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Giappone: più suicidi che morti di Covid. Le vittime? Donne e bambini

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Annalisa Teggi - pubblicato il 30/11/20
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Il dato allarmante di ottobre: in un mese in Giappone i suicidi hanno superato le morti di Covid in un anno. I tragici risvolti della pandemia sui più fragili non riguardano solo questo paese lontano … Un reportage pubblicato dalla CNN mostra un tragico risvolto della pandemia:

Le statistiche diffuse dal governo dimostrano che in Giappone a ottobre il suicidio ha fatto più vittime del Covid-19 in un anno.  Il numero di suicidi nel mese di ottobre è salito a 2153 casi, secondo la Polizia giapponese. Il numero di morti complessivi per Covid è di 2087, secondo il ministero della salute. (CNN)

Essendo il suicidio una piaga sociale drammatica, il Giappone è tra i pochi paese che rilascia dati tempestivi su queste morti. Il dato è in controtendenza con il calo generale che si registrava negli anni scorsi, segno che la pandemia ha acutizzato ferite non rimarginate, non tanto delle singole persone ma inerenti le fondamenta umane del paese. Donne e bambini sono le vittime più colpite dalla disperazione.

Guardare cosa accade in un paese lontano può aiutarci a riflettere su quello con cui anche noi dovremo fare i conti?


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Il paradosso: un paese poco colpito dalla pandemia, ma disperato

Non c’è neppure il lockdown qui e l’impatto del Covid è stato minimo rispetto ad altri paesi, eppure i suicidi crescono – ha dichiarato Michiko Ueda, professore associato all’Università Waseda di Tokyo ed esperto di suicidi – questo significa che anche altri paesi potranno riscontrare lo stesso aumento di suicidi in futuro. (Ibidem)

È bastato ventilare l’ipotesi di una terza ondata del virus e il Giappone è andato al tappeto sul fronte psicologico. Lo spettro di una nuova crisi economica ha gelato le anime e il panico ha preso il sopravvento. E dunque siamo di fronte al paradosso di un paese poco colpito dal virus, ma colpito a morte dal terrore degli effetti del virus.

Già da tempo è evidente che proprio la terra dei samurai è uno dei paesi in cui la vulnerabilità è una lettera scarlatta di cui ci si vergogna, fino al punto di preferire l’isolamento e la morte. Drammatico notare che questa cultura sta esportando in tutto il mondo parole per identificare tante specie di patologie mortali da solitudine: hikikomori (ritirarsi in autoisolamento), johatsu (scelta di svanire nel nulla, cambiando identità), kudokushi (anziani che si lasciano morire in casa da soli).

Negli anni ’90 si registrò il periodo più cupo per le morti autoinflitte, un suicidio ogni quarto d’ora. Uscì anche un bestseller che si prefiggeva di aiutare i lettori a trovare il metodo meno doloroso per togliersi la vita, Il manuale completo del suicidio di Wataru Tsurumi. Negli anni 2000 la situazione era migliorata, ma il male di vivere era ed è evidentemente un vulcano attivo.

Il dramma delle donne

Il mio salario è stato tagliato e non vedo la luce in fondo al tunnel, – ha affermato la donna – sento costantemente l’incombere di una crisi, temo di ridurmi di nuovo in povertà. (Ibid)
JAPAN, WOMAN, MASK

imtmphoto | Shutterstock

La testimonianza di questa donna, raccolta dalla CNN, entra nel merito di un’altra amarissima sfumatura della situazione nipponica. Fino al 2019 il trend dei suicidi in Giappone era in calo, ma in aumento considerando solo la popolazione femminile. Con l’arrivo della pandemia i dati sono diventati di nuovo in crescita con una disparità di genere impressionante: in ottobre i suicidi di donne sono aumentati dell’83%, quelli degli uomini sono aumentati del 22%.


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È inevitabile che l’essere madri incida. Per quanto in tanti storcano il naso, non è uno stereotipo prendere atto che la cura dei figli sia in gran parte affidata alle donne:

Le donne hanno visto schizzare alle stelle i debiti sanitari non pagati. Per quelle che sono riuscite a tenersi un lavoro c’è anche la responsabilità di dover accudire ai figli se la didattica scolastica è sospesa. Questo ha aumentato l’ansia, aggiungendo un ulteriore peso sulle spalle delle madri durante la pandemia. Akari, nome fittizio di una donna di 35 anni, racconta di aver chiesto aiuto a uno specialista durante l’ultimo anno quando suo figlio, nato prematuro, è rimasto in ospedale per sei settimane. “Non avevo mai avuto problemi mentali prima, ma mi vedevo in preda all’ansia, 24 ore su 24”. (Ibid)

Quest’ultima dichiarazione, che a noi può sembrare un’intima confessione, è un vero e proprio scandalo nel contesto giapponese. Il disagio mentale e la fragilità personale sono dei veri tabù.
Questo contesto repellente all’imperfetto colpisce in modo ancora più micidiale i giovani e i bambini.

Suicidi infantili

Non si possono liquidare in poche parole le ragioni profonde che fanno del Giappone un paese dalle grandi eccellenze, ma attraversato da un vuoto che lacera le anime. Per noi è scandalosamente lacerante sentir parlare di aumento di suicidi tra gli adolescenti, immaginare il suicidio di un bambino è quasi impossibile. Eppure:
In Giappone, le scuole sono ricominciate a giugno dopo una chiusura di tre mesi, che ha visto un aumento delle segnalazioni di bullismo e ha aggiunto stress per il recupero dei compiti. “I bambini si sentono ancora più sotto pressione per recuperare il ritardo”, ha detto Hiroyuki Nishino, il capo di Tamariba, un’organizzazione senza scopo di lucro che aiuta i bambini in difficoltà. L’interruzione causata dal Covid-19 sta anche esacerbando il fenomeno profondamente radicato del futoko: bambini che si rifiutano di andare a scuola. Questi ragazzi sono ad alto rischio di suicidio. “Abbiamo sentito bambini di appena cinque anni parlare di morire o di voler scomparire”, ha detto Nishino. (Asianews)
JAPANESE GIRL,POPE FRANCIS

Antoine Mekary | Aleteia | I.Media

Il giudizio non grava solo sul Giappone. Ci sono tanti piccoli/grandi segnali a tutte le latitudini che amplificano un urlo ancora trattenuto, è quello di un’umanità orfana di una speranza incarnata e presente. Non diamo colpa alla pandemia, o ai cattivi governi, o a chissà cosa. Tempi duri ce ne sono sempre stati, ce ne saranno. Penso a Frodo, piccolo hobbit, nella tana della terribile Shelob: in quel momento di oscurità aveva con sé l’altrettanto piccola ma essenziale luce di Eärendil datagli da Galadriel

Siamo sprovvisti di questa luce – un’ipotesi di bene caldo come la mano di una madre e solido come una roccia. Ma mentre noi adulti possiamo anestetizzarci con altro, i bambini guardano le cose dritte in faccia: un’assenza di speranza a loro fa più male.

Il tabù della depressione

Da quando l’emergenza sanitaria è in corso siamo consapevoli che il Covid ha monopolizzato la scena ospedaliera, a scapito di altre malattie altrettanto serie ma divenute invisibili. Anche i servizi di salute mentale per le popolazioni vulnerabili sono stati in molti casi interrotti a causa della pandemia. In Giappone la questione è ancora più seria perché è ancora ritenuto disdicevole, se non vergognoso, parlare in pubblico di depressione e disagi personali:
In Giappone è ancora ritenuto deplorevole ammettere la propria solitudine o fatica. Ozora [operatrice di una linea telefonica di supporto – NdR] dice che spesso le donne e i genitori che la chiamano cominciano la conversazione con la frase: “So che è brutto chiedere aiuto, ma posso parlare?“. Ueda [un’altra operatrice – NdR] afferma che la vergogna di parlare di depressione spesso trattiene la gente. “E’ qualcosa di cui non si parla in pubblico, non se ne parla con gli amici – dice – Questo provoca ritardi nel chiedere aiuto, e questo è un fattore inerente la nostra cultura”. (CNN)
Nei primi anni 2000 il governo nipponico varò una legge per la prevenzione dei suidici. Una più recente ricerca dell’OMS e diffusa nel paese ha dimostrato che investendo 1 dollaro USA nella cura della depressione e dell’ansia può restituire 5 dollari in produttività economica (fonte: Asianews). Non è una questione di legge né di economia. Non si impone il senso della vita per decreto, né ci servono persone felici per produrre di più. Il buon vecchio Chesterton diceva che «il tratto distintivo ed essenziale della nostra idea umana è che un uomo buono e felice è un fine in se stesso, è che ogni anima vale».
Il kintsugi non è solo un’arte
Tantissimi manuali vengono dal Giappone, per ogni contesto lavorativo e creativo. Sono un popolo dalla cultura millenaria, fondata su una sapienza che affascina tantissimi. Mi sia concesso un paradosso ironico: Marie Kondo ha insegnato al mondo intero a tenere in ordine la casa, ma chi abita in quella casa oggi non è felice di viverci. A che servono delle istruzioni, se manca il contenuto?
Senza dubbio il kintsugi è l’arte giapponese che mi ha affascinata di più: è la tecnica di riparare gli oggetti rotti con l’oro. La frattura anziché essere nascosta, viene messa in risalto e resa preziosa.

Mi rendo conto che per me non è solo una bella trovata, ma è la conferma artistica di un incontro vero: esiste chi ha reso preziose le mie ferite, ha un nome e un volto. Un vaso riparato con l’oro mi ricorda che il Sangue di Gesù ha medicato le mie rotture – presenti e a venire – e anziché cancellarle le ha rese la pietra angolare di una vita salvata, per quanto non facile.



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Mi rendo conto, allora, che proprio l’arte del kintsugi può essere un’intuizione che attende di essere incarnata. Il desiderio di una mano che rende un oggetto rotto più prezioso di quello che era prima è un messaggio che attende la ricevuta di ritorno.  Sì, ecco, io ti porto una buona notizia, quell’oro che aspettavi c’è.
Non una legge, non un incentivo economico. In Giappone (e un po’ dappertutto – pure nel mio quartiere) c’è bisogno di missione.