È stato un incauto azzardo, quello dei redattori di Open – di Enrico Mentana – nel tentativo di delegittimare la nostra informazione sul Reproductive Health Act firmato dal governatore Andrew M. Cuomo il 22 gennaio. Il tentativo di minimizzare la portata del provvedimento di Cuomo mediante l’appiattimento sulla legge 194/1978 italiana denota ignoranza e/o malafede. Cerchiamo qui di offrire una disamina esaustiva.
La notizia dell’adozione del Reproductive Health Act nella legislazione dello stato di New York come estensione dell’accesso all’aborto in Italia ha scatenato una vera e propria corsa al debunking o fact-checking, l’attività para-informativa di lotta e confutazione della disinformazione, lo smantellamento delle nostrane bufale, o delle più internazionali fake-news. I guru dell’antibufala si sono prontamente profusi nelle loro peculiari esibizioni di approssimazione, ma nell’epoca in cui la missione del giornalismo è diventata rincorrere la tendenza all’estemporaneo del social-web, alla fanfara si è unito anche il nuovo quotidiano online di Enrico Mentana, Open, dalla firma di Charlotte Matteini. La notizia aveva infatti catturato l’attenzione della nuova testata del maratoneta di La7 per la condivisione della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni del resoconto di Ermes Dovico su La Nuova Bussola Quotidiana e nel mirino era finito anche il contributo di Annalisa Teggi su Aleteia [Matteini e revisori sembrano digiuni di greco, vista l’incapacità di scriverlo correttamente] e uno di Elena Molinari per Avvenire. L’articolo su Open, rilanciato dal direttore Mentana, ha ricevuto corpose contestazioni a mezzo social (tra cui una sopra le righe del sottoscritto) in cui venivano evidenziati i grossolani errori di omissione e mistificazione dell’autrice, nonché l’assurdità di un titolo che smentiva ciò che nel testo veniva confermato, ovvero la possibilità effettiva di accedere a procedure abortive fino al 9o mese di gravidanza, la più lampante delle molte assurdità. Si auspicava il buonsenso necessario alla pubblicazione di una rettifica, ma una replica della stessa Matteini, nuovamente rilanciata direttamente dal direttore nella mattina di domenica, perseverava nello spiegare una serie di inesattezze madornali, condivise dalla galassia di blog e riviste virtuali di debunkers (la Matteini in particolare si rifà ad una testata ben nota in questa pseudo-disciplina, Snopes), che nel loro insieme definirebbero una legge sostanzialmente se non formalmente analoga a quella italiana che regolamenta l’accesso all’aborto, la 194/1978.
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Il problema principale di fronte a certi azzardi è l’assenza di cognizione alcuna sia dell’impianto giuridico del common law angloamericano in generale e statunitense in particolare, sia della realtà clinica ginecologica che il RHA va a normare. In questi goffi tentativi si parte per categorie precostituite, quelle relative alla propria comprensione della legge 194/1978 (anch’essa in realtà malintesa) mettendo in scena la più classica petizione di principio: la tesi secondo cui la legge newyorkese sarebbe sovrapponibile alla legge italiana era già contenuta nell’ipotesi comparativa iniziale e non poteva che viziarne il debole tracciato argomentativo. La realtà è che la divaricazione non potrebbe essere più pronunciata.
Cominciamo col vedere cosa introduce il testo di legge. Così recita il RHA approvato nel primo paragrafo relativo all’aborto.
§ 2599-bb. Aborto. 1. Un operatore sanitario certificato o autorizzato per effetto del titolo 8vo della legge sull’istruzione, agente nell’ambito del proprio esercizio professionale, può praticare un aborto quando, in accordo al proprio giudizio professionale in ragionevole e buona fede basato sulla realtà del caso della paziente, la paziente si trova entro le 24 settimane di gravidanza, o c’è un’assenza di fetal viability, oppure l’aborto è necessario per proteggere la vita o la salute della paziente.
Considerate le condizioni di accesso alle procedure abortive
- la gravidanza non ha superato le 24 settimane,
- assenza di fetal viability,
- necessità di preservare la vita o la salute della gestante,
Vita o salute?
-
- Va fatto notare anzitutto che entro le 24 settimane non si richiede nessun’altra condizione, né qui né nel prosieguo del testo. La condizione era identica e pressoché esaustiva prima dell’emendamento apportato dall’approvazione del RHA,
- Passando alla seconda condizione, il primo enorme errore (a far intendere come la comprensione del testo sia sfuggita) sta nella traduzione arbitraria di “fetal viability” in “vitalità fetale”. Diversi interventi (compreso quello della Matteini) paiono indicare che s’immagina la viability come la presenza di segni vitali del feto nella vita intrauterina mentre, ovviamente, un feto che non desse segni vitali all’esame ginecologico approfondito non abbisognerebbe di un aborto, essendo già stato abortito spontaneamente. Viability (al contrario della viabilità gestazionale) è un concetto giuridico, in sé stesso estraneo alla medicina prenatale, perinatale e neonatale, affermato nella giurisprudenza federale dalla sentenza Roe v. Wade (di cui si discute compiutamente più avanti) ed indica i termini temporali e le condizioni della capacità di sopravvivenza “autonoma” del feto fuori dall’utero o, in senso meno estensivo, il momento in cui le chances di sopravvivenza fuori dall’utero superano il 50% (tuttavia l’interpretazione è variabile). Anche la traduzione in “sopravvivenza autonoma” è poco utile alla comprensione del concetto, in quanto la viability (all’epoca della sentenza indicata alle 28 settimane) si misura progressivamente secondo lo stato di avanzamento delle cure che si possono offrire ai nati prematuri: non indica cioè la capacità di sopravvivere “da soli”. Oggi la Terapia Intensiva Neonatale permette di salvare più di un bambino ogni due nati alla 24esima settimana e 2 su 5 alla 23esima, perciò la “assenza di fetal viability” come disgiunta dal limite delle 24 settimane sembrerebbe una fattispecie già ampiamente superata. Dunque perché inserirla? L’evoluzione della giurisprudenza federale e di singoli stati ha purtroppo spesso esteso il concetto non solo nei termini di sopravvivenza temporale, ma anche tollerando nella pratica sanitaria l’omissione di rianimazione in condizioni “incompatibili con la vita”, ovvero quelle patologie che, pur arrivando al parto, nascono con terminalità imminente o precoce, come le trisomie 13 o 18, l’anencefalia. A questa prassi ha provato a porre rimedio il Born-Alive Infants Protection Act nel 2001. Ci torneremo più avanti.
- L’ultima condizione è la vera svolta dell’impianto normativo abortivo che il RHA introduce. L’impegno profuso dai fact-checkers nel nascondere o nel ricondurre il termine “salute” (“health”) alla “vita” (“life”) della gestante non è passato in secondo piano: il testo le disgiunge chiaramente “vita o salute” (“life or health”), indicando una netta distinzione. Il diritto nello Stato di New York già prevedeva la possibilità di un aborto oltre le 24 settimane nel caso di documentati rischi per la vita della gestante. È perciò evidente che una simile modifica non possa essere un pro-forma. Per capire in che termini si declini il cambiamento è necessario entrare nell’ordine delle idee che nel regime di common law degli Stati Uniti (stare decisis) la legge non è la sola fonte per lo sviluppo del diritto, ma le sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti e delle corti statali, ognuna nella propria competenza e secondo la gerarchia giudiziaria, possono aggiornare l’impianto normativo.
È giustamente stato ricordato in questi giorni che la legge di New York sull’accesso all’aborto (1970) ha preceduto la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti Roe v. Wade (1973) che afferma il “diritto all’aborto” come aspetto del “diritto alla privacy personale” secondo l’interpretazione del 14esimo Emendamento, consentendo così ai singoli stati la legiferazione sull’aborto nel senso di depenalizzazione. Nella Roe v. Wade esiste il riferimento alla “vita o salute” (“life or health”) materna rifacendosi al precedente Abortion Act del 1967, ovvero come “salute fisica e mentale”, a sua volta ricezione della definizione dell’OMS del 1948 secondo cui la salute è «non la semplice assenza di malattia, ma uno stato complessivo di benessere fisico, psichico e sociale». Dunque il par. 1 del RHA effettivamente si allinea alla Roe v. Wade. Ciò che si è dimenticato di ricordare è che nell’allineamento, il RHA non si limita ad esaurirsi testualmente nel contenuto di questa prima sentenza, bensì riferisce alla sua sentenza gemella, elaborata e pronunciata nello stesso giorno dagli stessi giudici: la ben meno nota Doe v. Bolton, che è definitoria di cosa significhi “salute” (“health”).
Il giudizio medico [sul fatto che l’aborto sia necessario] può essere eseguito alla luce di tutti i fattori – fisici, emotivi, psicologici, familiari e l’età della donna – rilevanti per il benessere del paziente. Tutti questi fattori possono essere connessi alla saluti. Ciò permette al medico curante lo spazio di cui ha bisogno per realizzare il suo miglior giudizio medico. E c’è spazio per agire per il beneficio, non in sfavore della gestante.
La Doe v. Bolton fornisce la disgiunzione di cui la Roe v. Wade aveva bisogno perché la “salute” in questione non sia in vista di concreti e seri rischi per la vita della gestante, ma amplia la definizione ad un generico stato di benessere al cui conseguimento concorrono fattori di vario genere. Non solo le dimensioni di salute della persona verso le quali si possono effettuare analisi e offrire cure codificate in sede clinica, la dimensione fisiologica o psicologica. Le maglie sono allargate al punto da includere situazioni aleatorie e provvisorie come un disagio emotivo, oppure l’opportunità di avere un figlio in un dato momento della propria vita o di aumentare il nucleo familiare.
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Come ha giustamente ricordato la Conferenza Episcopale degli Stati Uniti nel 2013, 40esimo anniversario di entrambe le sentenze, è stato il combinato dei due verdetti ad aprire ad una regolamentazione così variegata nei diversi stati, in una decina dei quali oggi non esiste restrizione di tempi o di motivazione alla pratica abortiva, né possibilità di intervenire in sede legislativa con le evidenze scientifiche che smantellano la narrazione dell’aborto a finalità preservative (con buona pace della Matteini, “aborto terapeutico” è un altro concetto sconosciuto alla medicina d’Oltreoceano, dove la dizione è usata non per aborti medi o tardivi, ma al massimo e raramente per quelli precoci). A questa minoranza di stati si è unito New York, superando il solo limite imposto dalle due sentenze, ovvero che alla valutazione fosse deputato un medico laureato. Il Reproductive Health Act supera anche questa condizione, affidando la valutazione “medica” ad un qualsiasi operatore sanitario certificato o autorizzato. È innegabile che l’inserimento della dizione “vita o salute” abbia come scopo l’estensione dell’accesso all’aborto per qualunque motivo e per in qualsiasi momento della gravidanza, fino all’ultimo trimestre, fino al nono mese, fino all’ultimo giorno (ciò è quanto sono costretti ad ammettere in più punti, pur con mille riserve contraddittorie, anche i redattori di Snopes).
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Le due sentenze a fondamento della normazione dell’aborto definiscono un accesso così incondizionato, difatti insindacabile, a mera discrezione della gestante (o dell’operatore che non tenta di dissuadere, o che addirittura persuade la gestante), che una volta recepite integralmente è del tutto impossibile contrastarne l’applicazione. Le due sentenze del gennaio 1973 hanno ridefinito l’interpretazione di un diritto costituzionale, dunque nessun organo legislativo o giudiziario può limitarne gli effetti, meno la stessa Corte Suprema. Quarant’anni di storia giudiziaria americana hanno messo in chiaro che anche i provvedimenti presidenziali possono arginare solo relativamente e temporaneamente il processo. Solo rovesciandole con una nuova decisione della Corte Suprema si può invertire la rotta. Ed è precisamente per questo motivo che il governatore Andrew Cuomo ha dato il via libera al Congresso di New York, Senato e Assemblea, per recepire nell’anniversario della Roe v. Wade e della Doe v. Bolton un atto legislativo che era stato respinto diverse volte negli ultimi 5 anni, nel senso più estensivo possibile. Come gesto di opposizione politica all’amministrazione Trump, che ha ribaltato la maggioranza della Corte Suprema verso istanze giusnaturalistiche 5 a 4 e con la possibilità di andare sul 6 a 3 nel prossimo mandato, perciò orientandola alla destituzione delle due sentenze e di quante altre le han prese a precedenti. Un gesto di opposizione sulla pelle dei bambini non-nati in faccia alla Marcia per la Vita svoltasi due giorni prima. Ma c’è di più.
Si può parlare in assoluto di “aborto necessario” se eseguito nell’ultimo trimestre?
L’aborto tardivo non è mai medicalmente necessario
Nessun aborto tardivo è “necessario per proteggere la vita” della gestante. Nell’ultimo trimestre nessuna complicazione della gravidanza si risolve necessariamente con un aborto, anzi in molti casi un aborto sarebbe controproducente, gravoso e rischioso per la tutela della vita della madre. Tumori, malattie cardiache, forme violente di gestosi, l’intervento conservativo per stabilizzare la paziente o per poter cominciare una terapia senza rischi nell’ultimo trimestre è l’induzione del parto, non l’aborto. Non sopprimere il nascituro, ma anticiparne la nascita. La sola preparazione della cervice uterina per la dilatazione necessaria all’estrazione del feto conseguente all’aborto richiede 2-3 giorni, ma la maggior parte delle gravi complicazioni cardiocircolatorie che possono insorgere nell’ultimo trimestre della gravidanza portano ad infarti o arresti nel giro di poche ore: iniziare una procedura abortiva in quella situazione significa, oltre a togliere al feto la possibilità di sopravvivere in un momento dello sviluppo nel quale ne avrebbe ogni probabilità, rischiare la vita della madre. La soluzione è indurre il parto, che sia naturale o cesareo, dare alla luce il bambino e lasciare che si giochi le sue possibilità in terapia intensiva neonatale. Allo stesso modo, per cominciare le terapie oncologiche o qualsiasi altra terapia il prima possibile, la soluzione non è mai una procedura abortiva. In ogni situazione in cui la vita della madre è a rischio nell’ultimo trimestre, la cura della madre esclude l’aborto. Questa realtà clinica, banale ed arcinota tra medici tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, è purtroppo insistentemente sottaciuta. Se il RHA si fosse fermato alla necessità dell’aborto per la vita della madre non solo non avrebbe aggiunto nulla alla legislazione già vigente, ma avrebbe normato una situazione che nella pratica clinica difatti non esiste.
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Fondamentale è anzitutto inquadrare la dimensione del problema. Gli aborti nel terzo trimestre negli Stati Uniti sono una percentuale irrisoria rispetto alla totalità di quelli rilevati. La più recente indagine federale del Centers for Diseases Control and Prevention, (Abortion Surveillance 2015) ha registrato 640mila aborti nell’anno dagli stati che li hanno comunicati. Tuttavia, diversi stati non comunicano i dati relativi agli aborti procurati: secondo l’Istituto Guttmacher (precedente, istituto di ricerca per Planned Parenthood), la stima in tutta la nazione si aggirerebbe attorno al milione. Di quelli riportati nell’indagine del CDC per i 2/3 (430mila) è nota la settimana di gestazione, di questi solo 1,3% praticato dopo le 21 settimane. Applicando la stessa percentuale sul totale si ottengono circa 8400 aborti dopo le 21 settimane, un numero che prevedibilmente scende di molto se si contabilizzassero quelli dalle 25 o dalle 27 settimane, cioè propriamente gli aborti late-term, nell’ultimo trimestre effettivo.
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Basti pensare che le cliniche abortive, ovvero finalizzate ad offrire la procedura come servizio primario, che ammettono aborti fino alla 24esima settimana sono solo il 10% del totale (paradossalmente è più facile che siano gli ospedali a garantire l’accesso). In proporzione gli aborti nelle fasi successive, quelli tardivi, sono così pochi che in tutti gli Stati Uniti sono rimasti soltanto 4 medici che praticano pubblicamente aborti nel terzo trimestre al di fuori del sistema ospedaliero (ma dal computo escono le cliniche che li eseguono non pubblicamente, come il franchise Planned Parenthood, che ha negato nonostante prove pressoché schiaccianti): due sono ad Albuquerque in New Mexico, la dr.ssa Susan Robinson e la dr.ssa Shelley Sella; a Boulder in Colorado il dr. Warren Hern e a Bethesda nel Maryland il dr. Leroy Carhart. Tre di loro hanno affermato pubblicamente di procurare aborti senza motivazioni cliniche, siano esse connesse alla salute del feto o della madre. Il sistema sanitario (pubblico o privato) nel suo complesso non fornisce a livello federale indagini sulle motivazioni accettate per praticare l’aborto tardivo. Tuttavia in alcuni stati i dati vengono raccolti singolarmente: in Arizona per esempio nel 2017 tra gli aborti praticati dopo le 21 settimane, quelli procurati per condizioni cliniche legate alla salute della madre o del feto sono stati il 32%, il che implica un 68% di aborti eseguiti senza motivazione clinica riconosciuta. Negli altri stati in cui i dati vengono raccolti dati in omologhi o simili periodi gestazionali, laddove sono registrate le motivazioni non si discostano significativamente. Appare chiaro che l’ampliamento normativo per l’accesso all’aborto tardivo non ha come finalità la tutela della vita della madre, ma l’incremento delle motivazioni per accedervi.
Come cambiano i codici penale e sanitario: omicidio e persona
L’effetto dell’emendamento sui testi normativi dello stato di New York è l’aggiunta dell’articolo 25-A alla Public Health Law (il Codice Sanitario) di New York. Contestualmente all’inserimento del par.1, le definizioni relative alle procedure abortive sono state perciò stralciate dalla Penal Law (corrispettivo del nostro Codice Penale), migrando nel Public Health. La prima sezione del codice penale pesantemente modificata dal RHA è la 125.00, che definiva “omicidio” in termini di “murder”, “manslaughter” e “abortion” (ognuno nei diversi gradi), un atto “che procura la morte di una persona o di un bambino non nato di cui la donna è gravida da più di 24 settimane”. L’aborto tardivo a New York era dunque una fattispecie omicidaria che, pur non instaurando equiparazioni con l’assassinio premeditato o cruento (“murder”) o quello solo intenzionale o effetto di una violenza volontaria (“manslaugher”), manteneva nella stessa tipologia penale l’atto occisivo contro il nato e contro il non-nato nell’ultimo trimestre di gravidanza: l’aborto di primo e secondo grado rispettivamente erano classificate come reati (“felonies”) di classe D-E, l’aborto autoinflitto come infrazione (“misdmeanor”): il par. 5 del RHA li abroga, stralciando interamente le sezioni 125.40, 125.45, 125.50, 125.55 e 125.60. La dizione delle fattispecie omicidarie nella 125.00 cambia perciò come segue dal par. 6:
Omicidio significa una condotta che procura che procura la morte di una persona [o di un bambino non nato di cui la donna è gravida da più di 24 settimane] in circostanze che costituiscono murder, manslaughter di primo grado, manslaughter di secondo grado, o omicidio negligente penalmente rilevante [aborto di primo grado o aborto autoinflitto di primo grado].
L’abrogazione dal codice penale degli atti abortivi rappresenta la cancellazione di ogni fattispecie penalmente rilevante. È dunque fuorviante parlare di depenalizzazione (totale), più propriamente è corretto dire che il reato d’aborto in ogni sua forma è stato interamente stralciato. Ciò contrariamente alla legislazione italiana in materia, per cui la legge 194 mantiene diverse fattispecie penalmente rilevanti al venir meno delle condizioni d’accesso all’IVG o all’aborto definito “terapeutico”. Ciò comporta l’eliminazione del riferimento al “bambino non nato” a più di 24 settimane e la conseguente ridefinizione della personalità giuridica del concepito. Tramite il par.7 del RHA, dal codice penale è stato quindi eliminato ogni comma della sezione 125.05 meno il primo, che definisce “person” (“persona”) nel senso vittima di omicidio quale «an human being who has been born and is alive», un essere umano nato e vivo. Sulla traduzione e sul significato di questa definizione si tornerà più avanti, per ora è sufficiente trattenere l’esclusione del non-nato in qualunque momento della gravidanza, fino al parto. Con la definizione di “atto abortivo” (comma 2) stralciata per rimpiazzarlo con quanto già visto nel par. 1 del RHA e di “giustificato atto abortivo” (comma 3) che poneva le condizioni di cui sopra: o entro le 24 settimane o lo specifico rischio per la vita.
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Venendo meno le precedenti definizioni sul concepito anche oltre le 24 settimane e non sostituendo le tutele in alcun modo, il RHA difatti non ridefinisce, ma ignora la personalità giuridica del concepito. Anche qui il RHA supera la Roe v. Wade e la Doe v. Bolton, eliminando ogni riferimento ai “bambini non nati”, usando solo l’aggettivo “fetale” e indicando a proprio oggetto normativo la gravidanza, senza che il feto sia trattato né come soggetto né come oggetto diritto. Il concepito è l’assente assoluto di questo testo. Soltanto nel comma 2 dell’articolo iniziale si usa il termine “bambino”, equiparando il «diritto di scegliere di portare a termine la gravidanza, di far nascere un bambino oppure di accedere all’aborto», intendendo che si può parlare di “bambino” meramente in relazione alla nascita avvenuta. Anche ammessa e non concessa l’idea, già confutata, che la legge newyorkese non accolga un accesso incondizionato ed illimitato all’aborto (immaginando magari una futura codifica dei “motivi di salute”), comunque essa espunge l’aborto da ogni fattispecie penale e non considera l’abortito come vittima in nessun caso: come potrebbe essere allora perseguibile un eventuale aborto procurato anche fuori dai canoni normativi (se praticato da un operatore sanitario qualificato)? Se non è mai perseguibile penalmente, è de facto legittimo sempre e comunque. Qualunque atto ai danni del nascituro concordato con la madre risulta lecito.
Prima e dopo la nascita: cade l’obbligo di assistenza. Chi è persona? E quando?
Eppure il Reproductive Health Act minaccia anche la vita dei nati. Il par. 3 abroga la sezione 4164 del codice sanitario, la quale sanciva
- l’obbligo di presenza di un secondo medico, oltre a quello procurante l’aborto, per qualsiasi gravidanza oltre la 20esima settimana, che si deve prendere cura dell’abortito qualora nato ancora vivo;
- la messa del bambino sotto la tutela della legge di New York, per cui gli vengono riconosciuti tutti i diritti sociali e civili, a partire da quello all’assistenza medica;
- la redazione di una cartella clinica che registrasse ogni atto medico fornito per la sua cura, in quanto pienamente titolare dei diritti necessari a ricevere cure mediche, sia che abbiano successo o meno;
- in caso di morte susseguente la nascita, la protezione del corpo e la sua eventuale sepoltura.
La sezione è stata stralciata senza che fosse sostituita da nessun altro obbligo in capo al personale sanitario. Lo stralcio implica che un abortito nato ancora vitale potrà essere lasciato in agonia, in quanto viene a mancare sia la disposizione d’intervento, sia la figura sanitaria deputata ad eseguirlo (si ricordi, anche la presenza del primo medico non è più necessaria). Questo punto è risultato particolarmente dolente nel dibattito che ha seguito l’approvazione del RHA, tanto che dal sito del Senato di New York la sezione 4164 è stata rimossa nel goffo tentativo di ostacolarne la consultazione attraverso la fonte istituzionale (in realtà le fonti di consultazione open source non mancano). La controffensiva del fronte informativo pro-life ha insistito su un elemento che anche nelle frange più convinte a sostegno dell’aborto tardivo non può essere ignorato: l’abbandono di un neonato ad un simile grado di sviluppo, in preda agli stenti.
La modifica contrasta con il Born-Alive Infants Protection Act, una legge federale nata soprattutto per affrontare la situazione dei nati vivi per effetto di un aborto, firmata dal presidente Bush nel 2001. Il BAIPA prevede che nella definizione di persona rientri «ogni membro infantile della specie homo sapiens che sia nato vivo (“who is born alive”) in qualunque stadio di sviluppo»: perché il nato sia considerato “vivo” è sufficiente che dopo l’espulsione od estrazione ci sia o respiro autonomo o battito cardiaco o anche pulsazione del cordone ombelicale o ancora un chiaro movimento dei muscoli volontari. Il RHA non nega esplicitamente il BAIPA, ma ritirando la normazione dell’obbligo d’assistenza senza sostituirla con nessuna nuova norma fa in modo che la responsabilità del soccorso non ricada su nessuno.
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Non solo, la contraddizione si può estendere anche alla definizione di “persona” nel senso di “nato vivo”. Per il BAIPA è chiaro che la personalità giuridica viene completamente acquisita nel momento di una nascita vitale. Per il codice penale di New York la questione non è (più) così semplice. Riprendendo la dizione «an human being who has been born and is alive» ci si accorge che i momenti indicati dal comma (il solo rimasto nella sezione 125.05) sono due, definiti da due tempi verbali diversi: «has been born» e «is alive». Apprezzare la distinzione non è cosa immediata, visto che il verbo «to be born» (“nascere”) è sempre una forma passiva in Inglese. In genere le forme composte «has been born» invece di «is born» o «had been born» invece di «was born» sono pressoché interscambiabili, con una maggiore carica enfatica delle prime e le seconde preferite per un rapporto di continuità con lo svolgimento del discorso (es., se si vuole parlare della nascita e della prima infanzia in un periodo ma tra le due si è verificato un trasferimento, si preferisce la forma composta «has/had been born», altrimenti la continuità di contesto sarà resa più efficacemente dalla forma semplice «is/was born»). La scelta di due predicati distinti indica una consecutio temporum: «has been born» è antecedente, non contemporaneo di «is alive», sono due istanti individuati come diversi. La traduzione italiana che più restituisce il sentore dell’originale del RHA è
”Persona”, se riferita alla vittima di un omidicio, significa un essere umano che, essendo nato, è vivo.
Accentuando la distinzione temporale per la resa in Italiano: «un essere umano che, essendo [già/prima] nato, è [ora/ancora] vivo». I due momenti così individuati delimitano un intertempo, un limbo in cui una delle due condizioni è verificata, ma non l’altra. Può sembrare una questione di semantica superflua (se è vivo ora, lo era anche prima) ma, si presti attenzione, se l’obbligo di assistenza all’abortito nato vitale è abrogato, tale abrogazione letta insieme a questa definizione – diversa da quella del BAIPA, che parla di un “nato vivo” – ammette la possibilità un nato vitale che per la legge non è (ancora) “vivo”. La precedente sezione 125.05 garantiva tutele per il nascituro anche prima della nascita (dopo le 24 settimane), era perciò impensabile che queste tutele svanissero una volta nato. Oggi il nato vitale, se non riconosciuto come vivo, se non assistito, non è considerato persona. E viceversa, non viene assistito perché non è considerato persona.
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Nella pratica, è evidente che si tratta di un nato vivo che viene ignorato discrezionalmente. Ma dato quell’intertempo implicitamente ammesso che si può protrarre fino al decesso dell’abortito nato vitale, se questi non ha tutele, se questi non è persona, cosa impedisce che oltre a venir abbandonato eseguendo un’eutanasia omissiva, non s’intervenga per terminarlo direttamente in un’eutanasia attiva? O, con ancora più agio rispetto alle maglie del RHA, che ci si assicuri che non sia vivo durante la nascita, secondo la tecnica sponsorizzata da Hillary Clinton della tecnica del partial-birth abortion? Nonostante la legge federale denominata Partial-Birth Abortion Ban Act del 2003 (anch’essa approvata e firmata durante l’amministrazione Bush), solo 19 stati hanno vietato esplicitamente la pratica: tra questi non lo stato di New York. Allo stesso modo il BAIPA non ha effetto diretto sulle tutele dei nati vivi, se le leggi degli stati non recepiscono le tutele contenute. L’adozione del RHA in questi termini sembra pensato nei minimi dettagli per discolpare soggetti come Planned Parenthood dei molti scandali denunciati con dovizia di documentazione, dall’abbandono degli abortiti nati vivi, alla loro soppressione, al commercio dei tessuti fetali.
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Cercando di individuare i limiti della legge, per quanto si cerchi non si trova alcuna forma di tutela né per il nascituro, né, pare, per il nato vitale per effetto di un aborto non perfettamente riuscito. L’aborto tardivo nel Reproductive Health Act sembra dunque protrarsi fino al suo adempimento, nel peggiore dei casi anche dopo la nascita, adombrando la prima legittimazione di quell’ipotesi spaventevole ma perfettamente consistente della necrocultura abortista che è stata denominata after-birth abortion, l’aborto post-nascita. Per ora come alternativa alla terapia intensiva neonatale. Per ora.
In merito al rapporto tra leggi federali e leggi statali, si rimanda a successivi approfondimenti.