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Il silenzio nella preghiera: vetta, sentiero o trappola?

MEDYTACJA

Patrick Schneider/Unsplash | CC0

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 04/12/19

La tradizione ascetica e mistica ne raccomanda la pratica ab immemorabili; il recente magistero pontificio ne ha caldeggiato la conservazione nella liturgia e attorno ad essa, nonché la pratica domestica; eppure qualcuno avanza riserve sulla “sicurezza” di tale prassi. Un convegno ospitato a Roma il 7 dicembre cercherà di sciogliere i nodi.

Spesso ho detto che tutta l’infelicità degli uomini viene da un’unica cosa, cioè dal non sapersene stare quieti in una stanza.

Blaise Pascal, Pensieri, art. 4,1

Questo detto pascaliano viene spesso citato e buttato lì, a mo’ di apoftegma, quasi prescindendo dal contesto prossimo in cui si trova (il filosofo francese avvia Pensées con una sezione sull’introspezione e sulla divagazione – la illustrò bene Pierluigi Colognesi). Pascal ripercorreva l’adagio agostiniano del “torna in te stesso”, e aveva chiaro davanti agli occhi che gli uomini rifuggono la solitudine proprio perché in essa il monologo interiore si fa più forte e tanto più impellenti risaltano le voci che dimostrano a chi sa stare in solitudine come l’uomo non sia mai, in realtà, solo.




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Genealogia e senso del silenzio cristiano

Benché suoni paradossale, questa è una verità arcinota a chiunque abbia un minimo di vita interiore: insieme con la voce della coscienza parlano anche la voce di Dio e la voce del Nemico, e nella quiete (che il silenzio aiuta a preparare) il monologo evolve dall’indistinto vociare al “discernimento degli spiriti”. Per questo già quasi mille anni prima di sant’Ignazio, anche san Benedetto dedicava il capitolo VI della Regola all’amore per il silenzio:

Facciamo come dice il profeta: «Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone».

Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riservata al peccato! Dunque l’importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto: «Nelle molte parole non eviterai il peccato», e altrove: «Morte e vita sono in potere della lingua».

Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare.

Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione.

Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per discorsi di questo genere.

Regola VI

La tradizione monastica occidentale conobbe già nella sua preistoria le spore di quella orientale ed egiziana (ogni volta che sant’Atanasio veniva esiliato parlava di Antonio e fondava monasteri), ma sbaglierebbe chi pensasse che il silenzio sia stato apprezzato solo in una seconda battuta della storia del cristianesimo, laddove invece il suo valore si radica proprio in quel portato cristologico e domestico che Paolo VI ebbe a chiamare “silenzio nazareno”:

Rinasca in noi la stima del silenzio, ammirabile e indispensabile condizione dello spirito; in noi, che siamo assaliti da tanto clamore, da fracasso e grida, nella nostra vita moderna bruciante e usurante. O silenzio di Nazaret, insegnaci il raccoglimento, l’interiorità, la disposizione ad ascoltare le buone ispirazioni e le parole dei veri maestri; insegnaci il bisogno e il valore delle preparazioni – dello studio, della meditazione, della vita personale e interiore –, della preghiera che Dio solo vede nel segreto.

Paolo VI, Discorso in occasione della visita alla Basilica dell’Annunciazione di Nazaret, 5 gennaio 1964

Quell’anima eletta (e affine alla montiniana) che fu Pascal espresse nelle Pensées un concetto analogo:

L’uomo è fatto in tal modo che a forza di dirgli che è uno sciocco egli lo crede; e, a forza di dirselo da solo, egli si porta a crederlo. L’uomo infatti costituisce in sé una conversazione interiore che è importante regolare bene: «Le conversazioni cattive corrompono i buoni costumi» (1Cor 15,33). Bisogna mantenersi in silenzio, per quanto si può, e non intrattenersi se non con Dio, che sappiamo essere la verità; e così si giunge a convinzioni solide e fondate.

Blaise Pascal, Pensées XXIV,37

E un altro paragrafo interessante a tal proposito era già stato scritto, dal filosofo di Clairmont, in un opuscolo Sulle passioni dell’amore, di sedici anni anteriore alle Pensées:

In amore un certo silenzio vale più del linguaggio. È cosa buona restare senza parole; c’è un’eloquenza del silenzio che penetra più di quanto saprebbe fare la lingua. Come un amante sa colpire la sua amata quando resta senza parole, posto che per il resto sia un uomo brillante! Per quanto si possa essere vivaci, è bene sopire la brillantezza, in alcuni incontri. Tutto questo accade senza regola e senza riflessione; quando lo spirito lo fa, non l’aveva programmato in anticipo – è per necessità che questo capita.

Spendere parole per elogiare il silenzio ha in sé un che di paradossale, per non dire di ironico, ma giova in tal senso ricordare la penetrante intuizione degli gnostici valentiniani che da un lato chiamavano “Silenzio” il “versante femminile” del Padre [“Συγή” in greco è femminile] – in quel primo schizzo di trinitaria che la storia della cristianità ricordi – e dall’altro ricordano come sia proprio quella la fonte della Parola divina, la quale a sua volta vive un momento riflessivo e uno estroflesso. Se solo quest’ultimo coincide con la creazione, prima opera divina, gli gnostici non ignoravano che la silenziosa preparazione all’opera divina è ugualmente divina, anzi lo era tanto più quanto meno ricadeva sotto gli “umani concetti”. “Apofatica” – cioè che rinuncia alle parole – è secondo la tradizione spirituale d’Oriente la teologia quando sfiora le vette più alte e sfocia in una muta contemplazione. Dalla preghiera la teologia nasce (e non esiste buona teologia senza vera preghiera) e nella preghiera è naturale che essa torni a tuffarsi, perché il suo fine ultimo è l’unione con Dio.


POPE PALM

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“Rompere il silenzio sul silenzio”

Merita perciò una certa attenzione la giornata di studio, testimonianze e preghiera organizzata dalla “Rete sulla Via del Silenzio” in collaborazione con la Badia Primaziale di Sant’Anselmo, sabato prossimo (7 dicembre 2019) a Roma: “Rompere il silenzio sul silenzio” intende manifestare e consolidare «una rete cattolica per la promozione della preghiera silenziosa» (informazioni logistiche sul sito www.anselmianum.com, per altre domande scrivere a fcolagrande@yahoo.it). Gli organizzatori presentano così l’iniziativa:

Esistono da tempo in Italia numerose realtà cattoliche che promuovono in modo autonomo la pratica della preghiera silenziosa sotto forma di meditazione, preghiera contemplativa o interiore. Sono esperienze di vita cristiana fondate sulla certezza che il silenzio, vissuto non come semplice assenza di parola ma come esperienza mistica di abbandono allo Spirito Santo – decentramento, apertura, ascolto, superamento del proprio ego, affidamento, ricongiungimento con il principio divino – sia via inderogabile per coltivare la propria spiritualità e vivere la fede in Cristo.

Eppure, questa pratica silenziosa, che ha radici profonde nella tradizione monastica e mistica del cristianesimo occidentale e orientale, è ancora considerata nell’ambito ecclesiale una consuetudine elitaria o eccentrica, frutto di derive sincretistiche o risultato di un superficiale innamoramento per le filosofie orientali.

C’è un paradosso evidente fra la diffusione di queste esperienze nel territorio ecclesiale e l’assenza di un loro riconoscimento pubblico e istituzionale che permetterebbe un allargamento delle possibilità di accesso a questa forma di preghiera silente. La necessità di un approccio orante silenzioso è sottolineata dal recente magistero papale, la sete di silenzio è sempre più diffusa anche a livello culturale, ma in ambito ecclesiale questa via è formalmente quasi scomparsa e la Chiesa fatica a dare risposte pratiche e accessibili a chi è in cerca del silenzio per ritrovare Dio. Sembra esserci un vuoto da colmare fra l’insegnamento dottrinale e le pratiche pastorali, da una parte, e la sete di silenzio espressa con sempre maggiore urgenza dal Popolo di Dio, dall’altra.

Date queste premesse, abbiamo ritenuto interessante produrre uno scambio di opinioni con padre Guidalberto Bormolini, che il panel menziona tra gli organizzatori nonché tra i relatori.


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Giovanni Marcotullio: Padre Bormolini, sabato lei dovrebbe parlare dell’esperienza di preghiera silenziosa che risponde al nome di “Ricostruttori nella Preghiera”: ci vuole anticipare qualcosa di quanto dirà?

Padre Guidalberto Bormolini: Secondo Ignazio di Loyola: «Non è l’abbondanza della scienza che soddisfa l’anima, ma sentire e gustare interiormente le cose». Questa ricerca di interiorità è forte ma necessita di scuole di esperienza, se non sappiamo dare spazi di esperienza interiore i giovani, ma non solo loro, cercano dei surrogati. Al contrario chi propone una scuola di preghiera trova molte risposte, lo dimostrano esperienze come quella di Taizè, le scuole di preghiera dei francescani, dei camaldolesi, del monastero di Bose…  Lo conferma ancor più la popolarità, in molte parti d’Italia, delle scuole di preghiera non cristiane: zen, buddismo tibetano, meditazione con tecniche indiane… La proposta dei Ricostruttori nella preghiera è sorta per contribuire a soddisfare questa sete, soprattutto tra chi è alla ricerca di senso nella vita anche lontano dalla Chiesa, attraverso percorsi esperienziali di meditazione e preghiera silenziosa. Una delle bellezze della Chiesa è anche nella capacità di accogliere tanti percorsi per incontrare l’Assoluto: nessuno può proporre un sentiero capace di accogliere tutti, per questo una rete larga può offrire alla varietà delle persone in ricerca percorsi in sintonia con la propria sensibilità.

G. M.: Paolo VI sembrava accennare a un bisogno di silenzio particolarmente attuale nel fracasso dell’evo contemporaneo: qualcuno direbbe che un simile pensiero sia passatista e influenzato dal temperamento malinconico di Papa Montini, lei cosa ne pensa?

G. B: Mi sembra che si tratti invece di un pensiero profetico. Da vari punti di vista il secolo che stiamo vivendo è destinato a dare una svolta al “fracasso” in cui siamo purtroppo ormai assuefatti. Uno dei padri dell’antropologia, Luis-Vincent Thomas afferma che «il fallimento di un mondo ipertecnicizzato genera un bisogno immenso di spiritualità». E ci troviamo di fronte a questo bisogno ma incapaci di dare risposte sufficienti. Per questa ragione diviene importante la nascita di una rete per rompere il silenzio sul silenzio. Altri grandi pensatori sono categorici, o la ricerca di vita interiore e silenzio, o il vuoto. Secondo lo scrittore e politico Malraux, «Il XXI secolo o sarà spirituale o non sarà affatto», e il teologo K. Rahner affermò che «il cristiano del futuro o sarà mistico o non sarà neppure cristiano». Paolo VI si rivela quindi un lungimirante, purtroppo al momento in gran parte inascoltato.

G. M.: Posto che la pratica del silenzio ha le sue sacrosante ragioni, fin dalla vita domestica e quotidiana, cosa risponde a chi ne guarda con sospetto possibili “infiltrazioni sincretistiche”?

G. B: Il silenzio come base di pratiche contemplative appartiene totalmente alla tradizione cristiana, ma questo non ci esime da farci stimolare da altre tradizioni a riscoprire i nostri migliori tesori. Il confronto con altre scuole, anche dell’Estremo Oriente, ha aiutato tanti cristiani a trovare una via di accesso all’interiorità attraverso silenzio e meditazione. Credo che la via corretta non sia di ricomporre a proprio gusto un “collage” sincretico, ma incontrare altre esperienze per rinnovare il gusto di forme contemplative perdute in seno alla Chiesa. E magari scoprire che non sono poche le similitudini con forme contemplative da sempre cristiane se, come afferma il celebre card. T. Špidlík, l’antica meditazione cristiana dell’esicasmo può essere definita una sorta di “yoga cristiano”.

G. M.: Mi viene in mente l’esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, in cui Benedetto XVI invitava alla pratica del silenzio in ambito liturgico e periliturgico (soprattutto nn. 50.55), e in tal senso si può certamente dire che una “ginnastica del silenzio” debba essere proposta a tutti. Pensiamo però alla pratica delle preghiere vocali, anche popolari e amatissime (come il Rosario), o meno note e meno occidentali (come la Preghiera del cuore): non si ha l’impressione che esse siano “più facili e più sicure” dell’impervia e ambigua scalata sulla parete dell’ineffabile? Come proporre d’emblée la contemplazione ad ampio raggio, senza esporre degli incipienti ai molti rischi presenti nel “mare aperto” del silenzio?

G. B: Sicuramente è opportuna una graduale “ginnastica del silenzio”, per educare innanzitutto il corpo per piccoli passi. Nell’immobilità della preghiera interiore il corpo partecipa pienamente attraverso il cuore e il respiro. Giovanni Climaco, nel IV secolo, parlava della preghiera unita al respiro, e questo metodo verrà in seguito approfondito e insegnato da diversi autori. L’invito paolino a glorificare Dio nel proprio corpo (1Cor 6, 20) si realizza anche attraverso la preghiera del cuore che collega la recita del Nome al respiro e al battito del cuore, e ci ricorda Oliver Clément: «Il ritmo respiratorio e il ritmo del cuore ci sono stati dati perché il Soffio penetri fino alla fonte del nostro sangue».

La recita continua di una giaculatoria, o mantra, come è ormai acquisito nel linguaggio comune e giovanile, va ripetuta nel silenzio di tutto se stesso, cosicché la mente possa scendere nel cuore. Non si tratta di ricercare un “vuoto mentale” fine a se stesso, ma il vuoto dei pensieri e delle fantasie per lasciare spazio all’amore divino. L’invocazione personale aiuta a percepire l’onnipresenza del Signore, e a mantenere un clima di silenzio adorante. La preghiera potrebbe così predisporre alla grazia redentrice dei sacramenti. Ma per far questa strada, dice la tradizione, è necessario avere a fianco qualcuno che si è già avventurato nel mondo del Mistero. O meglio ancora una “rete” di accompagnatori.




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