Nel 1947 scrisse una lettera a quella che sarebbe diventata sua moglie Vanda: “Nella mia solitudine, quando ho visto te, mi è sembrato che la tua bellezza esteriore non fosse, come molte, soltanto esteriore, ma fosse lo specchio di quella dell’anima”.Eugenio Corti è stato uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano, tuttora sconosciuto a molti nel nostro paese e ignorato dalle antologie scolastiche. Questo silenzio assordante sulla sua opera resta fonte di grande amarezza per i suoi lettori, che hanno trovato nelle pagine di questo brianzolo dagli occhi penetranti un padre capace di illuminare il quotidiano della vita così come i drammi della storia moderna e contemporanea. Basti sapere che il suo romanzo più famoso, Il cavallo rosso, conta ventinove edizioni ed è stato tradotto in otto lingue (tra cui il giapponese). Il fio da pagare, vale la pena dirlo senza giri di parole, è il suo essere una voce cattolica autentica, cioè un uomo con gli occhi spalancati sulla terra degli uomini e l’orecchio teso alla Buona Novella di Gesù.
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Venga il Tuo regno
Quando a 20 anni scelse di andare a combattere in Russia, era l’anno 1941, aveva le idee chiare su cosa lo attendeva e cosa si aspettasse:
Avevo chiesto di essere destinato a quel fronte per farmi un’idea di prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi, contro Dio, operato dai comunisti. Volevo assolutamente conoscere la realtà del comunismo; per questo pregavo Dio di non farmi perdere quell’esperienza, che ritenevo sarebbe stata per me fondamentale: in questo non sbagliavo. (da Eugenio Corti)
Visse sulla sua pelle quell’evento tragico che fu la ritirata di Russia (100 mila soldati italiani rimasero in quell’inferno di ghiaccio e guerra, raccontati da Corti nel libro I più non ritornano), ne uscì vivo ma in uno dei momenti più drammatici della ritirata formulò il voto che poi adempì: promise alla Madonna che se fosse tornato a casa avrebbe trascorso il resto della vita a compiere quella frase del Padre Nostro che dice “venga il Tuo regno”. Ricordo ancora la voce commossa con cui raccontava questa promessa a noi universitari, durante uno dei tanti incontri che era sempre disponibile a fare. È mancato nel 2014, gli sopravvive la moglie Vanda con cui si sposò nel 1951 ad Assisi, una funzione celebrata da Don Carlo Gnocchi.
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Ho bisogno di ricevere, più che di donare
All’indomani della guerra, ancora in piena giovinezza, s’innamorò della donna che gli sarebbe rimasta a fianco fino all’ultimo. Un documento pubblicato da Federico De Palo sul sito dell‘Associazione Eugenio Corti ci permette di toccare la sfera più intima di questo autore. Si tratta di una lettera inedita che la moglie Vanda ha condiviso e che Eugenio le scrisse prima che fossero fidanzati nel 1947. Eccola, preceduta e seguita dalle parole (in corsivo) con cui la signora Vanda ha presentato questo scritto:
Capitava spesso, specialmente in giornate d’esami per tutte le facoltà, di incontrare studenti mai visti prima e che difficilmente si sarebbero incontrati ancora. Un giovane mi venne incontro mentre ero in attesa di sostenere un esame. Fu allegro, ironico, divertente, parlò molto. Mi attese e ci avviammo insieme all’uscita. Non fu un incontro come tanti altri perché dopo qualche giorno mi giunse questa lettera.
Besana, sera del 15 Luglio 1947
Può essere che tu abbia piacere che io ti scriva, e ti dica il perché della mia insistenza, della mia telefonata, della mia inutile visita. Sono venuto a cercarti in Quadronno, te lo avranno detto, c’era anche tua sorella, e quanto io ho raccontato loro di prestiti di libri e simili, tu lo sai bene, è una qualsiasi fandonia.
Io volevo semplicemente vederti.
Quanto le mie sorelle m’hanno detto, m’ha fatto conoscere abbastanza di te; non ignoro che sei stata e, con tutta probabilità, sei ancora oggi fidanzata.
Io volevo vederti e stringere amicizia con te.
Penso che tu, che se non m’inganno devi possedere una femminilità profonda, devi aver provato, più d’una volta, il desiderio di accostarti alla virilità. Ciò è giusto ed è anche un grande dono e una benedizione del Signore. Lo stesso è, ed è stato, per me: io sento la necessità di un po’ di femminilità che mi accompagni. Nella mia solitudine, quando ho visto te, mi è sembrato che la tua bellezza esteriore non fosse, come molte, soltanto esteriore, ma fosse lo specchio di quella dell’anima.
Per questo ho desiderato conoscerti e divenirti amico.
Tu hai accennato a una tua grande sofferenza. Io quella sofferenza l’avevo letta nei tuoi occhi fermi e sinceri: questo è stato uno dei più forti motivi che mi ha spinto a te.
Anch’io ho molto sofferto. Quello che io sono tu lo potrai leggere in un libro che ho pubblicato in questi giorni e che si trova in ogni libreria: I più non ritornano. Te lo donerei io, se potessi rivederti.
Sono altro ancora, di miseria e anche di male, purtroppo, che in quel libro non c’è perché è venuto dopo.
Io (spero che non ci sia superbia in questo mio dire) ho molto donato e molto mi par di donare. È bello sopra ogni cosa, ma non si può continuare a donare senza ricevere. E, senza un po’ di femminilità che mi accompagni, sento di intristire.Mi auguro di tutto cuore di poterti rivedere perché molto male mi verrebbe dal non poterti più incontrare.
Bene, ho detto quanto intendevo dirti.
Ti saluto e ti chiedo scusa per la noia che ti ho data.
Eugenio Corti
La lettera mi giunse quando stavo partendo per raggiungere i miei familiari in Umbria. Avevo pensieri tristissimi. Non risposi. Lo rividi in ottobre. Eugenio era venuto a cercarmi in università: «ti ho portato il mio libro – disse – lo leggerai?». Da quel giorno finimmo con l’incontrarci quasi regolarmente.
Un incontro, un saluto, l’intuizione di un’ipotesi di vita insieme, più piena, viva, profonda. È la trama di ciò che accadde a Dante e Beatrice, è la trama dell’innamoramento vissuto come premessa e promessa di compimento.
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Colpisce che, pur scrivendo a una ragazza ancora pressoché sconosciuta, il giovane Corti si permetta un’intimità così coraggiosa, le dice senza mezzi termini: sono manchevole di qualcosa che la tua bellezza promette di colmare. Potrebbe addirittura scandalizzare certi nostri contemporanei l’esplicito riferimento al virile e al femminile, come elementi contrapposti … ma perché complementari. “Senza un po’ di femminilità che mi accompagni, sento di intristire”: la contrapposizione dei sessi che ha procurato così tante sterili discussioni negli ultimi decenni è in queste parole sciolta in compagnia. Quella frase quasi buttata lì con semplicità contiene un mistero umile del matrimonio, intenso da meditare: «non si può continuare a donare senza ricevere».
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Il guasto dell’umano e la primavera dell’amore
Colpisce molto, nella lettera, quell’ammissione così sincera che molti eviteremmo di scrivere come primo approccio a qualcuno che ci piace: “Sono altro ancora, di miseria e anche di male“. È forse una delle caratteristiche che più schiette dell’uomo che vive in pienezza di gioia il messaggio cristiano, partire dalla dottrina positiva del peccato originale. La persona, nella sua solitudine, non solo è manchevole di qualcosa per la propria felicità, ma è anche incapace di perdono al male. L’amore è l’ipotesi, se vogliamo umilissima, di accettare che l’io per essere davvero se stesso la smetta di guardarsi allo specchio; da fuori, dalla voce di un altro, deve arrivare la carezza del bene e anche la mano che pulisce le macchie o che accompagna alla fonte dove lavarsi.
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Non si può solo dare, per essere; per essere occorre fare esperienza di cosa sia un dono, di ricevere. Il protagonismo, l’attivismo, l’esercizio delle proprie capacità diventano facilmente un regno di dittatura assoluta se, contemporaneamente, l’io smette di sentirsi manchevole, monco, ovvero continuamente bisognoso di ipotesi, risposte, proposte che da solo non sa produrre. La bocca produce la nostra voce, ma è anche ciò che accoglie il nutrimento che da solo il corpo non produce: ecco cosa è un sano equilibrio umano. Il matrimonio – ma allo stesso modo ogni genere di vocazione, anche quella claustrale – mette al centro la relazione con l’altro togliendo il singolo dal buco nero dell’egocentrismo; ed è l’unica via d’uscita dalla pazzia maniacale di chi presume di voler sbrogliare da solo il dramma di vivere.
Eugenio e Vanda Corti hanno vissuto l’intimità della loro relazione senza clamore. Un bellissimo servizio fotografico curato da Roberto Nistri ce li mostra l’uno accanto all’altra in età avanzata. Uno scatto in particolare, li inquadra con due sguardi che divergono, lei fissa qualcosa in alto e lui invece guarda più verso il basso.
Il matrimonio regala la benedizione della divergenza, non dell’omologazione. L’amore non fa di un uomo e una donna due rette parallele che procedono su percorsi identici e separati, è una vera manna quando si apre questo angolo tra due segmenti divergenti: uno verso il cielo, l’altro verso la terra …. e in mezzo tutta l’ospitalità di cui siamo capaci (a contenere il bene e il male, ad accogliere la vita e la morte, a incontrare eventi e presenze).
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So che questo nostro tempo valorizza le frasi brevi, i monologhi incisivi, i montaggi frenetici. Ai lettori che se la sentono di essere rivoluzionari … e possono godere della lentezza del tempo, propongo un passo de Il cavallo rosso, in cui l’autore descrive lo sbocciare di un amore e in cui senz’altro Corti dice qualcosa del suo amore per Vanda. L’arrivo puntuale della primavera ci ricorda ogni anno che il Creato contiene una promessa di fioritura nel bene per ciascuno, che viene proprio dopo l’inverno. Così i molti inverni dei nostri egoismi si sciolgono solo quando molliamo la presa e ci mettiamo nelle mani di qualcuno, ci tuffiamo in un rapporto umano d’amore che ci introduca al rapporto originale con chi ci ha amato dal principio:
Era in arrivo la primavera: lo si avvertiva anche sul vecchio tram articolato che portava beccheggiando – e sui rettilinei più lunghi come caracollando – Michele a Milano. […] Il giovane rimise carta e matita in tasca e tornò a guardar fuori. S’accorse che tra le erbacce morte e allettate spuntavano di già quelle nuove, d’un color verde tenero in mezzo a tutto quel grigiore. “Guarda, il miracolo della primavera, anche qui in periferia, come dappertutto! Bisogna riconoscere che la natura il suo dovere non manca di farlo, che non viene meno ai suoi compiti. A sciupare le cose, qui come dovunque, sono puntualmente gli uomini.” Rifletté: “Ecco un’altra dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, del guasto che l’uomo si porta dentro. Davvero se non ci si rifà al precedente del peccato originale (per oscuro che esso sia: chissà cos’è successo in realtà!) mai e poi mai si potrebbe capire il comportamento umano.” In lui, ch’era poeta, sulle riflessioni andò tuttavia prevalendo – rapidamente – il senso della primavera in arrivo: entro poche settimane – si disse – sarebbero spuntate le viole, le quali a Nova, su certe prode esposte a mezzogiorno, apparivano già a metà marzo. Che festa, quand’era bambino, le prime viole! Le raccoglieva infilando le piccole dita tra le erbe secche, ne metteva insieme due o tre, e le portava gioioso alla donna attempata che lo accudiva: «Senti che buon odore, Ersilia.» “ E se quest’anno facessi una scappata a Nova, a raccogliere le viole per Alma?”. […] Ad Alma le viole starebbero bene nei capelli, attorno alla testolina nitida: “Messe a corona: così per esempio, oppure in quest’altro modo, o in quest’altro…” Il giovane vedeva con gli occhi della mente la testa di lei ornata nei diversi modi: se la prospettava con una tale forza d’immaginazione da averla quasi realmente davanti. Per qualche istante non lo toccava più il grigiore delle periferie, non vedeva più la gente affollata nel tram, la dimessa gente popolana di sempre: sul lungo tram articolato correvano, insieme con lui, Almina e la primavera. (da Il cavallo rosso)