Una dottoressa della Poliambulanza di Brescia racconta, le lacrime trattenute a stento, il senso di impotenza che vive davanti all’emergenza crescente dell’epidemia COVID-19.
Le voci dalla prima linea, i medici
Emergono sempre più voci, in questa storia che ci ha scritturati tutti. Certo, ci sono città più sofferenti di altre, per ora, ma la morsa continua a stringere e tutti siamo contenuti tra le due ganasce.
I medici, gli infermieri, gli inservienti tutto il personale ospedaliero è il più chiamato a rispondere e il più provato; il più profetico e forse il più angosciato. Sono uomini e donne che stanno rivelando il volto più bello dell’essere umano, certo; ma forse da una certa distanza si rischia di nascondersi dietro estremismi e consolanti generalizzazioni. Ci saranno sempre medici più o meno preparati, più o meno capaci anche se si capisce che qualcosa sta accadendo alla categoria intera.
Ora più che mai un medico sa di essere chiamato a difendere la vita, curare, guarire se possibile e almeno dare sollievo.
Perché nei fatti ognuno di loro farà la sua brava fatica e avrà continui corpo a corpo con la propria paura e dovrà fare i conti con una stanchezza che non si riesce ad avvicendare su turni.
Il dramma delle decine di malati e deceduti a Brescia. La dott.ssa Intissar Sleiman
Come questo medico donna, una geriatra della Poliambulanza di Brescia. Per me quell’ospedale è sinonimo di trepidazione e gioia: ho partorito due figlie proprio lì e il reparto maternità è una meraviglia. Irene e Francesca, le “mie” ostetriche sono rimaste nei nostri ricordi, e lo sono ancora, vedi?- come due persone di famiglia sebbene abbiamo passato insieme poche ore. Ma di quelle particolarmente intense e interminabili, si sa.
Ora negli occhi e nel racconto di questa donna quell’ospedale, da luogo di lavoro familiare e dominato per anni, è diventato un teatro troppo angusto per contenere tutta la sofferenza che ci arriva, a sirene spiegate. Ogni giorno a decine.
Ci sono diversi passaggi in questo breve video pubblicato su La 7 che mi hanno colpito perché mettono in crisi certa mitologia e aprono domande oneste, laceranti. Per le quali però esiste la risposta.
Ha già parlato della sofferenza, della sua quantità, concentrazione e intensità. Ha già trasmesso con le parole che tradiscono le emozioni la percezione di trovarsi oltre l’argine abbattuto di una violenta, interminabile alluvione.
E ora racconta con dispiacere e una certa sorpresa quello che si trovano a dover fare e che, dice, non faceva parte del loro lavoro:
siamo dei portatori anche di messaggi, di messaggi d’affetto. Di solidarietà verso i familiari. Perché ti dicono: “per favore gli dica che gli voglio bene”. Queste cose qua. Che non facevano parte del nostro lavoro, abitualmente.
Il senso di impotenza che opprime più della paura
Provo tanta compassione, sincera, per questa dottoressa. Oltre alla gratitudine e alla stima per quello che fa, come tanti suoi colleghi. E vorrei poterle essere d’aiuto. Ma come hanno sempre fatto i cristiani, imbarcandosi sulla stessa nave in balia della tempesta, piangendo con chi piange, per gioire alla fine.
Dice che dopo tutto questo, quando finirà e non sa quando (ma sembra dubitare del se!) non sa se farà ancora il dottore. Per tutta l’impotenza provata, soprattutto. Non è per la paura che sente quasi di venire meno: quella c’è ed è sano che ci sia. Il pericolo è grande, continuo e gli effetti di questa malattia sono sotto i loro occhi costantemente, da un mese. E’ proprio perché non può fare abbastanza, perché ne vede morire tanti e non ha il tempo di assorbire il colpo.
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E se invece fosse tutto quello che è chiesto ad un medico? Fare del proprio meglio, con tutta la competenza, l’ingegno, l’astuzia persino, le attrezzature migliori, i farmaci più efficaci ma cercando di fare compagnia al malato, avendo cura della sua persona fino alla fine, tendendo con lui lo sguardo all’oltre, pure se non se ne conosce nulla? Scoprendosi consanguinei, veri fratelli: affetti dalla stessa domanda di infinito e agitati dalla stessa smania di vittoria sulla morte che tutti ci attraversa.
E se, come accade da secoli, la Chiesa fosse stata la più lungimirante, pronta, creativa anche in questa circostanza affidando addirittura a loro, i medici, il compito di essere il volto fraterno che accompagna chi muore fino all’ultimo passo?
Del resto, gli ospedali sono un dono del Cristianesimo.
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La maternità della Chiesa in queste circostanze eccezionali
Continuo a pensare al Vescovo di Bergamo che, nell’impotenza (anche lui la sperimenta, ma di sicuro senza disperazione) che gli impedisce di essere vicino a tutti i moribondi, ha chiesto al personale sanitario di tracciare una piccola croce sul morente, a nome suo. Come fosse la sua.
E il dono da parte del Santo Padre dell’indulgenza plenaria per i malati, i medici e tutti quelli che si prendono cura anche “solo” con la preghiera dei malati? La Chiesa è una madre instancabile.
Resista, cara dottoressa! Che Dio la custodisca e la sorregga in questa fatica immane e le permetta di vedere quanto è amata lei per prima e quanto siamo tutti vicini, invece, alla guarigione definitiva.
Potrebbe essere, il suo compito, anche la semplice ammissione di un’ipotesi: la morte è “solo” il limite biologico che tutti ci aspetta. ma per farci accedere ad una vita nuova. Mi dispiace non poterti guarire ma ti accompagno fino a dove posso, persino nella fretta, nella concitazione, nei ritmi forsennati per cui si cambiano le lenzuola di letti mai lasciati vuoti.
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