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Frida Kahlo: la femminilità che non si compra (e il femminismo che vende)

FRIDA
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Giovanna Binci - pubblicato il 26/11/19
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Frida, come artista e come personaggio, si può amare o meno, con la sua vita complessa, segnata da passioni e sofferenza, ma di sicuro non ha mai voluto vendere il suo essere femmina alla causa della libertà. Forse perché aveva capito che è proprio quello a renderci libere. Ha sempre mostrato la donna lontana dagli stereotipi degli occhi maschili, ma mantenendo qualcosa di quella femminilità profonda nei fiori in testa, nei colori accesi, nel modo in cui parlava dell’essere madre attraverso la sua arte.Ultimamente vedo Frida Kahlo più di quanto veda mio marito.

La incontro ovunque. Sulle tazze in bamboo biologico riutilizzabili, sulla copertina delle agende in metro, penzolare allegramente dalle chiavi della mia amica di Pilates. Mi era rimasto solo un luogo di privacy da quello sguardo severo che mi sembra sempre giudicare il mio poco femminismo nel senso attuale del termine e il fatto che io, le mie sopracciglia, le curo in modo maniacale per piacere agli altri (fossi sola su questo pianeta, altro che mono ciglio alla Frida), fin quando, un giorno, nel bagno dell’appartamento prenotato su Airbnb, me la trovo lì, formato 200 per 180, a fissarmi dalla tenda di plastica copri doccia. Perché va bene il femminismo, il sentimento, ma condito con una sana dose di trash e materialismo. Che comunque, va bene pure diffondere il messaggio, ma credo che neanche Frida sarebbe così orgogliosa di quel suo “viva la vida” letto dal water, per quanto momento intimo e di riflessioni profonde.

Ma oggi il femminismo vende. E le donne continuano a essere ironicamente lo strumento di marketing che tanto hanno cercato di rifuggire da quando la TV le vedeva solo per il loro stacco di coscia.


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Per carità, è l’intelligenza, ìl rispetto che si sono guadagnate, il loro coraggio a farsi strada nel mondo dei maschi, a fare i numeri alle casse, ma credersi per questo migliori delle soubrette mi pare comunque molto poco femminista e nemmeno tanto solidarietà femminile: che sia il cervello o la coscia, noi donne continuiamo tristemente a essere il pozzo di San Patrizio dell’industria e non perché a loro interessino davvero i nostri messaggi o le nostre battaglie.

Che sia il libro della buonanotte per bambine o il nuovo Indovina Chi con femmine potenti e forti, fino a dover far vendere un nuovo biscotto, se lo fai a forma di Fridina, incassa sicuro.

E mentre Frida combatteva la sua battaglia per sé stessa, lontana dalla popolarità, paladina di un femminismo puro, intimo, per quanto io non simpatizzi molto con la sua storia di amori passionali, sregolati e di ricerca inquieta, mi viene da dire che la sua era comunque una ricerca molto più vera della nostra perché davvero libera. Noi sembriamo vittime di quell’immagine che abbiamo creato e che spesso ce la toglie la libertà, invece di restituircela: la libertà di non fare carriera, di non essere definite per forza dal nostro lavoro, di essere deboli, di avere bisogno di tutele per essere madri, di scegliere guadagni inferiori per avere però il tempo necessario per dedicarci a qualcuno, che sia figlio o anziano.


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Ci sentiamo fiere ad esibirle, le nostre conquiste, la superiorità del nostro cervello e la nostra emancipazione, illudendoci che il nostro orgoglio femminile possa passare da una Frida in bella mostra sulla borraccia dell’ufficio, combattendo una battaglia che a volte mi chiedo se esista ancora, dato che abbiamo più diritti di quanti ne potremmo utilizzare da questa parte di mondo, spesso a scapito di quelli che ci servirebbero davvero, ma che ci allontanerebbero da quell’essere maschi ci siamo date come unica meta.

Frida ha lavorato tanto alla sua immagine di donna, cercando di tirare fuori sé stessa, nella gioia, ma soprattutto nella sofferenza, restituendoci una donna lontana dagli stereotipi dello sguardo maschile, mascolina nei tratti di ribellione come quelle iconiche sopracciglia, ma mai una donna che ha rinunciato alla sua femminilità nel senso più profondo. Mi viene in mente il bambino nell’utero del “Mosé o il nucleo solare”: un manifesto alla vita, per quello che sembra ai miei occhi di profana dell’arte e alla missione di ogni donna a generare molto più di quegli uteri pieni di fiori, ma vuoti, ricamati sulle gonne dei grandi stilisti in nome del femminismo.


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Anche il legame che lega maschio e femmina, nella loro diversità, in quell’”Amoroso abbraccio dell’universo” dove Frida, in un riassunto di mitologia sud americana, racconta la complessità del rapporto maschio-femmina in cui la donna è raffigurata nella potenza del suo ruolo materno, anche nei confronti del suo compagno. Quella donna che dona e alimenta la vita, grazie anche a un uomo che le dà tutela e stabilità, come espresso dal terzo occhio della saggezza sulla fronte di lui.

Non ne so abbastanza di Frida Kahlo per azzardare più di quello che vedo dalle sue opere e che mi ha trasmesso leggere qualcosa della sua vita, ma a volte, quando incrocio il suo viso sulla shopper di cotone che mi passa davanti sull’autobus, mi chiedo se quello sguardo accigliato non voglia dirci: “Povera me, non ci avete capito nulla.”