Polemiche di breve corso adombrano la bellezza di questa pellicola che non parla solo di un uomo bianco e un uomo nero, ma del nostro bisogno di essere accompagnati da amici incompatibili come Don Chisciotte e Sancho.Di questi tempi le giurie non se la passano bene, a Sanremo come a Hollywood. Ridurre l’arte a un messaggio politico ad personam è annullare il valore anche politico dell’arte. Ieri la vittoria di Mahmood sarebbe stata una frecciata per Salvini; oggi la vittoria di Green book come miglior film agli Oscar sarebbe un messaggio contro il presidente Trump.
Ogni opera d’arte fatta di parole, musica o immagini contiene un messaggio politico: di solito un autore crea qualcosa per condividere un’intuizione, una protesta, una testimonianza con l’umanità. Politica è innanzitutto percepirsi come parte di una comunità umana che s’interroga sulle questioni fondamentali, e discute del bene comune. Ridurre il valore di un’opera d’arte a battibecchi tra partiti e fazioni è deprimente, proprio perché svilisce e annichilisce ogni spunto autenticamente politico.
Leggi anche:
Birdbox è solo un caso mediatico? È anche un viaggio nella vertigine di essere madre
All’indomani della cerimonia degli Oscar non si leggono altro che ritornelli sulle polemiche generate da Green book, un chiasso mediatico che nulla ha a che vedere con il vivo del contenuto della pellicola. Ho perfino incrociato il commento di chi suggerisce di proiettare il film in tutte le scuole per fare un dispetto a Salvini. Questo la dice lunga sulla nostra incapacità ormai dimostrata di stare di fronte a qualsiasi evento senza etichette preconfezionate. Proviamo a ricostruire le fila della vicenda, ma soprattutto tentiamo di dire perché il film in questione andrebbe fatto vedere nelle scuole.
Razzismo e molestie
Non ci sono parole migliori per acchiappare la pancia dei lettori che queste: razzismo e molestie. Si è giocata questa carta per vivacizzare con un po’ di verve caustica il verdetto degli Oscar, forse perché si preferisce scatenare un polverone di qualche ora piuttosto che valorizzare dei contenuti sensati. A dispetto delle previsioni la statuetta come miglior film è andata alla pellicola Green Book, la storia di un autista bianco (Viggo Mortensen, nei panni di Tony Lip) che accompagna nel profondo Sud degli Stati Uniti un musicista di colore, talentuoso e discriminato (Mahershala Ali, nei panni di Don Shirley). All’origine del film c’è una vera storia di amicizia tra un buttafuori italo-americano e un pianista afroamericano. Naturalmente la trama si fonda su un tema razziale, capovolgendo lo stereotipo autista-nero e benestante-bianco che tutti ricordiamo in A spasso con Daisy.
Leggi anche:
Wonder: “non puoi nasconderti se sei nato per emergere”
A dispetto di altre scene proiettate nei trailer, il momento culminante in cui il film affronta di petto il tema della dignità umana è la scena silenziosa in cui l’auto dei protagonisti si ferma per un guasto di fronte a una piantagione dove lavorano ancora schiavi di colore, ai quali – come fosse una visione – si presenta l’immagine assurda di un uomo nero servito e riverito da un uomo bianco. Si potrebbe dire che è l’apparizione della speranza, come se ciascuno di noi fosse messo di fronte al valore indiscutibile della propria anima a dispetto dei mille modi in cui viene svilita ogni giorno.
Nei commenti al film non si parla di questo, si sposta l’accento su fatto che se l’Academy di Hollywood avesse davvero voluto mandare un vero messaggio antirazzista al presidente Trump avrebbe dovuto premiare il film Blackkklansman di Spike Lee. Non ho mai avuto particolare stima della giuria degli Oscar, ma sono ancora convinta che il suo mestiere dovrebbe essere quello di valutare i film. Il suddetto Spike Lee si è infuriato e ha tentato di lasciare il teatro delle premiazioni per protesta. A quanto pare il tema razzismo deve essere di pertinenza dei registi afroamericani, il bianchissimo regista di Green Book deve fare i conti con questo indice puntato contro:
[…] è un film in cui emerge una visione paternalistica delle tensioni razziali negli Stati Uniti: un film che racconta gli afroamericani dal punto di vista “dei bianchi”, come succedeva molto nel cinema dei decenni passati e come sta succedendo sempre meno, soprattutto tra i film del giro degli Oscar. In una scena, per esempio, il personaggio di Mortensen insegna a quello di Ali come si mangia il pollo fritto, uno dei piatti più popolari nella comunità afroamericana. (da Il Post)
Mi auguro che questa visione distorta e riduttiva non metta in discussione pure quel capolavoro che è Il buio oltre la siepe, visto che l’autrice aveva anch’essa in dote una pelle candida.
Il grande punto di merito di Green Book è uno dei bocconi più difficili da far digerire al nostro tempo: si può parlare di un argomento serio senza essere pesanti. Chesterton diceva: il contrario di “divertente” non è “serio”, ma “non divertente”. Ci aveva visto lungo, perché oggi noi siamo caduti nella trappola delle sopracciglia aggrottate, se c’è in gioco un tema importante dobbiamo trasformarlo in un discorso austero. Basterebbe ricordare che San Tommaso d’Aquino fu un esimio teologo con un umorismo spiccato.
Leggi anche:
Cosa c’entra Harry Potter con il cristianesimo? (VIDEO)
L’altro grande boccone indigesto ai nostri contemporanei è che una persona piena di difetti e peccati possa mettersi a parlare di argomenti profondi. Il tacito dogma di molti è che solo i puri dovrebbero aprire la bocca. Regnerebbe un silenzio incontaminato. Il passato del regista di Green Book, Peter Farrelly, è costellato di triviali commedie di successo come Tutti pazzi per Mary e Scemo & più scemo; su di lui pesa anche un’accusa di molestie che non nega:
[…] negli anni Novanta aveva l’abitudine di mostrare il pene alle persone con cui lavorava, a suo dire «per scherzo». Tra gli altri, era capitato a Cameron Diaz. Farrelly si era scusato, dicendo che all’epoca pensava di essere divertente ma che si rese poi conto di essere un idiota. (Ibid)
Essere un idiota è sempre e comunque incompatibile col fare qualcosa di buono? Abbiamo dimenticato, ed è un vero peccato, la nostra parentela prossima col buon ladrone e questo ci rende dei burberi inquisitori che hanno scordato di essere dei peccatori con buone intuizioni.
Incompatibili
Ma dunque questo film vincitore di cosa parla? Sarei pronta a proporlo come un messaggio sul bello di essere amici incompatibili. L’occhio pregiudizievole delle critica ha preso di mira il contrasto bianco e nero, ma i due protagonisti sono una folla intera di contrasti che s’incontrano: un uomo separato e un uomo con una famiglia enorme; un ricco e un povero; un solitario e un caciarone; un magro e un grasso; un educato e un ignorante; un vanitoso e un semplice; un diffidente e un amicone; un pacifista e un violento; un raffinato e un buzzurro. Si potrebbe andare avanti.
L’ipotesi è che due tipi umani del genere possano viaggiare insieme e incontrarsi davvero. Tony Lip è un buttafuori di origini italiane che resta senza lavoro, accetta di fare da autista al ricco pianista afroamericano Don Shirley durante una sua tournée musicale nel Sud degli Stati Uniti. Nell’America degli anni Sessanta questo viaggio bisognava farlo scortati dal Green Book, la guida per hotel e locali riservati alle persone di colore. Ma quella guida resterà come accessorio, indispensabile certo, su sedile accanto all’autista: la conoscenza tra i due è invece un lungo incontro senza manuali.
Saremmo pronti a sceglierci gli amici con lo stesso criterio con cui si fa un colloquio di lavoro: stilando una lista delle qualità che ci sarebbero d’aiuto ed evidenziando i difetti che proprio non tolleriamo. Continuano a dirci che questo è anche il modo giusto di scegliere l’anima gemella, e assistiamo ogni giorno al dilagare di divorzi brevi. Il criterio dell’avvenimento (qualcosa di nuovo che bussa alla porta) è escluso dalla nostra esperienza affettiva.
Leggi anche:
Film raccomandato: I sogni segreti di Walter Mitty
Eppure accade che la vita ci porti in dote l’incontro insospettabile con persone lontane dai nostri criteri di affiatamento. Accade che forzatamente dobbiamo averci a che fare; non è indispensabile diventare migliori amici. Ma l’apertura all’incontro dovrebbe prevedere l’imprevisto: una buona notizia può arrivare da un ambasciatore antipatico. Incontrare un simile significa il più delle volte voler incontrare solo se stessi, non ammettere altro dialogo che con il proprio specchio. Scegliere amici con cui si va d’accordo e scegliere un marito che rispetta la nostra scaletta dei pregi può essere una catastrofe.
Le grandi amicizie della letteratura ci hanno sempre parlato del mistero gioioso dell’incompatibilità: il signor Pickwick e Sam Weller, Don Chisciotte e Sancho. Fossi stato un critico cinematografico avrei tirato fuori questi riferimenti per toccare il vivo del contenuto di Green Book. La saggezza deve andare a braccetto con l’umiltà per essere davvero sapiente; l’erudizione deve incontrare l’ignoranza per non perdere lo stupore; il marito annoiato deve sedersi al tavolo con chi ha il cuore spezzato per riscoprire l’amore.
Non è solo che gli opposti si attraggono, è che gli opposti si aiutano a non diventare monomaniacali. Diventare amico di un antipatico è una terapia per esplorare e abbracciare la parte meno simpatica di noi. Rimasi interdetta, ma poi capii cosa voleva dire Chesterton quando scrisse che “il miglior compagno della vita è il fastidio, così forte, meraviglioso, divertente e immortale”:
L’uomo che perde la pazienza ordinando una fetta di carne, o fissando un appuntamento, sarà probabilmente la persona con cui vale davvero la pena giungere al proprio funerale. […] Lasciate entrare nella vostra vita solo le persone ridicole, di cui vedete e capite gli errori, lasciate che vi avvicinino e vi accompagnino nella marcia solitaria verso l’ultimo paradosso. (da Una gioia antica e nuova)
L’educatissimo e triste Don Shirley avrebbe voluto che una folla di facoltosi uomini bianchi condividesse la mensa con lui, oltre ad applaudire il suo genio; non avrebbe mai immaginato di condividere la tavola con una rumorosissima famiglia italiana di gentaglia che ignora Chopin ma lo ama sul serio. Il manesco e vorace Tony Lip non avrebbe mai pensato di commuoversi davanti a una melodia classica suonata al pianoforte, lui abituato al chiasso dei night club di New York.
Leggi anche:
Film apostolico raccomandato: “Capitan America: Civil War”
Portiamo nelle scuole questo film, portiamolo in famiglia. Non facciamoci irretire da sparate di breve gittata; osiamo spararla grossa: l’amicizia non conforta i nostri status quo, ma spalanca l’ipotesi che abbiamo bisogno di compagnia nelle zone meno confortanti di noi e del mondo.