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Farisei lo siamo tutti, ma non è (per forza) negativo

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 06/09/19
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«Non puoi conoscere qualcuno se non diventandone amico», ha detto Joseph Sievers introducendo il convegno internazionale su “Gesù e i Farisei”, ospitato dal Pontificio Istituto Biblico nell’aula magna della Gregoriana lo scorso maggio. “Diventare amici dei farisei” era il motto al suono del quale gli studiosi convenuti hanno condiviso ricerche e pubblicazioni; anche per noi, tuttavia, è molto utile riconciliarci con una delle figure più fraintese e bistrattate della cultura cristiana: ci aiuterà a volerci bene e a crescere nella fede, perché ogni credente è perciò stesso anche un po’ fariseo. Ma non sentitevi offesi, non ce n’è motivo: leggete.

Forse adesso anche il Papa dovrà moderare i termini, quando per criticare alcune categorie di credenti le taccia di “farisaismo”: in occasione del 110o anniversario dalla fondazione del Pontificio Istituto Biblico, infatti, già nello scorso maggio (7-9) si è tenuto nell’Aula Magna della Pontificia Università Gregoriana (dall’altra parte di Piazza della Pilotta) il convegno internazionale Jesus and the Pharisees. Gli interventi sono tutti pubblicati in video sul profilo YouTube dell’Istituto.


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La novità è che di questo convegno viene pubblicato un resoconto sul numero 6061 de La Civiltà Cattolica, in uscita domani, a firma dei professori Pino Di Luccio (s.I.) e Massimo Grilli.

Personalmente, è stata per me una soddisfazione grande sapere della scelta di

promuovere un riesame delle fonti storiche e letterarie in nostro possesso per fornire un quadro più chiaro sull’effettiva identità dei farisei nell’antichità.

Pino Di Luccio e Massimo Grilli, Gesù e i Farisei (al di là degli stereotipi), in La Civiltà Cattolica 4061, 370-379, 370

Già nel 2013 avevo occasione di scrivere:

Uno dei luoghi comuni più diffusi sul Vangelo e sui suoi personaggî principali è quello sui farisei: essi vengono generalmente ridotti ai due soli tratti dell’ipocrisia e del legalismo, anzi questa stilizzazione è tanto comune e diffusa da aver portato il nome “fariseo” a significare precisamente queste due cose. Tali tratti del personaggio farisaico sono effettivamente risalenti alle labbra di Gesù stesso, e non c’è motivo di dubitare della loro rispondenza alla realtà; e tuttavia essi vedono addirittura stravolgersi il loro significato, se vengono estratti dal loro contesto, perché letti invece nel loro contesto essi mostrano addirittura una certa simpatia di Gesù per i farisei. Prima di procedere, e di provare a illustrare questa parte poco raccontata delle simpatie di Gesù – che non voleva bene solo ai pubblicani e alle prostitute – è bene fermarsi anzitutto a considerare questa semplice cosa: Gesù è spesso impegnato coi farisei, e la cosa è tutt’altro che scontata, come il capitolo 22 del Vangelo secondo Matteo mostra chiaramente.

Per questo ho salutato con gioia il resoconto di un convegno dedicato (fra l’altro) a indagare le radici e le fondamenta del pregiudizio storico sui farisei:

Il giudizio che il cristianesimo, lungo i secoli, ha formulato sui farisei […] è figliastro di una teologia antigiudaica. Una certa teologia cristiana, come quella della “sostituzione” […] ha portato a un fraintendimento sostanziale del movimento farisaico e della successiva teologia rabbinica.

Pino Di Luccio e Massimo Grilli, Gesù e i Farisei, 371

Gli strumenti per correggere il pregiudizio

Pur restando evidente che tali teologie non sono state inventate ex nihilo, ma che bensì traggono almeno qualche appiglio dai Vangeli (meno dalle lettere di Paolo, che del suo essere fariseo si vanta, e dagli Atti degli Apostoli, in cui Luca coinvolge i farisei in svariati “momenti positivi”), mi era sempre parsa lampante – probabilmente per essere cresciuto ed essermi formato teologicamente in una temperie già “in via di bonifica” – l’inammissibilità di una derivabilità totale dell’antifarisaismo dalle Scritture cristiane. La problematica storica tuttavia è complicata dal fatto che il giudaismo farisaico del I secolo andò definendosi dopo la distruzione del Tempio (70), cioè in pratica mentre le redazioni dei Vangeli canonici si avviavano a chiusura. Di Luccio e Grilli enunciano quindi così i “tre cardini” attorno ai quali ruotano le svariate problematiche implicate:

  1. una questione “ontologica” (chi erano veramente i farisei?);
  2. una epistemologica (quali sono i criteri per arrivare alla loro vera identità?);
  3. una ermeneutica (come interpretare i testi che li riguardano?).

Di fatto, i cardini esposti si presentano all’attività del ricercatore dal basso verso l’alto, ossia cominciando dal basso e andando verso l’alto. Richiamando il documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili”, gli autori ricordano che:

[…] dato che la Chiesa cristiana e l’ebraismo rabbinico post-biblico si svilupparono in parallelo, ma anche in una reciproca opposizione ed ignoranza, non è possibile trovare una risposta a questa domanda basandosi soltanto sul Nuovo Testamento.

Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili, 31

Gli accademici hanno succintamente ricordato come anche illustri studiosi (vengono fatti i nomi di Jeremias, Perrin e Fuchs) siano incappati nell’errore di adottare acriticamente il pregiudizio anti-farisaico, giungendo così a tesi storicamente errate – ad esempio che fu l’annuncio della misericordia e del perdono ad aver avviato Gesù alla morte e l’ebraismo alla sua crisi –, e perfino proponendole professoralmente.



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Puntuale giunge nell’articolo anche il riferimento agli scivoloni degli studiosi di due o tre generazioni antecedenti quella degli autori ora ricordati:

Sotto l’influsso di Wellhausen, Bousset, Schürer e altri, questo periodo è stato presentato come un’epoca di degenerazione legalistica rispetto al giudaismo “profetico” delle epoche precedenti. Lo schema evolutivo hegeliano ha fatto sì che la lettura di tale epoca – con il movimento farisaico identificato quale espressione sintomatica del tempo – fosse interamente negativa […].

Pino Di Luccio e Massimo Grilli, Gesù e i Farisei, 374

E invece la vivacità del giudaismo intertestamentario è attestata sia dalla letteratura sia dalla stessa storia della resistenza agli imperialismi alessandrino e romano, dai Maccabei agli Zeloti di Masada.

Molto gustoso il riferimento alla relazione di Joseph Sievers:

Con tutte le cautele che si devono prendere sulla datazione del brano e sul linguaggio piuttosto arcano, il Talmud (b. Sotah 22b) menziona sette tipi di perushin, da quello che ostenta se stesso a quello che teme Dio e lo ama nel profondo del cuore.

Ivi, 376

Sette sfumature di farisaismo

Il brano è tanto interessante quanto poco “utilizzabile”, se si vuole procedere con rigore, perché – come lo stesso Sievers ha precisato – «è difficile sapere se i sette tipi di perushin menzionati in questo brano siano da considerarsi farisei o altro» (ivi, 377). Ma la questione epistemologica si affianca a quella ermeneutica, visto che la datazione di singole parti del Talmud è ancora più complicata di quella del Talmud nel complesso, quindi “perushin” potrebbe indicare semplicemente “i credenti impegnati”, più che quanti si riconoscono in una specifica setta: le guerre giudaiche, culminate proprio in concomitanza con la redazione del Nuovo Testamento e la formazione dei canoni biblici (quello giudaico e quello giudaico-cristiano), avrebbero azzerato in pochi decenni la setta degli Zeloti e quella dei Sadducei, lasciando gli Esseni alla loro eremitica marginalità. I farisei sarebbero stati dunque, da prestissimo nella “common era”, dei superstiti – della guerra mossa loro dall’Impero, sì, ma soprattutto del giudaismo ierocentrico che da Tito ad Adriano i Cesari si premurarono di fare a pezzi –: essi sarebbero stati dunque i soli artefici del giudaismo posteriore, che anche per l’assenza di tempio e sacerdozio fu detto “rabbinico”.



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Quando si arriva in fondo all’articolo, tuttavia, si trova la conferma a quanto uno già segretamente sospetta:

La fiducia in Dio, il giudizio, la fede nella risurrezione, l’attesa del compimento futuro e così via appartengono sia alle basi del giudaismo rabbinico sia a quelle del cristianesimo. Leggendo alcune pagine evangeliche, si potrebbe persino ipotizzare che Gesù fosse un fariseo.

Ivi, 376

Ipotesi proposta con più cautela del necessario, forse: se anche Gesù non fosse stato un fariseo, di certo ebbe grande simpatia per quelli che di sicuro considerava come i suoi principali interlocutori. Questo non lo attestano soltanto le luci tenui di Luca, discepolo del fariseo Saulo (discepolo a sua volta del fariseo Gamaliele), nei cui testi troviamo (anche) farisei che senza malizia vanno ad ascoltare Gesù o lo invitano a pranzo (Lc 7, 36-50), nonché farisei che avvertono Gesù di gravi pericoli imminenti (Lc 13, 31-35); questo lo dimostrano perfino le liti furibonde narrate da Matteo nel capitolo 22.

Le schermaglie di Gesù tra farisei e sadducei

Dopo aver raccontato una bella e difficile parabola – quella del re che manda a chiamare gli invitati per le nozze di suo figlio – Gesù viene attaccato da due fronti contrapposti: prima i farisei mandano i loro giovanotti più promettenti (insieme con un gruppo di lealisti dell’ormai perduta monarchia giudaica) a stuzzicare Gesù sulla delicata questione dell’occupazione romana in Palestina, col pretesto del tributo a Cesare. Vedendo la genialità inusitata dello stratagemma con cui Gesù sbaraglia la trappola postagli, si fanno avanti i sadducei (Matteo sottolinea: «In quello stesso giorno» [Mt 22, 23]), con un trabocchetto di tutt’altro tipo, che voleva approdare al medesimo risultato di sconfessare Gesù portandolo alla contraddizione, ma su tutt’altro piano: si trattava infatti di un tranello che usava un versetto della Scrittura (quello che prescriveva la legge del levirato [Deut 25, 5-10]) alla stregua di come i farisei avevano usato il denaro del tributo. L’intenzione di questi era infatti usare il denaro non per delegittimarne il valore, ma per portare Gesù a scegliere tra il collaborazionismo con gli invasori o la solidarietà con quanti si ribellavano a Roma (anche con le armi); l’intenzione degli altri, in modo analogo, era usare il versetto del Deuteronomio per spingere Gesù a schierarsi dalla loro parte (Matteo li presenta succintamente come “quelli che negano che vi sia una risurrezione” [Mt 22, 23]) o da quella dei farisei. Come nel primo caso, Gesù rifiuta in blocco l’alternativa posta dai suoi interlocutori e sposta il discorso su un altro piano, dove è lui a dettare le regole del gioco (e dell’interpretazione della dottrina sacra): i farisei non gli avevano citato la Scrittura, e Gesù non ha risposto con la Scrittura; i sadducei, invece, gli avevano posto il tranello a partire da un versetto scritturistico, e mediante un versetto scritturistico Gesù ha bloccato il loro ragionamento.



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La reazione alle due questioni, inoltre, era stata molto diversa: ai giovani farisei Gesù aveva risposto con una domanda stizzita – «Perché cercate di incastrarmi, ipocriti?!» (Mt 22, 18) – cui era seguito lo strepitoso contropiede dell’immagine di Dio contro quella di Cesare – «Date dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 21) –; ai sadducei, invece, era toccata un’umiliante stroncatura, che non lasciava appello a replica alcuna – «Vi sbagliate, dal momento che non conoscete né le Scritture né la potenza di Dio» (Mt 22, 29). I sadducei, infatti, non osano più rivolgere la parola a Gesù; la cosa non poteva essere sfuggita ai farisei, che erano già di per sé ai ferri corti con gli altri, e non poteva essere spiaciuta loro. Difatti – Matteo annota: «Avendo saputo che [Gesù] aveva ridotto al silenzio i sadducei» (Mt 22, 34) – riprovano immediatamente ad affrontarlo, e stavolta a parlare non è un brillante giovanotto, ma «uno di loro, giurisperito» (Mt 22, 35), insomma doveva essere ritenuto uno con parecchie cartucce da sparare davanti a quell’osso duro di Gesù. Stavolta la domanda è più sottile, il trabocchetto è nascosto infinitamente meglio, sotto le parole cortesi di un bravo avvocato: «Maestro, qual è nella legge il precetto grande?» (Mt 22, 36). E Gesù risponde, stavolta anche a loro, citando la Scrittura (visto che sulla Scrittura era stato interrogato): «“Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima e con tutta la tua forza” [Deut 6, 5]: questo è il primo precetto, quello grande. E il secondo è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” [Lev 19, 18]. In questi due precetti si riassumono la Legge e i Profeti» (Mt 22, 37-40).



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L’impressione che Gesù fece con questa risposta dovette essere notevole, perché Matteo non ha repliche da riportare: i farisei, anzi, gli si fanno vicini, in silenzio, e a quel punto è Gesù che rilancia sulla Scrittura, ma alludendo a se stesso in un modo così alto e sottile da prodursi alla fine in un invito che quelli non sembrano aver saputo accogliere. Gesù chiede infatti del Messia, da dove secondo loro dovrebbe spuntare: quelli – giustamente, perché loro la Scrittura la conoscono – rispondono che dovrebbe essere uno della stirpe di Davide. E qui Gesù li aspetta per spiazzare loro e tutti i lettori di Matteo, compresi noi: Matteo infatti aveva iniziato il suo Vangelo proprio nel segno di Davide, premettendo a ogni racconto di fatti e di persone la genealogia di Gesù da Abramo a Giuseppe, passando per Davide (Mt 1, 1-17). Tutta la genealogia si era compiuta nel segno di Davide (il numero “14” indicava proprio il nome “Davide”, e lo si trova che scagliona per tre volte l’elenco dei nomi), ma d’altro canto essa era stata sottilmente interrotta – perché Matteo sa, e dice!, che Giuseppe non è il padre carnale di Gesù. Il lettore attento aspettava dunque da ventidue capitoli questa domanda di Gesù; quello disattento non l’aspettava, e ne resta spiazzato non meno dei farisei, perché Gesù apparteneva ufficialmente alla discendenza davidica, eppure cita un versetto di un salmo davidico, che riferisce al Messia (ossia a se stesso), per suggerire che il Messia è molto più che un figlio, per Davide, anzi chiede come egli possa essere suo figlio, dal momento che lo chiama “Signore” (Mt 22, 41-45). Nessuno osa rispondere; nessuno osa più ribattere con domande; nessuno, in fondo, ha idea di ciò cui Gesù allude – ovvero del suo segreto, del segreto della sua persona divina.

Il peccato originale degli esegeti biblici

Dunque non solo i farisei piacciono a Gesù, ma anche Gesù risulta perlomeno intrigante per i farisei: per l’afflato messianico da essi tradizionalmente coltivato e per la dottrina autorevole con cui Gesù pareva corrispondervi. Ma pure, va detto, per le sue azioni in cui gli evangelisti hanno riportato i segni dei tempi messianici. Ora, in questo forse anche i due autori dell’articolo non sono esenti dal peccato originale degli esegeti contemporanei, i quali talvolta (proprio come quelli sopra riportati) affermano cose non dimostrabili.

[…] non sta in piedi mettere sulla bocca di Gesù le parole «Fate e osservate tutto quello che essi [gli scribi e i farisei] vi dicono; poiché essi parlano [solamente] e non fanno» (Mt 23,3). Prima si ordina di osservare in toto l’insegnamento dei farisei, e poi di rifiutare in toto il loro comportamento? È un po’ come quando si dice che Gesù guarì “tutti” i malati, o che percorreva “tutte” le città e i villaggi della Galilea e della Giudea (cfr Mt 9,35): si tratta di iperboli, | che hanno un intento pragmatico e che non vanno lette nella loro accezione locutoria, ma nella loro forza illocutoria, con l’intento cioè di produrre un qualche effetto sui lettori.

Ivi, 376

Di Luccio e Grilli sono chiarissimi ed esimî professori, ma in questo passaggio affermano cose che nessuno può dimostrare: l’attività itinerante di Gesù durò almeno alcuni anni (due o tre senza dubbio), e la Galilea e la Giudea non sono certo l’Asia – che problema dovrebbe avere una carovana stimabile tra le due e le dieci decine di persone a percorrere, spostandosi molto frequentemente, tutti i centri abitati di una regione modestamente estesa (perfino con qualche incursione in Samaria)? E perché un taumaturgo non potrebbe curare tutti i malati che incontri sul suo cammino (riportando anche dove e perché tali guarigioni miracolose non avvenivano)? La risposta “perché è un genere letterario” costituirebbe un’irricevibile petizione di principio, com’è evidente. Inoltre il delicato versetto di Mt 23, 3 non è riportato interamente (e manca il segno “[…]”), altrimenti si vedrebbe che “in toto” c’è soltanto la ratifica dei contenuti dottrinali di scribi e farisei, non la sconfessione di tutta la loro prassi. I cui limiti, peraltro, sono dettagliatamente enunciati nei versetti seguenti:

Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente.

Mt 23, 5-7

Il senso perenne dell’esempio farisaico

Tale è l’essenza – per come capisco il testo – non del farisaismo in quanto corrente infragiudaica bensì di un certo modo di vivere la fede giudaica, un modo così trasversale che Gesù accomuna qui i farisei agli scribi, laddove nel capitolo precedente Matteo era scrupolosissimo nel distinguere i farisei dai sadducei. Se Matteo riporta queste parole e le comunità le hanno conservate e riprodotte, si vede come è stata da essi intesa una loro validità perenne: il fariseo esiste sempre – con le sue sette sfumature talmudiche – nel corpo ecclesiale perché ogni bravo credente è un fariseo. Egli è un uomo che crede in Dio e/o vuole crederci, e che di questo impegno ha fatto un punto essenziale della sua vita. Poiché però la fede e la religiosità non dipendono che solo in parte dall’impegno e dalla buona volontà degli individui – e del resto il fariseo non è ben disposto a lasciar cadere la propria (idealizzata) immagine di sé alle ortiche (specie davanti agli uomini) – egli accentua proprio quei tratti della religiosità il cui mantenimento dipende anche solo dalla buona volontà dell’uomo (digiunare, pagare le tasse, fare l’elemosina, dire molte preghiere, perfino lunghe…), col rischio concreto di ritrovarsi a un certo punto a non ricordare più che la fede è un’altra cosa.



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Forse allora non sarà tanto il Papa a dover moderare i termini, quando per criticare alcune categorie di credenti le taccia di “farisaismo”: sarà meglio che tutti rinnoviamo la nostra capacità di comprendere il messaggio che le sempreverdi pagine delle Scritture hanno per noi.