I social tolgono tempo, assorbono i nostri pensieri, ma siamo noi ad essere responsabili dell’uso che ne facciamo. Così può succedere che, mentre qualcuno clicchi a favore della morte di uno sconosciuto, qualcun altro passi le notti in bianco a cercare di fargli cambiare idea, come la svedese Ingebjørg Blindheim.E’ davvero strano come oggi, mentre tutti si affrettano a nascondere la polvere sotto il tappeto e postare solo foto accuratamente selezionate delle vacanze alle Maldive o della costosa cena di Sushi di sabato sera, ci siano persone talmente disperate da esternare in uno stato Facebook o con un Tweet la loro fragilità.
Sarà forse per questo che certe richieste di aiuto non vengono prese troppo sul serio: insomma, sarà voglia di attirare l’attenzione, mica un’intenzione seria di farla finita? D o L? Death or Life? Vita o morte? In fondo, un clic sulla D, quanta differenza potrà fare? Anzi, quasi quasi voglio proprio vedere a che punto arriva questa. Il problema è che, quando poi il suicidio diventa realtà, come è successo lo scorso maggio all’adolescente malesiana Kuching, quel clic pesa. Forse quella richiesta di aiuto voleva proprio essere un atto estremo di attirare l’attenzione, di mettere in mostra il male che la stava corrodendo, ma a quanto pare, nell’epoca dei social, tutti sono pronti a giudicare, a sfidare, a vedere quanto c’è di reale dietro a certe richieste, invece di spendere un secondo anche solo a preoccuparsi, a dire “come stai?”, a lanciare l’allarme a chi potrebbe intervenire.
Leggi anche:
Una chiamata gli salvò la vita poco prima di suicidarsi. Dopo 10 anni ha sposato il suo angelo
Un clic senza pensare che poi, la realtà, arriva davvero. E’ il rumore sordo di una ragazzina di 17 anni che si butta dal terzo piano del palazzo in cui vive perché quel sondaggio le ha dato quel briciolo di forza (o di disperazione) che le mancava per dire basta. 69%: una manciata di voti oltre la soglia hanno fatto la differenza per Kuching.
E’ sempre tutta colpa dei social?
Se il giudizio dei social è spietato e irrazionale è anche vero che proprio da lì partono molte richieste di aiuto da non lasciare inascoltate. Questa consapevolezza ha mosso la ventiduenne svedese Ingebjørg Blindheim, ora conosciuta come il bagnino di Instagram. Questa ragazza non fa niente di eroico, niente di più di quello che potremmo fare tutti, dal nostro cellulare, monitorando le vite di perfetti sconosciuti come già facciamo di solito poi (sì, io e voi), non per trovare l’ultima news di cui sparlare, ma per tendere una mano, seppur virtuale e tirarli fuori dal baratro in cui sono caduti, prima che sia davvero tardi.
Inge monitora gli hashtag considerati a rischio come “sue”, abbreviazione per “suicide” o “cutting” che rimanda alla pratica autolesionista del tagliarsi cercando, tra tanti post, status davvero preoccupanti, che lasciano presagire il peggio o mostrano la presenza di un disagio più o meno grave. Attualmente segue i profili di circa 500 utenti privati che l’hanno autorizzata e, se necessario, quando avverte che il confine tra pensiero e azione si assottiglia, invia richieste di aiuto alle autorità competenti. Questa ragazza ha capito che i social non sono i veri cattivi da combattere, sono invece un alleato potente, a saperlo sfruttare. A fare la differenza sono sempre le persone, quelle che cliccano irresponsabilmente e che, dietro allo schermo, spesso dimenticano che la vita virtuale e il loro sentirsi leoni da tastiera può avere riflessi fin troppo reali.
Un aiuto reale, in un luogo virtuale
Inge ha sperimentato su se stessa cosa significa chiedere aiuto a community web di perfetti sconosciuti: ha sofferto per lungo tempo di disordini alimentari, seguendo account che parlavano di anoressia e autolesionismo, rendendosi conto di quanto i network del suicidio siano allo stesso pericolosi e necessari. Luoghi di incontro virtuali dove è facile aprirsi e tirare fuori quello che si ha dentro, perché spesso, nella malattia, si cerca la vicinanza di persone che non giudichino come adulti, parenti o anche professionisti, persone che vivono lo stesso disagio, ma allo stesso tempo luoghi dove si promuovono anche consigli e modi per farsi ancora più male, per nascondersi meglio, per non farsi vedere.
Leggi anche:
Foto di sorrisi che nascondono pensieri suicidi e depressione
La svolta è arrivata per Inge quando una sua amica si è tolta la vita: “per lei faccio quello che faccio”.
Forse continuerà ad accadere, forse continueremo ad essere ciechi di fronte ai bisogni degli altri, troppo impegnati a mettere in mostra le nostre vite perfette, ma questa ragazza ci sia di ispirazione: tutti possiamo fare la differenza, anche con un clic. Tutti possiamo fare qualcosa per la vita di qualcuno, dobbiamo solo chiederci: ne vale la pena? Vale la pena di spendere la mia immagine per uno sconosciuto? Farmi carico di una richiesta che potrei semplicemente scrollare come il resto delle notizie in bacheca?
Probabilmente sì.