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Documentava il dramma dei senzatetto, tra loro ha ritrovato suo padre

DIANA, KIM, FATHER
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Annalisa Teggi - pubblicato il 19/03/19
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Il miracolo di una riconciliazione tra padre e figlia che giunge dopo anni di dolore: una separazione, la malattia mentale, la vita ai margini e in povertà assoluta. Se il dolore visita ogni latitudine del globo, lo stesso vale per il perdono. Con la differenza che il perdono non piomba all’improvviso e senza pietà, ma è la sorpresa con cui un cuore libero guarda da capo ciò che si trova per le mani. La storia che segue accade alle Hawaii, là in quelle isole che per noi sono solo un paradiso da sognare a occhi aperti.

Anche tra un mare limpido e tramonti paradisiaci, il tradimento e le malvagità e le lacrime bussano alla porta della gente comune.


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Fotografare, scoprire, ritrovarsi

Diana Kim è una trentenne felice e fiduciosa: è moglie e madre di due bambini, vive a Honolulu, ha completato gli studi di legge ed è una brava fotografa. Fu suo padre ad avvicinarla alla fotografia, un uomo che lei ha conosciuto per pochissimi anni; i suoi genitori si separarono quando aveva 5 anni e da quel momento Diana visse nella precarietà assoluta. Suo padre sparì letteralmente, lei non aveva una casa fissa; ma nonostante queste difficoltà la sua tempra personale le ha permesso di coltivare progetti e ambizioni. Al college la passione per la fotografia diventò per Diana un progetto serio:

Ho cominciato a fotografare i senzatetto durante i primi anni del college. Gironzolavo tra loro perché in qualche modo mi identificavo con la loro battaglia. Sapevo cosa significa essere scartato, dimenticato, e non possedere la stabilità e la libertà economica che si vorrebbe. Insomma io capivo quella lotta perché avevo lottato allo stesso modo. (da My Modern Met)

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Chi cerca, trova. E cercare nel volto altrui le ferite che ci rendono simili e stare in zone umanamente poco comode sono scelte audaci che premiano.


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Molto più tardi, nel 2012 Diana è ancora alle prese con i reportage tra i senza tetto e riconosce suo padre nella figura magrissima di un uomo per strada, vestito di stracci e sporco. Senza pensarci lo chiama, ma lui non la riconosce.

L’ho trovato all’angolo di un incrocio trafficato, con gli occhi bassi sull’asfalto. Aveva i capelli stopposi e la testa ciondolava facendo piccoli cerchi. Mi sono avvicinata con grande incertezza, poi ho trovato il coraggio di chiamarlo. Non mi ha sentita. Non poteva sentirmi. Allora mi sono fatta coraggio per avvicinarmi ancora di più e mettergli una mano sulla spalla. Niente. Non alzava lo sguardo. Non si è girato. (Ibid)

Un padre (ri) nato da sua figlia

Sto leggendo un libro profondo e bellissimo della psicologa Ginette Paris, si intitola Vita interiore e in una delle pagine da me sottolineate con più vigore c’è l’affermazione che la famiglia è un mostro, pensarla senza patologie è un’illusione di cui disfarsi. La famiglia, anche quando non ha gravi problemi, è comunque un luogo di tensioni laceranti; è un bene che sia così, perché solo dal travaglio nasce una «creatura nuova».


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Possiamo fidarci di molte voci suadenti che lusingano l’ego, possiamo raccontarcela come più ci far star tranquilli, ma fino all’ultimo istante di vita noi saremo in travaglio … a cercare di svelare il mistero grande del nostro io. E ci sono travagli familiari così forti da capovolgere le nozioni di base sulla vita: ci sono figli che fanno nascere i propri genitori. Diana Kim è una di loro.

Al ritrovamento casuale del padre per strada sono seguiti anni difficili: lei lo ha guardato a distanza, andando a cercarlo senza essere minimamente considerata. Lui, malato di schizofrenia, non accettava aiuto, cibo, vestiti; bazzicava disperato sulla strada. E’ stata la sofferenza di vederlo così e di essere quasi inutile al suo bisogno, a far riemerge in Diana il ricordo di una frase detta da suo padre quando era piccola:

“Non dimenticare perché ti ho chiamato Diana, tu sei una luce tra le tenebre” (Ibid)

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Diana è la Luna per gli antichi romani, colei che rischiara la notte. Per quanto suoni esagerato, può essere molto sensato: Diana Kim afferma che questo ricordo – il padre che le spiega il senso del nome – è stato il trampolino per perdonargli tutto, l’assenza e le fatiche vissute sulle propria pelle. Da quel momento, lei diventa ancora più coraggiosa e presente nell’aiutarlo, nel volerlo tirar fuori dalle tenebre.


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Un padre che ci dà il nome. Essere riconosciuti, fosse solo per un istante, ci libera dalle grinfie del nulla. Un pessimo padre che ci ha comunque dato un nome è un barlume di gratitudine in un oceano di insensatezza. Il perdono di Diana perciò è tutt’altro che emotivo, si aggrappa a un legame originale che non è scomparso, anche se è stato tradito. Da quel momento in poi è stata lei ad accompagnare suo padre a nascere di nuovo come uomo.

Un miracolo in una tazza di caffè

L’ultima fotografia di questa storia inquadra Diana e suo padre in un parcheggio, abbracciati. C’è stata la resa di lui, ci sono stati anni di cure in ospedale, giorni migliori e momenti pessimi. Il signor Kim ha scelto di farsi aiutare, ha patito un attacco cardiaco, ha poi ripreso in mano la sua vita lasciando che la figlia fosse una voce guida, amica, sicura.


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Un giorno lui l’ha chiamata per offrirle un caffè al bar, si sono incontrati in un parcheggio e sono rimasti abbracciati per un paio di minuti. Diana tira fuori dal cilindro la parola miracolo per descrivere quella mattina.

Quell’incontro fu un vero miracolo. […] Ogni giorno è un dono. Qualche giornata è più tosta di altre, ma vedere mio padre in carne e ossa davanti a me è un constante promemoria di quanto lo spirito umano sia forte e di quanto preziosa sia la vita. […] La relazione con mio padre non è stata di quelle che crescono col tempo, molto di ciò che lui ha fatto o non ha fatto mi ha ferita. Ma ho scelto il perdono, così insieme possiamo andare avanti. (Ibid)

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La linea retta non appartiene all’uomo, men che meno alle relazioni affettive. Sarebbe bello andare lisci come l’olio dal punto A fino all’infinito.


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E’ già molto se riusciamo a produrre qualche segmento non proprio storto; ma è ancora meglio se accettiamo la benedizione dei percorsi curvilinei, quelli spericolati del perdono sono capaci di una curva così coraggiosa da farci cambiare direzione. Ed è l’unico modo ferito e sensato di non rimanere fermi nella palude mortale delle colpe.