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Soffrire di depressione non è una colpa e guarire non è una magia

SADNESS
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Paola Belletti - pubblicato il 04/09/19
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Ciò che come esseri umani attraversati dalla sofferenza desideriamo è certo guarire e stare bene, ma prima di tutto essere amati, ascoltati con compassione, guardati a lungo. Non respingiamoci a suon di sentenze, inspiring stories e motti di santi usati non sempre a proposito. Ti amo ora, mentre sei poco amabile. Ti sto vicino adesso, mentre sei preda dell’angoscia. Sei un bene prezioso anche se sai solo piangere o rispondere bruscamente.

I social possono essere occasione di ascolto vero

Come succede a tante persone attive sul web, mi capita spesso di ricevere racconti personali e confidenze. Persone sconosciute o almeno lontane che ci arrivano addosso grazie a quel tunnel che ci precipita tutti nelle case di tutti, i social. E cosa cercano, cosa cerchiamo in un’altra persona che forse ci è parsa in qualche modo adatta, che ha tradito una qualche disponibilità? Non tanto aiuto o meglio aiuto, sì ma innanzitutto nella forma della comprensione e prima, necessariamente, dell’ascolto, del tipo vero, quello intero e compassionevole.

Le nostre vite, a volte pare, sono come soldati di leva lanciati in campo aperto, incontro ad un nemico che si conosce poco, sotto grandinate di colpi che arrivano da ogni lato e poi polvere, fumo, urla. Siamo mal equipaggiati e costretti a combattere una battaglia che a volte dobbiamo ancora capire. Chi ci odia a tal punto? Chi dobbiamo colpire e perché? Come sono finito qui? E siamo tanti, in condizioni pressoché simili eppure soli. Così ci sembra, a volte, no?

Pensando a questo, con ancora nelle orecchie la voce flebile di un’amica lontana schiacciata (non vinta sorellina, vedrai!) da un’improvvisa quanto severa forma di depressione, pochi giorni fa ho scritto un post sul mio profilo Facebook, di getto.

Posso segnalare un rischio del pensiero cattolico (a pensarci meglio non solo e non propriamente cattolico. Anche il mondo ce lo dice, per altre ragioni)? La depressione non è colpa di chi ne soffre. Essere sempre positivi, col mordente giusto sulla vita, certi ed ottimisti non è sempre la boa che segnala la presenza di una buona ancora di fede. Ci sono prove particolarmente dure, indoli differenti, storie aspre ben più di altre. Ci sono prove particolarmente dure, particolarmente lunghe, senza tanti comfort. Ci sono prove lunghe, dure, estenuanti che implicano spesso la solitudine (non voluta, subita). Non affibbiamo al sofferente anche il peso di sentirsi colpevole del proprio stato. Di sicuro ci sono atteggiamenti da correggere, abitudini sane da prendere e cattive da abbandonare. Di sicuro conoscere l’amore di Dio cambia tutto, ma sappiamo che siamo nel regno del già e non ancora. Non semplifichiamo.

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A parte la tristezza di autocitarsi (ahahahah!), ve lo racconto perché diversamente da tanti altri post, passati quasi inosservati, questo ha ricevuto una risposta consistente che dura da giorni. Ed ha generato tanti messaggi privati. Non me lo aspettavo, la mia intenzione era solo esprimere una considerazione parziale su un’esperienza parziale, la mia. Di amica, confidente, e a volte anche di sofferente in prima persona, sebbene non di depressione.

I modelli aiutano eccome. Ma a trovare il proprio

Promuovere e diffondere indicazioni di igiene mentale smarrite, suggerire strategie che mantengano alto e stabile il tono dell’umore o perlomeno senza eccessivi picchi in alto e in basso è un atto di vera carità. Continuiamo a farlo, soprattutto i più esperti ed autorevoli tra noi; troviamo nuovi argomenti, esempi e testimonianze, fanno tutte del bene.


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Eppure il rischio di spingere troppo sul positivo, su “come fare a farcela”, sui trucchi che funzionano, può essere riduttivo o addirittura finire per opprimere ancora di più chi sia in seria difficoltà. Certo, non possiamo usare il criterio “forse questa parola offende qualcuno” perché sui social è praticamente sicuro che sarà così. Occorre dire la verità, certo. Ma sul tema depressione e sofferenza dell’anima (che spero di accostare non troppo indebitamente) forse bisogna anche provare a mettere sul tavolo un’offerta che si vede di rado: la disponibilità all’ascolto e alla compassione, prima di ogni giudizio e soluzione. Sapete cosa? Credo che chi si trova oppresso e faccia lo sforzo di chiedere aiuto tema che la rapida proposta di una soluzione al problema sia l’inevitabile preludio della distanza che ne seguirà, come se si sentisse dire: “Ti aiuto così poi posso andarmene un po’ più in là, via da te e dal peso che porti”. E’ un’impressione solo mia? Ovvio, la prossimità artificiale dei social è ingannevole: non possiamo farci confidenti e amici di centinaia o migliaia di persone.

Se ci sentiamo tristi fino alla morte, se non proviamo stati d’animo leggeri e positivi da troppo tempo e il massimo che ci riesca di fare è non soccombere usando per questo risultato “minimo” tutte le forze residue, confrontarci con modelli risolti, che provengono da storie terribili ed estreme, dalle quali altre persone sono uscite definitivamente (forse con momenti di alti e bassi che in un breve scritto non possono essere resi nel dettaglio), non può che abbatterci ancora di più. Ci troviamo a pensare che solo mettendo in atto quei comportamenti, assumendo quei pensieri, facendo nostre quelle massime usciremo dal nostro stato. Si tratta “solo” di seguire le indicazioni, no? Mentre se ci pensiamo bene la caratteristica comune di tante di queste storie di rinascita consiste nel fatto che ognuno ha trovato la propria strada, ha scoperto di sé qualcosa che è solo suo, ha cercato sulla porzione di roccia ripida che doveva salire gli appigli più vicini alla sua mano.


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L’esperienza del dolore interiore va accolta prima di essere superata

La nostra vita non è un sviluppo dal meno al più, continuo e regolare, la guarigione stessa non lo è. Le conquiste interiori non sono come le sorti, magnifiche e progressive. Non senza essersi fatte prima carsiche, nascoste nel ventre scuro della nostra anima terrosa, non senza morti, non senza notti, non senza croci. Tutti vogliamo vivere da risorti, anche quando remiamo contro noi stessi; ma imparare a desiderarlo e proseguire sulla strada che esce dai nostri diversi sepolcri è impresa ardua, e lo diventa di più se attorno a noi sentiamo solo risuonare generici appelli alla gioia, inviti a trovare il positivo, frasi ispirate che però potrebbero essere dette a chiunque e non a noi, ora. Cerchiamo un tu, qualcuno che si faccia veramente nostro prossimo.

Non tutto dipende da noi, né per quanto riguarda le condizioni esterne né per quanto riguarda quelle interne. Non ci possediamo totalmente, non ci manovriamo come una macchina. Siamo davvero un mistero a noi stessi, un intreccio complicato, siamo profondi in modo spaventoso.

E fino a che quella profondità, oscura, non si scopre raggiunta e abitata da una presenza buona, la paura, a tratti pura angoscia, non può che farla da padrone.

Non opprimiamo i nostri fratelli usando argomenti di fede

Ma questo non è ancora il finale. No, perché c’è proprio un rischio connesso a chi viva da credente, a chi abbia avuta la grazia della fede in Cristo Gesù. Ci si ritrova con altri, fratelli nella fede ma prima di tutto consanguinei per il peccato originale, e tra noi, a volte, si innesca quel gioco per cui a suon di frasi di santi, meme suggestivi, citazioni spurie da santagostini e simili, ci si chiude nel vicolo cieco per cui se sei abbattuto non hai abbastanza fede, se non hai gioia allora è perché non confidi davvero nel Signore, se sei triste, sei preda del demonio. E di sicuro, ti assicurano alcuni, se non ottieni il miracolo è perché non preghi abbastanza.


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Peraltro va ricordato che Dio stesso è persona ed è libero; libero di mostrarsi e nascondersi, di consolare e di abbattere (Mutatis mutandis, questa specifica angheria in ottima fede mi è stata inflitta per mesi, fino a che non ho imparato a difendermi: mio figlio non è ancora malato per il fatto che io non preghi abbastanza, sebbene sia certo che potrei pregare di più e meglio e avere anche più fede  – cosa che chiedo. Lo scrivo tra parentesi per ricordarlo a me stessa più che ad altri).

Tutto vero, in un certo senso. Ogni male morale ha una sola radice, quella del peccato, promosso da sempre dal Maligno, che tragicamente ne gode. Ma non è mai così semplice, nelle nostre vite in pieno svolgimento, e semplificare non è sempre frutto di una mente geniale che trova la norma nel caos, a volte è indebita banalizzazione.

Oltre alla tristezza per un male subìto o compiuto esiste quella sana, fatta di un’inquietudine selvatica che non ci abbandona mai: siamo creature, mai bastanti a noi stesse e affamate di infinito. Si può soffrire per il male e per non sufficiente bene; si può soffrire di nostalgia talmente acuta da sentirla infilarsi nel petto come un pugnale. Si può patire di bruciori alla bocca dello stomaco sapendo che esiste un ristorante mille stelle Michelin e si è costretti, per condizione esistenziale, a mangiare tutti i giorni McDonald’s.

Ora, il paragone sembrerà eccessivo, ma nemmeno la Madonna è stata risparmiata dal dolore e dal buio pur sapendo che quello a morire in croce era Dio e per questo tutt’uno con l’eternità. Il nesso non è con la depressione, ma con il dolore interiore sì.

La drammatica, magnifica speranza cristiana

Diceva un caro amico, con una cartucciera di battute sempre carica, che si vedeva costretto a prendere ansiolitici perché era circondato da persone ansiogene. Questo per dire che le condizioni esterne contano, quello che ci tocca attraversare conta, vedere morire un coniuge, un fratello, un amico conta, avere avuto un’infanzia aspra pesa. Attraversare una lunga malattia fa la sua bella differenza e la sofferenza, manco a dirlo, fa proprio soffrire. È nella sua specifica natura: nel dolore si patisce.

È il senso che con Cristo è cambiato; è il fatto che Cristo stesso sia con noi  – in noi!-mentre soffriamo che cambia il nostro modo di attraversare la sofferenza. Non diventa un tappeto di rose, restano carboni ardenti, ma sappiamo per chi bruciamo.

Per questo si può addirittura arrivare ad amarla, la sofferenza, se la sappiamo voluta da Dio. Sì, intendo proprio voluta. Ho un amico che quando tocchiamo questo argomento si arrabbia e alza la voce e mi respinge con delle raffiche di no. Dio ha voluto che Suo Figlio soffrisse e morisse. E Cristo ha voluto ciò che voleva il Padre, quindi sì, ha voluto e ha amato soffrire. Non lo ha solo accettato e sopportato in attesa che passasse, in divina, ineffabile apnea.



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Su questa fune sospesa a decine di metri dal suolo senza rete di sicurezza si cammina solo guardando avanti, altrimenti si rischia di cadere nella disperazione, nel masochismo, nell’autocompatimento e in un perverso narcisismo che insterilisce. E’ una fune ed è difficile camminarci, eppure è possibile e porta di là.

Ma per tutti noi che a turno ci troviamo, un piede davanti all’altro, sulla corda o sulle acque in tempesta di una delle nostre Tiberiadi, quel che occorre è la certezza, fosse anche solo il ricordo, di un amore smisurato, di una compagnia profonda, di qualcuno che non abbia paura di farsi nostro intimo.

Serve Dio in persona o qualcuno che, in sua vece, ignaro magari di esserne emissario e strumento, ci resti vicino e ci tenga su, in equilibrio, con il suo stesso sguardo. Qualcuno che sappia mantenere gli occhi nei nostri proprio quando siamo spaventati, forse spaventosi, probabilmente respingenti, di sicuro poco piacevoli. Sono capaci tutti di amare una persona amabile, ma quello che rivoluziona il mondo è l’amore a chi non lo merita, non lo ispira, magari lo riceve con una smorfia o vi risponde con un pugno. Un amore misteriosamente dovuto all’altro perché esiste, vive. Per questo motivo quello dell’amore è un comando di Dio e non una linea guida da organismo internazionale.