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Non vedo un povero ma un uomo dal valore infinito

BUSINGYE, TOMMASI, MEETING
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Annalisa Teggi - pubblicato il 21/08/19
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Dalla tratta dei piccoli campioni di calcio nei villaggi africani alle scuole negli slum del Kenya: dal Meeting di Rimini le ipotesi di speranza di Rose Busingye, infermiera in Uganda, e di Damiano Tommasi, Presidente dell’Associazione Italiana Calciatori.Le molte ferite che ancora piagano il continente africano rischiano di ridursi, agli occhi dell’opinione pubblica, alle immagini dei migranti che aspirano a raggiungere le coste italiane e agli strascichi politici sulle ONG. Che sia in corso un’emergenza umanitaria nel Mediterraneo è fuori di dubbio; che il tema degli sbarchi sia la prospettiva prevalente, se non unica, attraverso cui guardare questo dramma umano rischia di essere una riduzione grave. Che bisogno si legge negli occhi di quegli uomini e donne le cui immagini popolano giornali e televisioni spesso solo per esacerbare discussioni astratte sull’accoglienza? Ragioniamo solo in termini di rimedi oppure abbiamo a cuore il bene delle persone?


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Con queste domande in testa, ho assistito a un incontro ospitato dal 40 Meeting di Rimini dal titolo Sostegno a distanza: io protagonista nel mio paese che ha avuto come relatori alcuni protagonisti dei progetti di AVSI, associazione che da anni opera in tutto il mondo con progetti di sostegno a distanza (aiuti economici, educativi e formativi che innestano semi di bene proprio nei luoghi più feriti della terra, dal Kazakistan al Venezuela). Illuminante è statala testimonianza di Rose Busingye, infermiera professionale specializzata in malattie infettive che a Kampala in Uganda si occupa della cura di malati, orfani e di educazione. Oltre a lei, ho ascoltato la storia Lamas, un ragazzo nato e cresciuto nello slum (baraccopoli) di Kibera in Kenya e mi ha colpito la riflessione di solidarietà sul «mettersi in gioco» che ha proposto l’ex calciatore della Roma e della Nazionale Damiano Tommasi, oggi Presidente dell’Associazione Italiana Calciatori.

Ne nasce un racconto a tre voci, uno coro inconsueto formato da uno studente, un’infermiera e un calciatore; ciascuno con la sua tonalità, all’unisono sull’idea che al centro del discorso ci deve essere il valore della persona.

Lamas, lo studente armato di «perché?»

LAMAS, WABWIRE, MAIYAH

Meeting Rimini

Lamas è un giovane studente keniota nato e cresciuto nello slum di Kibera, un contesto umano ai margini della civiltà dove le condizioni igieniche e sanitarie sono critiche, dove regnano povertà e indigenza eppure l’umano non è meno umano. Perciò il racconto del percorso scolastico di questo ragazzo dal volto sereno e bello assomiglia a quello di tutti i nostri figli: a ogni latitudine se il cuore umano incontra qualcosa di attraente per la propria vita sboccia, altrimenti deperisce non soltanto fisicamente. L’impatto con la scuola pubblica dello slum – scarsa qualità educativa e un ambiente dominato dal rigore di punizioni severe – precipita Lamas nella svogliatezza e indifferenza; non ascolta e non risponde a nessuno, risulta uno degli studenti peggiori. Sua madre, come non capirla!, fa il tutto per tutto per riuscire a inserirlo in una scuola diversa, così Lamas entra in un istituto, il Little Prince Paradise, dove opera anche AVSI, proponendo una visione educativa fondata sulla costruzione di un rapporto di stima tra insegnanti e studenti:

Lì la vita è diventata di nuovo interessante. – dice Lamas – C’erano insegnanti preparati e ho trovato degli amici. Quello è stato il primo anno in cui ho studiato e sono anche diventato uno degli studenti migliori. Questo ha riportato speranza nella mia vita e nella mia famiglia. Ho avuto accanto un formatore che mi ha seguito con ogni premura, grazie a lui non ho mai toccato droghe nello slum.


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Il suo racconto prosegue con un episodio di vita eclatante nella sua drammaticità. Dopo l’esperienza scolastica entusiasmante, problemi economici costringono Lamas a tornare in una scuola pubblica:

Alla Little Prince mi avevano insegnato a chiedere «perché?» quando non capivo qualcosa. Quando sono tornato alla scuola pubblica e ho chiesto il perché di un comportamento che non capivo, sono stato punito e ritenuto un “terrorista della disciplina”. Mi hanno chiuso in una cella e torturato.

Come si aiuta un uomo, un giovane, un bambino? Rendendolo un’anima capace di alzare la testa e chiedere «perché?», capace di chiedere le ragioni di ciò che vive o subisce. Non c’è anima più pericolosa di questo presunto terrorista della disciplina che non accetta di essere una merce umana, ma vuole diventare protagonista della propria vita.

Rose, l’infermiera che vuole tutta la verità

ROSE BUSINGYE, MEETING

Maria Angelillis | Meeting Rimini

Dal Kenya l’ipotesi di un’accoglienza umana dirompente passa all’Uganda, a Kampala dove l’infermiera specializzata Rose Busingye ha fondato il Meeting Point che è riduttivo definire ospedale o centro educativo. Certo, è un luogo che ospita malati di HIV, bambini orfani, donne gravemente indigenti ma è soprattutto una presenza viva che vuole rispondere ai mille bisogni concreti di un’umanità prostrata con l’abbraccio di un ideale pieno di speranza. Gli occhi di Rose, nata e cresciuta in Uganda, hanno cambiato il modo di guardare la propria terra grazie all’incontro con Don Giussani (fondatore del movimento di CL):

Da dove vengo i bambini preferiscono stare per strada che andare a scuola e le donne preferiscono morire piuttosto che farsi curare. Don Gius mi ha insegnato che, con l’opera che faccio, io non aiuto “un povero”, io aiuto una persona che ha un valore infinito. Voglio che questa persona sia felice. Ma questo è possibile solo se io ho maturato la coscienza di avere un valore infinito. Devi cominciare da te, mi diceva il Don Gius. Io pensavo che cominciare da me fosse egoista, invece lui mi ha insegnato che posso dare agli altri solo ciò che è vero per me. Solo questa pienezza personale genera anche negli altri qualcosa di buono.


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Come questo sguardo rivoluzionario si traduca nel frutto di un’accoglienza di bisogni quotidiani, estremi e dolorosissimi si può sintetizzare bene con un episodio che Rose racconta. Da qualche anno la Busingye è a capo di una scuola secondaria che fa parte delle opere di AVSI in Uganda, dove naturalmente accadono anche piccoli gesti di provocazione da parte degli studenti:

Io pensavo che fosse scontato dire alle persone: tu hai un valore. Non è così, vi faccio un esempio. Un giorno a scuola due ragazzi hanno rubato il cellulare di un professore e a chi chiedeva loro se erano i responsabili, quelli rispondevano: “No, non abbiamo fatto niente”. Allora li hanno mandati da me e io ho chiesto loro di darmi il cellulare; l’hanno tirato fuori dalla tasca subito. Allora ho chiesto loro perché non l’avessero consegnato agli altri ma a me l’avessero dato immediatamente. Mi hanno risposto: “Perché tu vuoi la verità”.

L’educazione non è un’enciclopedia di informazioni; è guardare qualcuno con la stessa ipotesi di vita che tiene in piedi la nostra. Quei due monelli non hanno restituito il cellulare per un richiamo imperativo o sotto minaccia di punizione, ma perché avevano di fronte una persona più grande di loro in cammino per cercare la sua verità, e che desiderava anche per loro lo stesso cammino. Non è scontato che l’uomo sappia che la sua persona è un valore infinito, e non lo si insegna a suon di lezioni erudite; lo si comunica in un rapporto libero e aperto la cui ipotesi di partenza è: siamo tutti qui e insieme per dare un senso compiuto al vivere, siamo tutti in cammino per abbracciare una felicità compiuta.

ROSE BUSINGYE, MEETING RIMINI

Meeting Rimini

Damiano, il calciatore che passa la palla

Quanti migranti vediamo sbarcare con indosso una maglia del Milan!

È un’immagine sintetica quella che ha proposto nel suo intervento al Meeting di Rimini Damiano Tommasi per entrare nel merito di come il mondo del calcio possa essere un interlocutore forte in termini di cooperazione e solidarietà. Ex calciatore di serie A e della Nazionale, Tommasi oggi è Presidente dell’Associazione Italiana Calciatori e chiarisce subito che non la intende – facile imbattersi in questa obiezione! – come una specie di sindacato dei privilegiati. Il migrante che sbarca con la maglia di una squadra famosa è un richiamo al valore unificante dello sport, è un’alternativa alla triste visione del calcio come il regno dei numeri da capogiro, dello sportivo strapagato e idolatrato.

Quanto il linguaggio quotidiano pesca dal campo semantico dello sport? Mettersi in gioco, ad esempio, significa accettare le sfide e non defilarsi dalle occasioni. Ecco l’orizzonte più fecondo entro cui Tommasi racconta della collaborazione coi progetti di AVSI in Africa: accanto alla scuola di Rose è stato costruito un campo sportivo dove l’Associazione Calciatori promuove l’educazione al gioco del calcio come esperienza semplice ed efficace per legare la comunità. È una proposta che si pone in aperta rottura con una triste abitudine occidentale, definita la tratta dei campioncini:

La nostra finalità nell’attività sportiva in Africa è quella di creare comunità, – spiega Tommasi – spesso chi dall’Europa va in questi luoghi lo fa per la tratta di campioncini: si cerca nel paesino sperduto il campione che nessun altro ha trovato. Invece, il pallone è una via prefereziale per incontrare questi ragazzi. Si educa con un pallone: ogni gesto ha un valore tecnico, ma ha anche un senso. Ad esempio: passare la palla è un gesto tecnico, ma facendolo si costruisce anche il senso di fiducia.


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Ogni gesto ha un senso. Da quanto non sentiamo parlare di calcio in questi termini? È stata una rinvigorente doccia fredda sentire dalla viva voce di chi ha vissuto il calcio di elite che il valore umano non sta nei contratti milionari che durano qualche stagione. Meritevole che quest’idea di sport – come innesco per costruire la coscienza comunitaria di un popolo – sia portata dall’Italia nei luoghi dell’Africa dove la dignità umana è più schiacciata. Senz’altro non ci farebbe male anche un ripasso qui, nel nostro bel paese, dove il calcio è diventato sinonimo di idoli venerati e non di una cultura cristiana del talento. Lo sintetizza amaramente Tommasi con una provocazione che farà fischiare le orecchie di molti:

Quanti genitori vogliono avere il campioncino in casa, e si dimenticano che hanno di fronte una persona.