A colloquio con Dale Recinella, assistente spirituale dei condannati a morte in FloridaCome può un prestigioso avvocato della finanza di Wall Street, laureato alla Notre Dame Law School, proprietario di un attico affacciato sulla baia di Miami, lasciarsi tutto alle spalle, decidere di diventare assistente spirituale dei condannati a morte nelle carceri della Florida, il secondo braccio della morte degli Stati Uniti, dopo la California?
Abbiamo voluto vederci chiaro perché la vicenda personale che lo caratterizza, il suo impegno a tutto campo per l’abolizione della pena di morte, il suo ultimo sforzo editoriale, “Quando visitiamo Gesù in prigione” (Editrice Domenicana Italiana) e persino l’appellativo affibbiatogli dai “suoi” detenuti, Fratello, sono indizi che non possono essere confinati nelle tante storie di carcere che oggi si raccontano all’interno dei grandi reportage a tema. Merita molto di più e quindi organizziamo un incontro nella Casa di Reclusione di Rebibbia per una intervista e per fargli conoscere una realtà diversa. Certamente meno dura del suo braccio della morte, ma ugualmente difficile da affrontare.
Figlio di emigrati abruzzesi e il sogno americano
Nasconde bene le sue origini abruzzesi. Lui, figlio di immigrati originari di Castel Di Sangro, ci consegna immediatamente un suo biglietto da visita con le sue generalità (non è certo consuetudine italiana) e con una breve descrizione della sua attività: cappellano “laico”. Ad accompagnarlo nel suo ministero, infatti, c’è l’onnipresente moglie Susan, che nel penitenziario statunitense assiste i familiari dei condannati. Dale scandisce ogni parola e ci dice subito che ha voluto dedicare il suo libro alle migliaia di uomini e donne “che Dio mi ha concesso di servire in carcere, e alle centinaia di volontari che mi ha permesso di affiancare durante il mio servizio”. Prima di questo, però, c’è ben altro perché Dale incarna perfettamente il sogno americano. Guadagna moltissimo, la sua vita è frenetica, passa da un matrimonio all’altro, fino alla malattia che lo costringe a fermarsi e a riflettere sul suo passato. Chiede a Dio un’altra possibilità, la ottiene, e da qui la svolta.
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La svolta ispirata dalla vicenda di Sacco e Vanzetti
Gli rivolgiamo la nostra prima domanda alla quale risponde con un pizzico di nostalgia. “Perché proprio i condannati a morte?”. Esita un attimo per mettere insieme i ricordi e spiega: “Quando ero piccolo i miei genitori rimasero colpiti dall’esecuzione di Sacco e Vanzetti. I due furono giustiziati sulla sedia elettricail 23 agosto 1927 nel penitenziario di Charlestown nel Massachusetts. Rimasero sconvolti da tanta atrocità. Pensai che avrei dovuto occuparmi di persone come loro”.
L’incontro con i condannati a morte
Sorride Fratello Dale mentre pensa ai cari, ma quando gli chiediamo sommessamente di raccontarci il suo servizio, il tono di voce si fa più cupo e comincia così la sua cronaca di un addio alla vita secondo il protocollo penitenziario della Florida: “Una volta firmato il mandato di esecuzione, il condannato viene trasferito dalla sua cella del braccio della morte alla cosiddetta casa della morte. La nuova cella è simile a quella che occupava in precedenza. L’unica differenza è che il suo alloggio ora si trova a pochissimi metri di distanza dalla stanza dell’esecuzione”. Per quanto ci riguarda, il suo racconto avrebbe potuto già concludersi ma Dale vuole spiegare dettagliatamente cosa succede in quel luogo infernale e non troviamo il coraggio per interromperlo.
“Il condannato rimane qui per cinque o sei settimane” riprende, spiegando che: “Se chiede che sia io il suo assistente spirituale, mi permettono di stare con lui almeno dodici ore alla settimana. Se ci sono dei familiari che lo accompagnano in questa lunga agonia, hanno la possibilità di incontrare mia moglie Susan. Sarà lei a confortarli durante, e dopo, l’esecuzione”. La porta dell’ultima stanza è situata a poca distanza dal luogo dove il condannato morirà. “Per questo tutti coloro che passano per quella cella sono soliti dire che la porta della execution chambre si avvicina sempre di più”.
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Il giorno dell’esecuzione
Poi Fratello Dale si sofferma sui particolari: “Il giorno dell’esecuzione i familiari sono autorizzati ad abbracciarlo e a salutarlo per l’ultima volta. Alle 11 del mattino il condannato consuma il suo ultimo pasto, un’ora dopo viene il sacerdote per l’estrema unzione”. Gli domandiamo come trascorre il suo tempo durante questo macabro rituale: “Di solito rimango lì da quando il sacerdote va via fino alle 16, ora in cui mi consegna i suoi ultimi messaggi per i familiari ed è anche il momento di massima commozione”. Il racconto si interrompe perché gli occhi di Dale proiettano i ricordi più duri e le testimonianze più forti: “Uno di loro un dì mi disse: Lei è il papà che io non ho mai avuto, un altro: Lei è il fratello che non ho mai avuto, un altro ancora: Se io l’avessi conosciuta prima molto probabilmente non sarei finito qui”. Ma la cronaca continua senza sosta e il narratore scandisce gli orari: “Alle 16 arriva la squadra incaricata e prepara la vittima che, di lì a poco, verrà legata al lettino dove poi verrà ucciso con l’iniezione letale”.
L’iniezione letale, tecnica “efficace e compassionevole”
Insomma ci si prepara all’esecuzione, con la consueta agghiacciante efficienza: si ordina l’ultimo pasto, si organizzano le ultime visite, si sorteggia il nome di chi assisterà all’uccisione da dietro a un vetro. Con una tecnica “efficace e compassionevole”, ovvero i due argomenti principali impiegati da chi è a favore dell’iniezione letale come metodo di esecuzione. Ma dalla sua introduzione nel codice giudiziario degli Usa nel 1972, e dalla prima applicazione nel Texas nel 1982, non si sono mai dissipati dubbi e polemiche sulla verità di queste affermazioni. Dale riprende: “Anche io sarò nella stanza dei testimoni che assisteranno all’esecuzione. Al condannato dico sempre: Fissa con lo sguardo al di là del vetro una persona che ti vuole bene. Fissa me”. Gli domandiamo a quante esecuzioni ha assistito. “Una già sarebbe stata troppo per me, ma purtroppo ne ho viste 18. Anche se in realtà ho assistito 35 condannati a morte, ma una parte di loro ha scelto per il giorno dell’esecuzione il proprio parroco o il pastore protestante. Ma questi possono stare vicino alla vittima solo negli ultimi due giorni e quindi nelle settimane antecedenti hanno vissuto con me nella camera della morte”.
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Non dimenticherò mai…
Poi passa a parlare delle storie che l’hanno scioccato: “Dal momento che trascorro molto tempo con loro prima della loro morte, porto tutti nel mio cuore. Mi affeziono, voglio bene a tutti. Ma ci sono due casi che hanno segnato profondamente il mio percorso vocazionale. Il primo riguarda un uomo e le sue tre figlie distrutte dal dover dire addio al padre. Mia moglie Susan ha cercato di confortarle, ma è stato davvero drammatico. Tra l’altro quest’uomo era probabilmente innocente”. Sul secondo episodio, il racconto si interrompe più volte, tanto è cruento. “Era un portoricano, anche lui autoproclamatosi più volte innocente. In questo caso l’esecuzione andò male: si contorse e lottò in agonia per oltre mezz’ora prima di morire. Il veleno dell’iniezione finì nelle braccia a causa della rottura delle vene. Questo aveva provocato ustioni interne di oltre trenta centimetri per cui non riusciva a morire. Aveva la sensazione di affogare e di soffocare, si contorceva e spaccava quasi le cinghie che lo legavano al lettino, tanto è vero che dovettero legargli anche la testa”. Dale posa il suo sguardo verso Susan e riprende: “Dopo questa esecuzione, mentre tornavo a casa, ho telefonato a mia moglie. Ero sconvolto e le ho detto: “Ho appena visto un uomo torturato a morte”.
L’incontro con Papa Francesco
Il cappellano conclude il suo racconto anticipandoci che nei giorni successivi avrebbe partecipato alla messa presieduta da Papa Francesco a Santa Marta: “Sono molto emozionato. Cercherò di spiegargli cosa facciamo per far sì che la pena di morte venga abolita. Anzi, sa cosa le dico? Lo inviterò in Florida a visitare il braccio della morte e gli mostrerò i volti di questi fratelli (porta sempre con sé un book fotografico delle vittime)”. Dale prima di congedarsi intuisce che la domanda che avremmo voluto fargli fin dall’inizio del nostro incontro ancora non l’abbiamo formulata. “Perché lo faccio? Perché quando andiamo in prigione a trovare qualcuno, incontriamo Gesù”.
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