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Fare scuola è vivere una presenza e non offrire un rapporto virtuale continuato

PIETRO BARONI

Pietro Baroni

Annalisa Teggi - pubblicato il 18/05/20

Intervista al prof. Pietro Baroni: «La didattica a distanza ha sconvolto chi si appoggiava sulla routine e non sulla relazione con gli studenti. Al ministro Azzolina direi: bisogna valorizzare i docenti e le associazioni dei docenti. Sa come si fa scuola chi la fa.»

Non c’è migliore ipotesi per il presente e futuro della scuola di quella su cui si confronterrano i docenti e studenti di tutta Italia che questa settimana prenderanno parte ai Colloqui fiorentini, vale a dire l’intuizione di Cesare Pavese che dà il titolo all’edizione:

E sarà mattino e ricomincerà l’inaudita scoperta, l’apertura alle cose.

Ero una neolaureata in Lettere quando ho conosciuto il gruppo di insegnanti che ogni anno organizza questo evento nazionale dedicato agli autori della letteratura italiana. Mi sono resa conto nel tempo che l’evento era la punta più visibile di un lavoro molto più solido, importante, continuativo: creare una comunità di docenti appassionati al proprio mestiere e desiderosi di condividere il percorso della scuola nelle sue sfide, fatiche e opportunità. Ho conosciuto così Pietro Baroni, insegnante  italiano, latino e geostoria all’istituto Ernesto Balducci di Pontassieve e direttore dei Colloqui fiorentini. Ne stimo soprattutto l’energia umana capace di spendersi sia nel legame profondo con Dante, Leopardi &Co sia nel guardare con empatia curiosa i suoi studenti e colleghi. Quando si è trattato di cercare un interlocutore per fare una riflessione sulla situazione attuale della scuola, ho pensato a lui ed ero sicura che avrebbe mandato all’aria le etichette abusate in questi mesi di didattica a distanza. Da bravo toscano DOC, ha una schiettezza audace di cui lo ringrazio perché ci sveglia dal torpore dei lamenti e dalla trappola di voler trovare sistemi perfetti per ingabbiare il rapporto educativo.

È quanto mai decisivo che la speranza dei nostri insegnanti si aggrappi, in mezzo alla tempesta, all’esperienza di presenza su cui il prof. Baroni ha tanto insistito nella nostra chiacchierata e che l’idolo della tecnica didattica migliore venga abbattuto senza rimpianti.


ANNA MONIA ALFIERI

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Caro Pietro, vorrei che tu accompagnassi i lettori di Aleteia For Her a entrare nella questione educativa attuale. Il coronavirus ha travolto anche la scuola, quali spunti hai messo a fuoco fino a ora?

Il coronavirus ci ha tolto tante cose buone (oltre che, dolorosamente, tante persone) e non ha senso farne l’elenco, che è ben evidente a ciascuno di noi. Il coronavirus ci ha dato anche tante cose. Come diceva qualcuno esperto del settore, ha fatto fare un balzo in avanti di trent’anni alla scuola italiana, dal punto di vista della conoscenza ed utilizzo della tecnologia informatica per la didattica (nel senso che avremmo dovuto aspettare trent’anni perché quelli che già oggi sono strumenti e conoscenze utilizzabili lo divenissero nella scuola). Questo fenomeno ha suscitato varie prese di posizione: chi si è arroccato sulla difesa del passato, temendo un’invasione di una tecnologia spersonalizzante e temendo che il coronavirus fosse l’ariete che potesse scardinare una tradizione didattica fondata sulla relazione fisica e sulla condivisione prossemica dello spazio e del tempo; chi ha salutato l’avvento delle video-lezioni come finalmente l’arrivo del deus ex machina che potrà risolvere tutti i problemi della scuola, non ultimi quelli di povertà e marginalizzazione sociale degli studenti meno fortunati. Ci sono stati anche quelli che, intelligentemente, pur assicurando di voler rimanere legati alla didattica tradizionale (“perché se c’è una cosa che è evidente, è che i ragazzi hanno bisogno della relazione, della dimensione affettivo-emozionale condivisa, etc.”) hanno intravisto elementi di positività, “che non possiamo perdere. Sarebbe un peccato che passasse il coronavirus e noi perdessimo l’occasione di valorizzare alcuni aspetti della didattica digitale, che si sono rivelati molto utili, con nostra grande sorpresa”. Cito da testimonianze raccolte da docenti che conosco.

Io mi sono sempre schierato contro la didattica digitale, senza “se” e senza “ma”. Ho sempre sostenuto, e non me ne pento, che affinché esista didattica occorrono tre elementi basici: un docente, degli studenti (anche uno solo) e un argomento da trattare, attraverso il quale addentrarsi nella conoscenza di sé e del reale. Quindi può mancare il tetto sulla testa, la LIM, la carta igienica nei bagni, il riscaldamento funzionante, può piovere in classe, etc. nulla di tutto ciò può inibire o impedire la didattica, anzi, spesso oggettive gravi difficoltà di contesto, possono invogliare ad una concentrazione e ad un impegno particolari, come una sorta di sfida contro tutte le avversità, qualora si percepisca il valore positivo per sé di quello che si fa (ne ho le prove). Dunque questo tempo di didattica digitale obbligatoria mi ha schiacciato, annichilito, devastato? Nient’affatto. Per nulla. E infinitamente meno di tanti colleghi che credono nella didattica digitale e che quindi di fronte all’evidente inadeguatezza degli strumenti tecnologici di tante scuole si sono sentiti mancare il terreno sotto i piedi (so di insegnanti di informatica che, privati di una connessione adeguata, sono andati in crisi). Semplicemente, come sarei prontissimo a fare didattica senza un tetto sulla testa, senza LIM e compagnia sonante, così sono pronto a fare didattica a distanza, usando videolezioni su Skype, Meet, Zoom, Youtube e chi più ne ha… Ogni situazione ha la tecnica didattica che si può permettere. Senza che la didattica, quella vera, ne venga danneggiata o compromessa.

Quindi qual è il tuo giudizio su questi mesi di didattica a distanza? Èstata una botta dura o un’occasione?

La didattica a distanza ha disorientato o stravolto chi ha sempre appoggiato la didattica su una routine, su una consolidata modalità tecnica. Chi vive di una tecnica didattica è stato sconvolto, perché l’abitudine è saltata completamente; questo tipo di insegnante non si è trovato di fronte a un problema, anche importante da affrontare, si è trovato di fronte a una decostituzione della sua professione. Invece chi ha sempre concepito il suo insegnamento come ruotante attorno alla relazione fra docente e studenti si è trovato semplicemente a dover affrontare un problema, cioè a dover trovare una nuova modalità per conservare e mantenere la stessa cosa, vale a dire la relazione con gli studenti.

Da questo punto di vista, e parlo per l’esperienza fatta nella mia scuola e dai racconti degli insegnanti che ho sentito in queste settimane, ci sono delle scuole che avevano delle strutture tecnologiche già avanzate e ci sono delle scuole che sono allo sbaraglio; in entrambi i casi, le situazioni dei docenti rientrano nelle due possibilità che ho descritto prima: gli insegnanti che avevano una relazione vera coi loro studenti hanno trovato mille modi per mantenerla (o usando gli strumenti messi a disposizione o inventandoseli). Gli altri hanno passato molto tempo nella paralisi lamentosa contro la scuola. La botta che ha colpito la scuola ha fatto emergere la posizione che ogni insegnante aveva già prima: ha esaltato chi aveva una posizione autentica, ha depresso chi non ce l’aveva.

Fammi fare l’avvocato del diavolo: quindi il bravo insegnante può tranquillamente andare avanti con la didattica a distanza?

No, perché questa modalità è adeguata solo in questa situazione di coronavirus. Se indossi una tuta da astronauta per entrare in classe sei cretino, ma se vai sulla Luna devi indossarla. Quindi, per usare uno slogan, possiamo dire: ringraziamo Dio che ci sono gli strumenti per fare la didattica a distanza perché altrimenti, in tempo di coronavirus, sarebbe stato un grosso problema; ma se pensiamo di applicare la didattica a distanza in tempi normali siamo più cretini di quello che entra in classe con la tuta da astronauta. Se c’è una cosa che è emersa in modo molto chiaro è quanto sia decisiva la relazione. La relazione per sua natura esige una presenza e la presenza si può fare a tanti livelli. Se tu ami una persona che parte per un viaggio, sei contentissimo di avere una foto da guardare che te la ricorda. Ma quando la tua amata torna, tu giustamente non continui a guardare la foto.

Sei impazzito a fare lezione a distanza?

Io no, ma c’è tutto un filone narrativo che riguarda la follia di certi docenti: quelli che, terrorizzati dai programmi, si sono scatenati e hanno a valanga sommerso gli studenti di lezioni, come non succedeva neanche prima. Ho dei colleghi che fanno le videolezioni tutte le mattine e lo ripeto: tutte le mattine! Io ho scelto una strada diversa, il 90% delle lezioni le registro e le carico su Youtube; poi gli studenti mi scrivono per mandarmi i compiti e confrontarsi con me. Ogni tanto facciamo una video lezione. Loro hanno apprezzato questo metodo perché possono scegliere quando guardarsi la video lezione ed essendo registrata possono fermarla, riascoltarla nel modo più utile alla loro comprensione. Per ogni materia faccio un video a settimana e il programma di storia, per esempio, l’ho già finito.

Uno dei motivi per cui io faccio la registrazione e non la videolezione è anche questo: noi stiamo vivendo una situazione di coronavirus che ci tiene chiusi in casa. Vedo una gran corsa a lenire il più possibile questa situazione. Non possiamo vederci? Facciamo la video lezione che dà l’idea di essere tutti presenti! Io sono convinto che non sia il modo giusto; questa situazione va affrontata per come è, altrimenti non capiamo cosa perdiamo. Altrimenti non capiamo che sacrificio ci chiede questa situazione e se ci sia un valore in questo sacrificio. Sono assolutamente convinto che sia la realtà che educa, perciò è inutile addolcirla o ammorbidirla. Cercare un virtuale rapporto continuato non ci aiuta; è meglio che ognuno viva la sua solitudine. Io ho mandato ai miei studenti una poesia di Carlo Betocchi che s’intitola Della solitudine e ho chiesto loro di riflettere su quei versi, cioè ho detto loro: fate i conti con questa realtà così dura e faticosa! Non lasciatevela ammorbidire, altrimenti sarà passata invano.

CARLO BETOCCHI, POESIA
Carlo Betocchi

Conoscendo la nostra passione comune, lasciami dire che questa fatica ci ha fatto capire meglio perché il viaggio di Dante comincia dall’Inferno…

Esatto! Virgilio fa fare a Dante un viaggio molto più faticoso di quello che Dante voleva fare. Virgilio non ha detto: «Andrà tutto bene». Dentro questo viaggio imprevisto e complicato, Dante ha trovato un bene anche dentro l’inferno.

Quando tornerai in classe, ti porterai dietro qualcosa di positivo di questa esperienza di scuola virtuale?

No. Certo, ho guadagnato una serie di conoscenze tecnologiche che non avevo; ho imparato a usare delle piattaforme online; ho imparato l’artigianato tecnologico per fare un video su Youtube. Detto questo, non c’è qualcosa che ho imparato da questa esperienza, piuttosto ho approfondito alcune consapevolezze. E ritorno a ribadire che il fattore decisivo è la presenza. Quando è possibile la presenza deve essere fisica perché l’insegnamento è fatto di sguardi, di accenti, di intuizioni, di prossemica; tutto questo vale molto più delle parole che si dicono. I contenuti che trasmetti acquistano senso solo dentro una presenza. Se c’è una condizione che impedisce la presenza fisica, la presenza in sé non è inibita. Presenza non è essere fisicamente in un posto, ma ha a che fare con la trasmissione di significato. Io dico sempre ai miei studenti: «Voi siede seduti su una sedia e appoggiati su un banco; sia voi che le sedie siete in questa classe, ma solo voi ragazzi potete essere presenti». Ti racconto cosa è successo un giorno, durante queste ultime settimane. Mi hanno chiamato i rappresentanti di una classe e mi hanno chiesto di fare una videolezione. Ho chiesto se ci fosse qualche argomento che non era stato capito e mi hanno risposto: «No, è proprio che ci manca l’appello. Ne abbiamo nostalgia». Ecco, cosa significa dire: presente! Essere presenza non è stare gomito a gomito – o schermo a schermo – per chissà quante ore.

COLLOQUI FIORENTINI, DOCENTI, SCUOLA
Pietro Baroni

quali voci hai intercettato dagli insegnanti con cui lavori per i Colloqui fiorentini?

Ci sono delle criticità. Ho sentito la preoccupazione di molti sul fatto che la didattica a distanza ha fatto emergere in maniera forte la disuguaglianza sociale e rischia di creare una discriminazione. Parliamo di studenti che non hanno il computer o lo devono condividere con fratelli o che hanno una scarsa connessione a Internet. Anche a casa mia, i miei figli seguono una lezione su tre perché sia io che mia moglie lavoriamo al computer. A livello nazionale, gli insegnanti con cui ho avuto contatto, grazie ai comitati didattici dei Colloqui Fiorentini, sono contenti al di là delle criticità presenti. Sono contenti di cosa? Che gli studenti cerchino loro, e non altri colleghi, perché riconoscono chi è autorevole nel proporre quella presenza di cui parlavo prima. Questo conferma che la didattica è il docente, che con la sua libera, responsabile, attenta e creativa intrapresa, inventa, innova, espande, alimenta, varia la didattica in lungo e in largo, per corrispondere il più fedelmente possibile all’avvenimento che tutti i giorni accade fra lui e i suoi studenti.

Noi dobbiamo smettere di inseguire la tecnica didattica migliore. Perché non esiste la tecnica didattica ideale. Deve essere il docente il protagonista, quello che sceglie con cura quale sia lo strumento didattico migliore in ogni circostanza.

Buttiamo l’occhio su ciò che potrebbe accadere a settembre. Comincio una lettera ipotetica, tu riempila con ciò che ti sta a cuore: «Cara ministro Azzolina…»

Ho letto alcune idee che circolano sulla ripresa ed è evidente che sono nate da persone che non hanno a che fare col mondo della scuola. Ad esempio: l’ipotesi dell’ingresso scaglionato di 15 minuti tra una classe e l’altra; francamente non so chi possa aver pensato una cosa del genere. Nella nostra scuola ci sono 4 indirizzi di cui solo lo scientifico ha 5 sezioni: non basterebbero 24 ore.  Quello che io chiederei al ministro è di risolvere pochi problemi tecnici: il suo ruolo le imporrebbe di verificare che le scuole delle territorio nazionale siano dotate dei dispositivi per svolgere la didattica a distanza. Le questioni inerenti la discriminazione sociale vanno risolte e lei ne è responsabile.

La cosa più importante che direi all’Azzolina è quella che le farei notare anche fuori dal coronavirus: bisogna valorizzare i docenti e le associazioni dei docenti. Sa come si fa scuola chi la fa. Lo sa chi tutti i giorni fa, come dice Davide Rondoni, «il monaco guerriero» che sta in classe in prima linea nel rapporto con gli studenti. Le associazioni di docenti sono altrettanto fondamentali, perché la creatività, la libertà, la responsabilità dei docenti si accende in una compagnia all’opera. Da soli, tutti gli ideali e gli entusiasmi si affossano di fronte alla prima ingiustizia o al primo ostacolo. Siccome il 90% del nostro lavoro è gratuità pura, di fronte a un’incomprensione o a un’ingiustizia o a una difficoltà è più che naturale mandare tutto a quel paese. Solo una compagnia che tiene desto l’ideale permette che la creatività, la libertà e la responsabilità del docente cresca. Se vogliamo il bene della scuola, il Ministro deve sostenere in tutti i modi, compreso quello economico, i docenti e le associazioni dei docenti. Finora, in tutta questa emergenza, queste associazioni non sono mai state interpellate dalla Azzolina.

Vorrei raccontarle che cosa è emerso, ad esempio, dalle condivisioni tra noi docenti dei comitati didattici dei Colloqui Fiorentini. Ci sono stati insegnanti che hanno raccontato del loro rapporto con studenti a cui sono morti il padre e la madre a causa del coronavirus e hanno confessato che non sarebbero stati capaci di affrontare la situazione così drammatica senza avere alle spalle questa rete di rapporti con altri docenti. Qual è il problema dunque? Il punto è che il frutto umano di questa opera di compagnia è immenso, eppure è la cosa meno misurabile che esista e anche meno controllabile. Non diventa oggetto di interesse del governo proprio perché il potere – poco o tanto – mira ad avere il controllo.

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