Elena Ferino ha comprato mezza pagina di un quotidiano per raccontare i momenti più difficili dopo la nascita del secondo figlio: «La rete di rapporti familiari, amicali e sociali è fondamentali affinché mamma, bambino e intero nucleo familiare possano ritrovare un nuovo equilibrio»Condividiamo tantissimo, dalle foto di ciò che mangiamo a pranzo alle reazioni istintive leggendo una notizia. Ci sentiamo parte della pubblica piazza virtuale quando si tratta di vantarsi, sfogarsi, ostentare saccenza, tirar fuori rabbia.
Teniamo per noi, ben sigillato dentro, il dono migliore che possiamo fare agli altri: le nostre cadute meno fotogeniche, i nostri pianti più sinceri, la fragilità che ci mette nudi tra le mura di un mondo armato fino ai denti.
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Elena Ferino, friulana di nascita e veneta di adozione, è una mamma di 33 anni la cui iniziativa personale ha – con licenza poetica – preso tre piccioni con una fava. Il suo obiettivo era quello di aiutare chi soffre di depressione post parto, ma ha fatto molto di più: ci ha dimostrato che le ferite sono il vero dono che occorre condividere con chi ci sta accanto, ci ha ricordato che la piazza reale è il vero luogo di incontro, molto più di quella virtuale.
Che ha fatto dunque mamma Elena? Ha comprato mezza pagina di giornale per raccontare la sua storia di mamma in difficoltà. In un tempo in cui le condivisioni su Facebook diventano virali e fanno il giro del mondo, lei ha preferito la pagina cartacea di un periodico locale. Si parte dal proprio recinto di vita, si cerca di entrare in casa delle persone quasi bussando alla loro porta; qualcuno, di sicuro, ha bisogno di sentire che non è solo nell’affrontare i propri problemi.
Diventare mamma, non è mica facile
«Tutto è iniziato due anni fa, dopo la nascita di Livio, il mio secondogenito, avvenuta il 16 gennaio. Con Mia, la primogenita, avevo vissuto una gravidanza tranquilla, ma due settimane prima di partorire il fratellino una serie di eventi negativi mi ha molto provata. Prima la malattia improvvisa di mio padre, poi gravi problemi che hanno coinvolto altri affetti, quindi un’incomprensione con il medico durante il parto all’ospedale di Padova. E’ stata l’ultima goccia» (da Corriere)
Così Elena introduce la sua storia, parlando di sé. Al centro di ogni nascita c’è sempre il nuovo venuto al mondo; la luce che irradia da questo evento mette in ombra l’altra figura che partecipa con il tutto emotivo e fisico di sé alla cosa, la mamma.
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La gravidanza l’ha educata a fare via via spazio al piccolo, a mettersi in ascolto e in disparte; lei capisce bene che il suo ruolo, per essere centrale, deve spostarsi di lato rispetto a suo figlio. Tra i tanti tasselli che compongono il quadro della depressione post parto, c’è anche questo elemento: una neo mamma fa fatica a mettere al centro se stessa, si sente in colpa nel calamitare un briciolo di attenzione in più sulle proprie fatiche e sui propri dubbi.
E’ sacrosanto invece che lo faccia, non è egocentrismo ma cura del neonato al pari di dargli il latte. Poiché madre e figlio sono un tutt’uno, curare il piccolo è anche far star bene la mamma. E la mamma non esce in forma da un parto, anche se tutto è andato al meglio. C’è tutta la parte subacquea di un iceberg ingombrante dentro il cuore di una donna che tiene tra le braccia per la prima volta un frugoletto di qualche chilo; farà fatica ad ammettere con se stessa che è senz’altro gioia ciò che sente, ma è mescolata con un brivido di paura e con una amara tristezza.
Piccole obiezioni, come racconta Elena, sono in grado di innescare reazioni grandi. Ricordo che con la nascita del mio secondogenito fu occasione di un mio scatto d’ira e pianto inconsolabile la richiesta del figlio maggiore di dargli la buonanotte, mentre era il momento del mio riposo tra una poppata e l’altra. Non c’è da scandalizzarsi, c’è da dirlo ad alta voce. Un palloncino si sgonfia immediatamente se forato con uno spillo: parlare ha lo stesso effetto, tenersi dentro tutto equivale a gonfiare il palloncino.
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Rallentare, osservare
«E’ nato lunedì e al venerdì siamo stati dimessi, fisicamente stavo bene. Emotivamente meno, ma la società di oggi va di corsa, oppressa da una vita frenetica e stressante; la famiglia non è più quella allargata a nonni e parenti di un tempo e gli amici si ritrovano nelle stesse condizioni, quindi è difficile ricevere aiuto» (Ibid)
Quei pochi giorni che si trascorrono nel reparto di ostetricia sono un frullatore di vita; la giusta preoccupazione primaria dell’ospedale è concentrata sul bambino appena nato e sulla sua salute (visite, esami, attaccamento al seno). Elena Ferino lamenta una carenza di attenzioni nei suoi confronti, senza colpevolizzare il personale medico ma, semmai, suggerendo che anche lo stato psicofisico della madre sia messo al centro dello sguardo dei sanitari in quei giorni di degenza. Sì, certo, questo significa chiedere ancora di più a chi già fa tanto. Ma è necessario. Possiamo essere noi mamme a manifestarne l’esigenza con il personale che ci circonda, senza vergogna.
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Anche io ebbi l’impressione dopo le prime due nascite che il personale medico, ottimo in effetti, si preoccupasse di me solo come macchina da allattamento che doveva avviarsi correttamente. Fui trattata benissimo, con ogni premura, ma una parola in più sul mio stato emotivo e sulla possibilità che attraversassi momenti duri di sconforto mi avrebbe aiutato ancora di più. E’ capitato con la terza gravidanza: l’ultima sera in ospedale, l’ostetrica che passava per la visita serale mi trovò in lacrime. Io, alla terza volta, avevo imparato che dovevo tirare fuori i nodi in gola; lei si fermò con me e mio marito e parlammo a lungo delle paure che in quel momento mi sembravano insormontabili. L’effetto fu che quella notte dormii qualche ora, ed è un traguardo immenso per chi conosce la situazione. Il palloncino aveva iniziato a sgonfiarsi.
Amici, sono a pezzi!
«Depressione post partum. Sono rimasta in ospedale dieci giorni e una volta dimessa i miei genitori si sono trasferiti da noi per mesi. Non avevo la forza nemmeno di tenere in braccio Mia, la mia grande fortuna è che tutti mi hanno aiutata: parenti, altri sanitari e così tanti amici che durante la degenza nell’orario di visita non riuscivano a entrare tutti in camera. Mi hanno portato una valanga di caramelle e cioccolata, sono ingrassata cinque chili! Anche l’équipe del reparto è stata fondamentale per la ripresa, con la psicoterapia, i farmaci e momenti di svago». (Ibid)
La situazione di Elena è precipitata fino a rendere necessario un ricovero, può non essere il punto di arrivo per tutti; ma, nel caso, non è affatto qualcosa di cui avere rimorso.
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L’io cerca di arroccarsi tra le mura dei propri sforzi, usando ogni briciolo di forza che ha. Ma la cosa più bella di un castello è il suo ponte levatoio: bisogna farlo scendere e recuperare il contatto con l’esterno.
La depressione post parto ha l’aspetto di un assedio in cui la mamma tiene in ostaggio se stessa, vieta a se stessa di sventolare bandiera bianca, di dare segni di cedimento, di ammettere che questo bambino così meraviglioso è anche tremendamente impegnativo.
Bisogna abbassarsi al livello dei propri limiti, e bisogna abbassare il ponte levatoio: da lì potrà entrare l’aiuto che, da sola, nessuna madre è in grado di produrre per sé. La madre deve imparare da suo figlio, che il latte per vivere lo riceve. Così ogni neomamma ha bisogno di un latte di conforto che viene dagli amici e dai più stretti familiari: non è l’elenco delle cose da fare, ma un abbraccio di sostegno nel ribadire che si può essere fragili proprio nel momento in cui si dovrebbe essere forti per due. Vorrà dire che saremo in cinque, sei o sette a essere forti per chi non riesce a essere forte – questa è la voce dell’affetto.
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Se poi, qualche mamma ha anche bisogno di un “latte” che ha la forma di psicoterapia e medicine, non è strano né disdicevole. La sottoscritta ringrazia ogni giorno di aver varcato la porta di uno psicoterapeuta che guardandola negli occhi le disse: “Lei è una mamma, non è Dio”.