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Fabrizia: «Dio tiene il mondo intero, vuoi che non tenga i miei figli?»

FABRIZIA LUCCHESE
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Annalisa Teggi - pubblicato il 18/12/19
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Intervista a una mamma con due figli affetti da grave disabilità a causa di un’encefalopatia epilettica: «Se penso alla mia vita prima dei miei figli, potevo dire di essere serena eppure non ero felice. Felice lo sono oggi. La mia stessa vita è diventata più preziosa, pensando a quanto Dio ha cambiato il mio cuore dall’arrivo di Matteo».Fuori era freddo, il giorno in cui ho incontrato Fabrizia. Ci siamo sedute al bar e ho ordinato un té caldo per togliermi il gelo di dosso: non avevo messo in conto di avere di fronte a me un vulcano. Eravamo sconosciute, ma lei mi ha catapultato dentro la storia della sua famiglia senza remore, quasi fossimo amiche da sempre. Nessuna posa, nessuna premura nel chiamare le cose con il loro nome: avere due figli gravemente disabili significa ospitare nel quotidiano incognite e fatiche, lacrime amarissime eppure gioie inattese. Mi avevano suggerito di conoscere la sua storia alcuni amici che hanno fondato l’associazione La Mongolfiera, nata dell’idea di alcuni genitori di fare comunità attorno alla disabilità. Anche Fabrizia ne fa parte e lascio subito che la sua voce vi inondi – come è capitato a me – di quell’entusiasmo paradossale che sgorga da un dolore profondo.

Cara Fabrizia, sono felice che tu abbia voluto condividere la tua storia con noi di Aleteia For Her. Ci presenti la tua famiglia?

La mia famiglia è formata da me, mio marito Marcello e i nostri due figli, Matteo ed Emmanuel. Matteo ha 14 anni ed Emmanuel 9, entrambi hanno una malattia rara, così rara che non ha un nome, possiamo definirla un’encefalopatia epilettica. Si è manifestata in entrambi a 6 mesi dalla nascita con crisi epilettiche che da quel momento in poi, almeno fino ad ora, sono presenti quotidianamente. Le crisi restano nonostante i farmaci, perché c’è una resistenza. Si tratta di un attacco al sistema nervoso centrale che provoca una disabilità grave: dal punto di vista cognitivo sono rimasti allo sviluppo dei bimbi di 8 mesi (ridono sempre, interagiscono agli stimoli), dal punto di vista dello sviluppo fisico sono rimasti a quello dei bimbi di 6 mesi (non stanno seduti, non parlano). Il più grave è Matteo, Emmanuel è più tonico.


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E al di là del quadro clinico, chi sono Matteo ed Emmanuel?

Sono i nostri buffoni di casa, il nostro sorriso quotidiano. Mio marito li chiama i fratelli Dalton. Sono diversissimi, Matteo assomiglia al padre ed è selettivo, serioso ma se ti prende in simpatia ti riempie di versi per manifestarti il suo affetto. Emmanuel è più esuberante, ha preso da me, ed è quello che fa sempre casino: se ti lasci tirare i capelli e far strappare gli occhiali, lui è entusiasta. La loro manifestazione di affetto passa da questi gesti fisici.

Come sono arrivati? La tua ipotesi familiare di partenza qual era?

Matteo è arrivato quando io e mio marito non volevamo figli. Anzi, a dire il vero io sono rimasta incinta una prima volta in modo inaspettato, e lo abbiamo perso. Allora abbiamo capito che quel figlio lo volevamo e dopo è arrivato Matteo. Alla nascita tutto bene, poi dai 3 mesi sono iniziati a manifestarsi segni problematici: aveva uno sguardo strano, abbiamo cominciato il tour de force dei controlli e a me pareva di essere finita sotto un treno. Dicevo: com’è cattivo Dio! Poi mi sono innamorata di questo bimbo. Il superamento della crisi nera è stato possibile dentro un percorso cristiano fatto di incontri ed eventi, anche casuali.

Ad esempio?

Ad esempio, capitò che un’amica mi dicesse: “Guarda ho una cliente che fa le pulizie a casa di Natuzza [Natuzza Evolo, mistica italiana sulle cui visioni e sui cui doni molto abbiamo scritto su Aleteia: qui – NdR] . Vuoi mandarle una lettera a mano che gliela consegniamo?”. Le scrissi, sfogandomi di tutto: sono arrabbiata, non sono una buona cristiana, eccetera. Ero nel pieno dell’autocommiserazione. Natuzza mi rispose prestissimo, conservo la sua lettera in cassaforte, e mi scrisse che non era vero che non ero una buona cristiana perché Dio guarda al cuore e non alle apparenze. Aggiunse che solo un miracolo poteva salvare mio figlio e mi indicò quella che poi è stata la strada concretissima che ho seguito: “Ascolta i medici e prega Gesù e la Madonna”. In quel momento io stavo mettendo in discussione la mia fede eppure pregavo; ero arrabbiata con Dio, ma mi dicevo che forse un aiutino suo poteva arrivare. Poi è arrivato un momento decisivo: quando Matteo aveva 18 mesi ha avuto una crisi fortissima e lo stavamo perdendo. Lì è cambiato tutto. Prima chiedevo a Dio: “Perché mi hai dato un figlio così?”. Quando ho intuito che poteva morire ho chiesto a Dio: “Fai quel che vuoi, basta che me lo lasci”.

LETTERA, NATUZZA,

Fabrizia

Se vuoi, raccontiamo meglio questo passaggio. In altre storie che ho raccolto mi ha stupito trovarmi di fronte a persone che conoscono il buio dell’abisso vero della sofferenza e poi, quando tutto sembra per il peggio, vedono la presenza tangibilissima di uno spiraglietto di luce?

Spiraglietto? A me è proprio arrivato il fulmine. Il buio è terribile, sei devastato. Subentra l’orgoglio, la tendenza naturale dell’uomo ad autocommiserarsi. Di base noi stiamo di fronte alla vita come se Dio ci dovesse qualcosa; anche io ci ho messo molto a capire che di mio non ho niente e tutto è un dono.



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Buio vuol dire che non vedi il domani, niente ti consola: non vedevo la famiglia e tutto l’amore dei parenti che mi si era stretto attorno; gli amici non mi hanno lasciata sola, ma neppure questo vedevo. Anche con mio marito c’è stato un po’ di distacco: soffrivamo entrambi, ma eravamo su due posizioni differenti. Avevo lasciato Dio, ma lui non ci lascia mai: e infatti mi mandò mia sorella, che si trasferì qui dove viviamo un mese dopo essersi laureata a Roma. Io ero inerte e depressa, lei fece da mamma a Matteo. C’erano momenti in cui passava per la testa il pensiero che a togliersi la vita sarebbe bastato un attimo. Mi tratteneva l’amore per la mia famiglia, questo era un forte deterrente alla negazione totale.

Poi è arrivato il fulmine, dicevi?

Sì, era il 14 febbraio del 2008. Abbiamo dovuto portare Matteo, di 18 mesi, al Pronto Soccorso. Ero sola, mentre mio marito parcheggiava, dentro l’ospedale: la crisi era in corso e non si fermava, è scattato il codice rosso e io ero lì, vedevo mio figlio coperto con il telo per l’ipotermia; è stato il momento terribile in cui ho capito che potevo perderlo, è stato il momento meraviglioso in cui ho chiesto di non perderlo. Lì il mio cuore ha urlato a Dio: “Se me lo lasci, non mi lamento più”.

L’umano è drammaticamente così, Chesterton diceva: “il vero modo per amare qualcosa consiste nel renderci conto che potremmo perderla”.

Mi è stato chiaro, in quel momento, quanto era prezioso quel bene che avevo. Fino a quel momento non avevo pensato a che bene prezioso era mio figlio, avevo pensato a me stessa. Prima pensavo: “Io ho un figlio malato” e non “mio figlio è malato”. Capisci? Cambia tantissimo mettere al centro il vero soggetto. Ho scoperto l’amore, ecco cosa è successo. Io non ero di quelle donne che hanno uno spiccato senso materno. Negli anni quel “lasciamelo!” l’ho detto a Dio molte altre volte, perché riconosci quanto è prezioso il tempo passato con un figlio fragile. Ed è stata proprio la scoperta della fragilità a riavvicinare di nuovo me e mio marito; ci siamo uniti in uno scopo comune che sintetizzo con: salviamo il salvabile. Abbiamo cominciato a godere di quel che c’era. Ci siamo anche messi a scherzare dei gesti buffi di Matteo, dei suoi versi e non per ridere di lui. Volevamo ridere con lui. Insomma abbiamo imparato quel che dice il Vangelo, il richiamo a non essere in ansia perché a ogni giorno basta il suo affanno.


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Una riscoperta del presente, dunque?

Noi non facciamo progetti a lungo termine. Anche di fronte ai dottori che ci prospettano scenari complicati, io rispondo sempre: “Dottore, un giorno alla volta”. La stesso vale per quelli che mi chiedono se sono preoccupata per i miei figli quando non ci sarò più. Dio tiene il mondo, vuoi che non tenga i miei figli? Non posso rovinarmi il presente, in nome di qualcosa che non esiste ancora.

Poi è arrivato Emmanuel, un’altra grande sfida.

È arrivato che Matteo aveva 6 anni. È brutto da dire ma il desiderio di aver un altro figlio è nato per dare a Matteo una compagnia, qualcuno che l’avrebbe amato oltre a noi. La motivazione era sbagliata, lo abbiamo capito dopo, ma voglio essere onesta nel dire come stavano le cose.

Hai avuto paura durante la gravidanza?

No. Paradossalmente ero tranquilla. Anzi è una gravidanza che mi sono goduta appieno. Al quarto mese abbiamo scoperto che era maschio e la probabilità che insorgesse la stessa patologia era alta, al 50%. Il dottore disse: “Un figlio disabile è una tragedia, due è una catastrofe”. E io risposi: “Non si preoccupi, quello è mio figlio e me lo curo io”. Capisco il punto di vista di quel medico, ma cosa si aspettava? Che ammazzassi un bambino perché poteva avere la stessa malattia per cui stavo curando e amando il fratello vivo? Con questa seconda gravidanza sono riuscita a vivere l’abbandono fiducioso a Dio. Alla nascita Emmanuel è stato super controllato e ha mantenuto uno sviluppo adeguato all’età fino ai 6 mesi. Poi sono arrivate le prime crisi epilettiche, allora ho capito. La prima volta successe un sabato mattina, ero a casa da sola e cambiavo il bimbo. Ormai so riconoscere le crisi epilettiche in tutti i modi in cui si manifestano, non c’era dubbio. Ho detto a Dio: “Ok, Signore, questa cosa non si poteva scansare, era inevitabile”. La reazione di mio marito è stata molto più risentita, come scatto iniziale, poi mi ha detto: “Fabrizia, ce la faremo. Io, tu, Matteo ed Emmanuel”. Ce la facciamo in effetti, io ho lasciato il lavoro ma non mi sento privata di nulla.



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Dirla così è forte. Ho capito bene il senso? Sei molto provata ma privata di nulla?

In questi anni noi abbiamo imparato l’impotenza. Io, mamma, amo i miei figli da morire, ma ci sono cose che li riguardano rispetto a cui io non potrò mai fare niente. All’inizio questo è logorante, finché non diventa un abbandono fiducioso a Dio. Puoi avere tutto l’amore del mondo, potresti avere anche tutti i soldi del mondo ma alla fine devi ammettere: io sono impotente. L’inizio della gioia è in questa sconfitta.

Tu per ora hai parlato di te e di tuo marito, ma io ti ho conosciuta grazie agli amici della Mongolfiera, un’associazione di cui anche tu fai parte. Non siete più voi da soli a gestire tutto il peso della vostra famiglia, giusto?

Quando mi è stata presentata quest’associazione, io credevo fosse un gruppo di sostegno del tipo «scambiamoci informazioni sulle medicine». E allora mi dicevo: anche no, grazie. Invece ho scoperto una compagnia di amici che voleva vivere con me la quotidianità della vita, con gioia e semplicità. Io ero arrivata a capire che la mia chiamata nella vita era essere la mamma di Matteo ed Emmanuel; con l’aiuto della mia famiglia facevo tutto da sola. Una madre non si stanca anche se fa fatica. Ma grazie agli amici della Mongolfiera ho imparato a chiedere aiuto. Ho conosciuto Davide De Santis, il presidente, non ho visto in lui alcun pathos zuccheroso e allora ho capito che non era lì per propormi un’occasione per piangere insieme. Ne fanno parte famiglie con figli disabili, ma anche famiglie con bambini normodotati e si condividono momenti di compagnia: mangiamo una pizza insieme, o facciamo una grigliata. È stato come scoprire un mondo nuovo, fatto di persone che non si stupiscono quando vedono i miei figli. Io mi ero abituata a sentire la gente dire dei miei figli: «Poverini!», però il pietismo non lo sopporto.

La gente è spiazzata di fronte a una situazione come la tua, tu mostri un territorio di frontiera che a molti fa venire i brividi. Probabilmente certe uscite sono proprio dettate da un’incapacità di dire altro …

Infatti lo capisco benissimo e non reagisco male. Ma nel tempo ho imparato a difendere la dignità dei miei figli. Non mi lascio dire «poverina che hai avuto due figli così», perché non lo sono: quei due figli hanno dato un senso alla mia vita che prima non ce l’aveva. Con gli amici della Mongolfiera questa dignità dei miei figli è evidente. Sono guardati senza l’occhio che giudica. Questi bambini, quando smetti di guardarli per quello che non hanno, ti danno qualcosa che è impagabile.


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Non sempre siamo accompagnati ad aprirci all’ipotesi che lì dove c’è una ferita può non esserci solo un’obiezione ma addirittura un’occasione…

Dio ti dà delle opportunità attraverso chi è ferito e soffre. Tu non sai quante persone sono ritornate alla fede grazie a Matteo. Altri mi dicono che vicino a lui trovano la pace, perché i suoi occhi hanno qualcosa di speciale. Non è facile stare di fronte a un bambino disabile. Stimo molto il fatto che all’interno della Mongolfiera ci siano anche famiglie senza disabili che scelgono di coinvolgersi con noi e liberamente farsi carico del bisogno che abbiamo. È indice di un amore grande, non è scontato. In questi anni, anche frequentando gli ospedali, ho visto tanti scappare di fronte alla malattia, anche famiglie che si sfasciano. Alla Mongolfiera c’è gente che liberamente si spende, per dare una mano a noi: giornate intere dedicate a mettere in piedi uno stand per la raccolta fondi, cose così.

Essendo io una persona abbastanza orgogliosa, della serie «me la cavo», è stato bellissimo scoprire che ero capace di chiamare questi amici anche quando non avevo bisogno. Perché riconosco in loro l’abbraccio del Padre. Ci dicono spesso che Dio insegna a donare, ma è altrettanto vero che Dio ti insegna a ricevere. Ti apre all’accoglienza di ciò che da solo non puoi darti. Certo, io posso dire: me la cavo. Ed in effetti me la sono cavata; ma come me la sono cavata? Ma quanto è bello essere insieme ad altri! Ti faccio un esempio: ho trascorso il mese di agosto in ospedale con Matteo, gli amici della Mongolfiera erano – giustamente – tutti al mare … eppure in reparto mi vedevo arrivare un’infermiera o una fisioterapista che mi diceva: «Mi manda il tuo amico Davide per aiutarti se hai bisogno». Non potevano risolvere i problemi di Matteo, ma ci stavano accanto.

Aiutarsi, non giudicare, essere presenti; è stata questa la compagnia che ho vissuto: sei in mezzo a grossi problemi, eppure ti senti privilegiato. Ci sono persone che vivono una vita cosiddetta normale che non vivranno mai questa gioia, quella di sentirsi amati. Non siamo forse circondati da gente che ha tutto eppure grida la ferita di sentirsi non degnato di attenzione e di amore?

Due vite così piccole e, che qualcuno osa definire inutili, hanno riempito di luce e senso la tua vita, forse anche qualcosa di più?

La presenza di Matteo ed Emmanuel ha dato senso anche ad altre esistenze oltre la mia. Come diceva Chiara Corbella, nella lettera a suo figlio Francesco, nulla è nostro e tutto è un dono; lo dice anche San Giacomo nell’epistola, ricordandoci che tutto quello che è buono viene da Dio e quello che non è buono Dio lo volge al meglio.


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Tutto sta in come tu decidi di vivere quello che ti è dato. Se penso alla mia vita prima dei miei figli, potevo dire di essere serena e avere tutto quel che desideravo … eppure non ero felice. Non ringraziavo mai di nulla, niente mi bastava. “Sono felice” lo dico oggi. La mia stessa vita è diventata più preziosa per me, pensando a quanto Dio ha cambiato il mio cuore dall’arrivo di Matteo. Oggi ho più di 40 anni e mi chiedo: perché ho questo entusiasmo che da ragazzina non avevo? Perché avendo incontrato i miei figli, ho scoperto di essere affamata. Se questa fame di bene non ce l’hai, puoi avere davanti una tavola imbandita e non badarci. In questi anni noi ci siamo dovuti accontare di avere solo “pane duro” a tavola, cioé abbiamo fatto tanti sacrifici; ci sono stati giorni in cui un tozzo di pane mangiato in ospedale insieme agli amici aveva un valore immenso, perché gioivamo di un piccolo miglioramento di salute in mio figlio. Perché quando abbiamo tutto e le cose vanno bene siamo sempre arrabbiati, incattiviti e polemici? Cosa ci toglie l’inquietudine? Lasciarci completamente abbandonati alla Sua volontà: il Signore ti chiede una resa e quando tu ti arrendi completamente, Lui ti dà di più di quello che ti saresti aspettato.