoco divino, che diventerà condanna o beatitudine a seconda dello stato in cui si trova chi vi entra: se si è già rivestiti di fuoco e di luce quella sarà la dimora tanto anelata. Ma se ci si è identificati con la materia grezza e combustibile allora si brucerà.
San Bruno Certosino afferma infatti che son diversi i gradi di purificazione ignea a secondo del materiale a cui si può paragonare l’ispessimento dell’anima: se è legno brucia a lungo, il fieno brucia più rapidamente, ma la paglia sfugge ancor prima alla purificazione del fuoco. Ma questo destino è risparmiato a chi si è già rivestito tutto di fuoco e di amore, allora il fuoco divino gli appare come la più desiderabile delle dimore!
La considerazione che il fuoco finale sia Cristo stesso è stata ribadita più volte anche da Joseph Ratzinger teologo, che cita in proposito il terzo capitolo della Prima lettera ai Corinzi, in cui è detto che ognuno nel corso della sua vita costruisce una casa con materiali diversi: con pietre costose, con oro e argento, o anche con fieno e paglia. «L’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno» (1Cor 3,13). Così Ratzinger interpreta questo testo: «Il Signore stesso è il fuoco giudicante, che trasforma l’uomo e lo rende “conforme” al suo corpo glorificato!». Vuol dire che saremo noi a essere – in quel fuoco divorante – bruciati, purganti o beati. Che bello se la morte fosse solo immersione nel fuoco divino! Lo auguro tanto anche a Franco.