Non è tempo di giochi di parole ma di fidarsi dell’Affidabile per eccellenza. Che non salva mai l’uomo senza l’uomo, nemmeno nelle cose naturali. Ve lo dico così confusamente, come di chi sta vivendo una cosa e insieme vuole raccontarla. Ma in questo momento siamo tutti potenziali reporter.
Viviamo in provincia di Brescia, una delle più colpite dal contagio di COVID-19 insieme con Bergamo, dopo il martoriato lodigiano, che ora però inizia a tirare su la testa. Una cosa che significa sovraccarico per tutti gli ospedali (compreso il nostro di provincia) e numero crescente di ammalati e di morti, e non si tratta solo di “tutti anziani e con un corredo di altre rassicuranti patologie” (la quale considerazione è una finta rassicurazione: alzi la mano chi si sente tranquillo al pensiero che possano morire “solo” i suoi nonni o genitori. O persone disabili).
La parabola dell’epidemia -da ieri definita dall’OMS pandemia – è più veloce di quella della presa di coscienza comune, però. Nei nostri bei paeselli sul Lago di Garda i parchi e le passeggiate pullulavano (almeno fino a ieri) di persone a spasso, di bimbi che giocano vicini l’uno all’altro, di auto parcheggiate nei vivai della zona. Emergenza primavera alle porte?
Sono tutte cose che erano legittime, comprensibili, che erano a ragione consigliabili, ma ora non più. E restare ostinatamente spensierati è un atto irresponsabile. La fatica è grande, per tutti.
Quello che ho visto mancare è il senso della priorità. Le cose si capiscono ma si stenta a decidere, forse.
Scrivevo ad una cara amica poco tempo fa, ché avevo più voglia di scherzare (cosa che non dobbiamo perdere), “morire non è la vera tragedia”. Morire grassi, lo è. Battute sciocche, per prendersi in giro, passando senza accorgersene dalle inquietudini della giovinezza alle vampate della menopausa lamentandosi, in via del tutto scaramantica, delle stesse identiche cose, solo in apparenza insignificanti. Perché cercare di piacersi è un selfie al desiderio di uno sguardo che riveli la nostra vera bellezza.
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Eppure è vero: morire non è il male peggiore. Perdere l’anima è la vera tragedia, cioè perdere ciò che non ha ricambi, seconde possibilità, altro tempo per pensarci. Perdere sé stessi, è la sola tragedia personale e cosmica. Bruciarsi la possibilità di essere finalmente felici, definitivamente nella gioia. E allora, cosa c’è di veramente nuovo in queste circostanze? Niente. E come si vive “ai tempi del coronavirus” (espressione che ci è già venuta a noia, sono sicura!)?
Esattamente come ci siamo preparati a farlo, prima. Oppure, ci spero tanto, come l’eccezionalità della situazione ci chiama a diventare. Cioè uomini e donne adulti, decisi, capaci di sacrificio e in grado di esercitare autorità, su sé stessi e su chi ci è affidato. In grado, soprattutto, di accantonare cose provvisoriamente superflue e di concentrarci sull’essenziale. “Mamma, quando papà mi dice no per qualcosa che voglio comprare al supermercato a me va bene lo stesso, lo capisco”. Così mi ha detto una sera una delle figlie. Ed era come svelare un segreto e dire a me, “forza mamma, non mollare. Io ho bisogno dei vostri no”.
Morire non è mai il male supremo, ne sono convinta davvero, ma questo non può in nessun modo significare che possiamo guardare con spavalderia o leggerezza al pericolo che incombe “soltanto” sul bene della vita terrena. E’ un bene talmente prezioso che siamo capaci di dare la vita o almeno di sacrificare tempo, soldi, energie e reputazione per provare a salvare anche solo uno dei tanti bimbi concepiti e destinati al macero dell’aborto, chimico o chirurgico poco cambia. Quello che allo stesso tempo uccide figli e ferisce a morte le madri.
Allora, mi chiedo come mai non si riesca a fissare con robuste funi questo tema, che abbiamo sempre difeso su due fronti, quello razionale (giuridico, politico, sociale) e quello spirituale (rosari, digiuni, celebrazioni eucaristiche) senza che mai l’uno escludesse l’altro, a quello che ora chiama tutti a raccolta. Proprio noi cristiani, intendo.
Ora che ci è chiesto persino di rinunciare ad accedere al sacramento eucaristico, a qualcuno da più tempo che ad altri, perché mettiamo i due ambiti in contraddizione? Non lo sono. Amiamo la nostra fragilità perché è il guscio di noce col quale navighiamo verso l’eternità. E la vogliamo custodire, almeno fino a che è ragionevole farlo.
Da un lato si prega perché il Padre ci liberi da questa prova, ma dall’altro si concorra a diffondere comportamenti adeguati, responsabili, all’insegna vistosa della più genuina carità fraterna. Così dobbiamo fare e velocemente. Serve tutto: dalla mascherina all’amuchina, dai soldi da donare alle strutture sanitarie, all’aiuto agli anziani rimasti soli; servono pazienza e calma (ve ne avanza qualche scorta di magazzino la accetto volentieri. Qui tra lezioni online di tre figli su quattro, medicine da reperire, smartworking e spesa da fare siamo quasi in debito); serve informazione precisa ed equilibrata, serve più di tutto ma non senza il resto, l’intercessione costante al cuore stesso di Dio che la Chiesa continua ad esercitare, anche se stiamo chiusi in casa.
E se il mio posto è diventato proprio quello, le mura di casa (esattamente quella che giusto un mese fa schifavo con espressioni tipo “guarda la muffa, come è sporco il muro, ma dai, la cucina cade a pezzi!”) e la faccenda non l’ho decisa io, allora significa che quello sarà il tabernacolo dove potrò intrattenermi con il Signore. Senza pasticci pseudomistici, senza facilonerie. Ma proprio quando sono dove non ho scelto di essere e sto addirittura volentieri dove mi hanno costretto a restare, sono certa che sentirò più distinti i toc toc di Chi sta alla porta e bussa.
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Perché, mi chiedo senza retorica, continuiamo ad avere paura anche quando siamo certi che il Signore non ci abbandonerà? Perché è nella paura che viene a stringersi a noi, nel dolore che non ci toglie che viene a dirci qualcosa. Perché la spada non perde il filo e resta tagliente anche se non ha più il potere di separarci dal suo amore; perché le malattie sono ottuse e continuano a diffondersi con crudele casualità.
Non ci consolano i proclami “ce la faremo, siamo usciti da ben altri disastri, usciremo anche da questo” perché ciò a cui teniamo sono volti precisi, siamo noi stessi e i nostri cari e via via tanti altri volti, persino quelli dei nostri nemici, persino quelli di chi nemmeno abbiamo mai incontrato, li amiamo per pregiudizio, per analogia amorosa. Li amiamo per allargamento del nostro egoismo purificato, guarito, non negato. Li amiamo per la capacità di arrivare a sacrificare persino noi stessi in nome del valore che vediamo espresso in loro, simile al nostro.
Non ci interessa che si salvi un discreto numero, che tanti ne usciranno. Ci interessa che la faccia della nostra amica torni raggiungibile da una passeggiata, che possiamo ancora bisticciare con la mamma per le critiche che non riesce a trattenere e il suo particolare modo di dimostrarci amore. Ci interessa una salvezza universale perché personale, ci interessa vivere ancora, fino a che non sarà la nostra ora. E se sarà a breve, non importa, va bene così. Questa situazione di emergenza rende soltanto simultanea a tutti una condizione che è vera sempre: siamo fiori appena sbocciati, pronti a sfiorire. Ma per dare, finalmente, il frutto di cui siamo capaci.
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