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Dio conosce il futuro, certo. E il demonio?

SATAN,EVE
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 06/12/18
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Una domanda che si pone soprattutto per le velleità della “simia Dei”, che ama millantare prerogative non sue. In realtà la ragione dell’ignoranza di Satana non sta tanto nell’evidente disparità ontologica con l’Eterno, bensì nel suo odio accecante. A ben leggere, questo grande mistero è chiaro non solo alle Scritture, ma anche ai Padri, ai teologi e perfino ai romanzieri cristiani.

Non è la prima volta che qui in redazione arrivano lettere in cui ci chiedono di esplorare la relazione del demonio col futuro. Vorrei anzitutto provare a dare una risposta gesuitica, ossia un’altra domanda: se il demonio avesse saputo che cosa sarebbe accaduto di lui con la morte di Gesù, avrebbe ugualmente spinto Giuda al tradimento? Che quella sia stata un’idea del diavolo lo si attesta esplicitamente in Gv 13, 2…

Le voci dei Padri

L’incongruenza non è sfuggita ai cristiani, i quali fin dai tempi dei primi apologisti l’hanno rilevata a mo’ di argomento cristologico-soteriologico: il primo è stato – a quanto possiamo giudicare – il solito Origene, che sottolineeò come l’opera della salvezza si sia formalizzata tramite un inganno di Dio al demonio (per chi volesse approfondire, imprescindibile è ancora lo studio di Chiara Somenzi pubblicato in Origene e l’alessandrinismo cappadoce, Bari 2002).


LUCIFER
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Proprio nei mesi in cui a Cassago il giovane Agostino maturava la propria conversione intellettuale e spirituale, in Oriente il vescovo di Nissa, Gregorio, dettava la propria “Grande Catechesi”. Nella quale si legge:

[…] la Deità era celata dietro il velo della nostra natura affinché, come succede a un pesce affamato, l’amo della deità potesse essere inghiottito insieme all’esca della carne.

Gregorio di Nissa, Grande Catechesi 24

Parole simili, anche se meno segnate dalla sensibilità orientale per la disputa sulle nature, avrebbe usato il già ricordato Agostino in un sermone:

Finimmo, infatti, in mano al principe di questo mondo, che ingannò Adamo e lo asservì e dette inizio al suo dominio su di noi, diventati come schiavi nati. Venne, però, il Redentore e il seduttore fu vinto. E il nostro Redentore come trattò chi ci aveva resi schiavi? Per il nostro riscatto tese come trappola la sua croce; vi pose, quale esca, il suo sangue. A quello, invece, fu possibile far versare questo sangue, non meritò di berne. E per il fatto che fece versare il sangue di chi nulla gli doveva, fu obbligato a restituire i debitori; sparse il sangue dell’innocente, fu obbligato a rilasciare i colpevoli.

Agostino, Sermone 130

In questo solco si mise pure, due secoli dopo, il grande Massimo, che per la strenua tenacia con cui difese l’ortodossia cristologica di fronte al monotelismo fu detto “il Confessore”. Commentando il Padre Nostro Massimo chiosò così la realtà mistica dell’annientamento del diavolo:

Opera l’abolizione della tirannia del maligno, che si è impossessato di noi con l’inganno, assumendo come arma contro di esso la carne vinta in Adamo e vincendo per mostrare che essa, conquistata prima per la morte, ha catturato chi l’ha catturata e distrutto con la morte naturale la vita di quello, ed è divenuta per lui veleno, affinché vomiti tutti quelli che aveva divorato avendo forza come colui che possedeva il potere della morte; per il genere umano invece vita, che solleva come una pasta di lievito tutta la natura verso la risurrezione della vita, in vista della quale soprattutto il Verbo, pur essendo Dio, diventa uomo – fatto e notizia veramente straordinaria – ed accetta volontariamente la morte della carne.

Massimo il Confessore, Sulla preghiera del Padre Nostro ad un amico di Cristo breve interpretazione, in Migne, PG 90, 872-908

Osservazioni dimenticate?

A questo punto si deve osservare che, malgrado la quantità e la qualità dei precedenti, questo tipo di osservazioni si è progressivamente rarefatto, nella storia della teologia. Ciò è accaduto principalmente per due ragioni, concernenti l’“imbarazzo” dei teologi di fronte ad altrettanti elementi “indegni di Dio”, che sarebbero l’inganno e il pagamento di un riscatto.



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Che Cristo abbia salvato gli uomini è una delle verità più salde del cristianesimo, ma se andiamo a guardare meglio cosa s’intenda per “salvare” cominciano i problemi: il diavolo aveva guadagnato dei diritti sull’uomo? Tertulliano dice di sì, ed è solo il primo di molti: il che implica che Dio debba qualcosa al diavolo. Se io voglio diventare proprietario di un’automobile devo andare da chi ne detiene il legittimo possesso – il venditore – e riscattarla pagandogli il prezzo fissato per quella.

La soteriologia del riscatto è stata la prima ad essere elaborata, ma ben presto è stata affiancata da quella dell’inganno: poiché Dio non deve niente, al diavolo, anzi è questi l’Ingannatore, la condotta di un Dio che agisca con scaltrezza («predam tulitque Tartari» [«ha strappato la preda all’Inferno»], scrisse Venanzio Fortunato alla fine del VI secolo) non è moralmente imputabile. Come sta scritto: «Con il perverso, tu sei astuto» (Sal 17, 27). Insomma, per tornare nella metafora della compravendita, Dio avrebbe tutto il diritto di rubare l’automobile dalla concessionaria, perché in realtà era stato proprio il titolare della concessionaria a rubarla a lui per primo.



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Il che funziona per la ragione ma continua a suonar male all’orecchio: difatti nei secoli s’è sempre meno parlato sia di riscatto sia di rapimento. Perché Dio si abbassa a compiere azioni indegne di lui, laddove è il padrone di tutto e con meno di uno schiocco di dita potrebbe vendicare i propri diritti? Il tema era già stato oggetto della riflessione sapienziale intertestamentaria di contesto alessandrino:

Prevalere con la forza ti è sempre possibile;
chi potrà opporsi al potere del tuo braccio?

Tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.

Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi,
non guardi ai peccati degli uomini,
in vista del pentimento.

Poiché tu ami tutte le cose esistenti
e nulla disprezzi di quanto hai creato;

se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata.
Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?
O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?

Tu risparmi tutte le cose,
perché tutte son tue, Signore, amante della vita.

Sap 11, 21-26

Uno dei più celebri teologi luterani del XX secolo, lo svedese Gustaf Aulén, pubblicò nel 1931 un’opera – Christus Victor – in cui si cercava di sottolineare “il positivo” teologico di questi apparenti punti di indegnità nell’agire di Dio: Aulén ammette che l’idea di un riscatto pagato da Cristo a Satana sia grottesca, ma ritiene che contenga la verità fondamentale secondo cui Dio «non vince il male con un decreto onnipotente, ma offrendo qualcosa di proprio mediante una personale e divina oblazione» (p. 70).



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Sul piano che potremmo chiamare “degli esistenziali teologici”, l’offerta di Dio sembra da intendersi relativa non a un momento della storia, bensì alla disposizione eterna – libera e sovrana – di dare la vita a creature spirituali libere: Dio si mette in gioco, diciamo così, fin da quando decide, “prima del tempo”, di creare l’universo.

I due piani su cui giocano Dio e il diavolo

Questo risponde alla domanda iniziale – e alla domanda supposta e invocata da quella, ossia “perché mai il diavolo ha fatto una cosa così stupida riguardo ai propri interessi?” – sulla tentazione di Giuda: il diavolo agisce nel tempo, ma quel “disegno intelligente” che gli sarebbe pure cospicuo per la natura spirituale… gli sfugge in quanto la sua perversione lo rende incapace di contemplare Dio. A Dio tutta la storia è ugualmente com-presente, e nella storia si rivela in modo salvifico (dunque sacramentale) quel Mistero che Egli da sempre in Sé è: la perversione del demonio, l’inganno dell’Eden, la caduta dei progenitori, l’omicidio di Abele, gli abominî di Sodoma e Gomorra, di Ninive, di Babilonia, di Roma, di Pechino, di New York e di Mosca, il rinnegamento di Pietro e quelli dei cristiani a venire per tutti i secoli, il tradimento di Giuda e di innumerevoli apostati fino alla fine del mondo… tutto questo era davanti a Dio “prima del tempo”, insieme con la libertà dell’Immacolata concezione, che – come un anticipo di primavera nel gelo di Narnia – alla bella notizia dell’Angelo risponde “fiat” – il trionfo di quell’ineffabile Bucaneve che è Maria convinse eternamente Dio a dire il proprio fiat. E allora da “sia la luce” (Gen 1, 3) a “tutto è compiuto” (Gv 19, 30) in Dio «non ci furono il “sì” e il “no”, ma solo il “sì”» (cf. 2Cor 1, 19). E naturalmente l’Immacolata Concezione non è tale per una capricciosa deroga dell’Onnipotente – «Dio non gioca a dadi», diceva Einstein, e neppure bara, aggiungiamo noi – bensì è «redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo, e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo» (Lumen Gentium 53). Il Fiat di Maria è il primo trionfo di Dio, ancora più di quanto sia il primo trionfo dell’umanità, e – contemplando quel libero assenso dato dalla “piccolezza” alla Maestà – l’Eterno dà la carica all’Universo.



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Satana, in tutto questo gioco eterno di amorosi assensi, aveva da parte sua la possibilità di scegliere tra la contemplazione di tanta misericordia o l’invidia che l’avrebbe accecato per l’eternità: così ha preso a combattere una battaglia che non solo non può vincere, ma di cui proprio nel grembo della Vergine («non horruisti Virginis uterum» [«non ti ha fatto schifo l’utero della Vergine» Te Deum]) stava il segnale certo della sconfitta. Essendo una creatura come le altre, anche se tra le più sottili e acute, non può mai portare il suo sguardo al di sopra della creazione, ma come tutte le creature intelligenti (uomini inclusi) può pronosticare alcuni eventi con buona approssimazione, conoscendo i fini e i mezzi degli agenti in ballo.

La vera tara dell’intelligenza di Satana è che le manca l’amore, vero presupposto ermeneutico di ogni comprensione: generalmente pensiamo di poter amare solo ciò che conosciamo (il che è parzialmente vero), mentre fondamentale è il reciproco, ossia che possiamo conoscere solo ciò che amiamo. Mettete in una facoltà di matematica due persone ugualmente intelligenti ma delle quali una ami l’astrazione e i numeri e l’altra no, poi confrontatene i libretti. Così è Satana, che nella sua stupidissima scelta contro Dio si è anzitutto condannato, e per l’eternità, a non poter cogliere il piano d’amore dell’Eterno. Anche nella più banale delle circostanze che vede coinvolto il diavolo – diciamo una tentazione “ordinaria”, di quelle che ci si tendono ogni giorno – il demonio può calcolare con una certa approssimazione che ci cadremo. Data la fragilità della nostra natura, date le condizioni psicologiche, date le circostanze e la forza della tentazione di specie… il Tentatore ha più o meno speranze concrete di farci cadere, ma neppure in un caso tanto banale può sapere se cadremo o no. È un giocatore, perché corre costantemente un rischio: se cadiamo nella tentazione, la sua preoccupazione successiva è nel tenerci lontano dal cuore l’invito di Dio alla riconciliazione (che vanificherebbe il suo sforzo); se non cadiamo nella tentazione, quello che può accaderci è un indebolimento che lo favorisca per la successiva (se abbiamo opposto una resistenza passiva) o una fortificazione che ci renda più sfuggevoli per l’avvenire (se la resistenza che avremo opposto sarà stata spiritualmente attiva).



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Ecco: neanche in una mano così banale il diavolo vede le carte. Da buon giocatore, però – e anzi da giocatore che ama darsi a intendere ai compagni di tavolo come il mazziere – sua attività costante è il bluff. “Scimmia di Dio”, lo chiamavano efficacemente i medievali: quanto più scimmiotta l’oggetto della propria imitazione, tanto più il grottesco ne evidenzia la distanza.

“Non morirete affatto” (Gen 3, 4) è il primo bluff economico (cioè relativo alla storia umana) del Tentatore: in realtà tutto poteva immaginare, Satana, tranne che davvero l’albero della vita – che sarebbe stato la Croce di Cristo – avrebbe un giorno offerto ai figli di Adamo un frutto di immortalità; quel che sapeva, in origine, era semplicemente che Dio è verace e fedele, e che quindi se aveva minacciato morte ai trasgressori questi ultimi avrebbero avuto morte. Cosa che allo Spirito di Iniquità e di Invidia dovette sembrare sufficiente a sabotare in radice il piano di Dio. Che però non poteva vedere, e di cui dunque si rendeva strumento inconsapevole – per il male – laddove ne sarebbe potuto essere consapevole collaboratore – per il bene.

Una sintesi squisitamente moderna

Ho detto che la consapevolezza di tutto ciò sembra essersi affievolita nei secoli, non che si sia mai estinta: ancora a metà del XVIII secolo il gesuita molisano Francesco Pepe ne serbava viva memoria, giacché nella 155esima lezione Sull’incarnazione del Divin Verbo scriveva:

Non è dissimile il pensiero di S. Basilio: omelia 25 sull’umiltà della Natività di Cristo. Il Figlio di Dio volle colla Sua Sapienza vincere l’inganno del Diavolo. Or questi per introdurre la morte nel Mondo, ingannò Eva colla promessa di un’Eterna vita: Non morirete mai. Onde colla promessa fallace di vita gli diè con un boccone la morte. Il Figlio di Dio volle render la pariglia all’Ingannatore. Siccome questo nascose sotto una falsa apparenza di vita la Morte, e gli venne fatto uccidere tutto il genere umano; così appunto il Figlio di Dio nascose sotto le spoglie della nostra carne mortale la Sua Divinità, ch’è la Vita. Or la Morte osò divorar il dolce boccone della carne del Redentore con dargli morte, ma rimase ella suffocata, ed estinta dalla Divinità ascosa sotto il velame della nostra carne mortale: E difatti Dio apparve nella carne perché restando in essa come in un nascondiglio potesse uccidere la Morte. Apporta per ispiegare l’intento due similitudini, la prima è presa dalla medicina. V’abbia chi per disgrazia abbia divorata una tazza di veleno: non v’ha altra maniera d’impedire la morte, se non se col prendere antidoti più possenti, che rintuzzino la forza del tossico. L’altra è presa dalla luce, la quale dissipa col suo ingresso in una stanza tutte le tenebre, che la ingombravano. Non v’ha tossico più velenoso del peccato, il quale entrato nel primo Uomo, ebbe tanta efficacia, che diè la morte a tutti gl’Uomini, morte dell’anima, e del corpo, temporale, ed eterna. Non v’ha rimedio nella natura, che possa render la vita ad un estinto cadavero; fintanto che l’infermo vive, potrà il rimedio abbattere la forza del veleno, ed impedir la morte; ma sopraggiunta la morte, è vano ogni rimedio. Se nol può la Natura, lo può la Grazia. Morta era l’anima nostra, morto il nostro corpo per il peccato: il Figlio di Dio prese l’Anima simile alla nostra, Corpo della medesima nostra creta. E colla Sua Divinità conquise il veleno del peccato. E quel ch’è più stupendo, la Morte di Gesù fu morte, e fu vita; fu morte della Morte, e vita dell’Uomo; siccome il veleno è vita al Serpente, e morte all’Uomo. Egli colla Luce Sua Divina, benché ingombrata da tenebre di morte, dissipò l’ombre ferali della Morte: Infatti così come la medicina – prosegue il grande san Basilio – che si misura contro i veleni, viene inserita nel corpo stesso e vince le tossine nocive e quelle letali; e così come le tenebre che riempiono una casa, all’ingresso della luce si dissipano; così la Morte, che dominava nella natura umana, è stata estinta dalla presenza della Divinità.

Francesco Pepe S.J., Delle grandezze di Gesù Cristo, e della gran madre Maria Santissima, III tomo, Napoli 1756, 619 (ho lasciato intatto l’italiano dell’autore, mentre ho tradotto quanto in originale era in latino, lì e qui in corsivo)

Il genio narrativo di Lewis per la contemporaneità

Ma ho detto “Narnia”, prima, parlando dell’Immacolata Concezione? In effetti un grande commento teologico-letterario dell’ignoranza del demonio si ritrova nelle celeberrime Lettere di Berlicche di Clive Staple Lewis: il procedere del Tentatore è infatti per tentativi (l’area semantica è affine non a caso), per supposizioni, per calcolo di probabilità, ed è sempre animato insieme dalla disperazione dell’eterno sconfitto e dalla rabbia del supremo tracotante (ciò che rende pericolosa la Bestia, laddove non la si respinga con fermezza).



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La summa teologica di Lewis, però, è in quel libro per bambini noto come Cronache di Narnia: molti altri libri sono “più serî” e “per specialisti”, ma nessuno mi pare contenere una così ampia e dettagliata parabola dell’intero mysterium salutis. La seconda delle cronache s’intitola Il leone, la strega e l’armadio: soprattutto in ragione della fortunata trasposizione cinematografica di Andrew Adamson (2005) è una delle più celebri. Peccato che, passando di fatto per la prima, il suo spettatore sia digiuno della premessa cosmogonica di cui si parla ne Il nipote del mago (al limite uno si chiede che cosa ci faccia quell’unico lampione lì, nella foresta innevata di Narnia, ma la risposta non arriva).

Ad ogni buon conto, dopo che la Strega ha corrotto Edmund con l’invidia per il fratello Peter (e si noti che il titolo di entrambi è “figli di Adamo”), e quando Aslan – figura Christi in quanto «leone della tribù di Giuda» – si è ormai palesato, Lewis colloca un dibattito in cui la Strega pretende di avere acquisito un diritto di proprietà su Edmund e Aslan si offre in riscatto per lui. L’analogia cristologica è evidente anche ai digiuni di teologia, ma quel che è importante è il dialogo. Ne riporto alcuni passaggi (traduzione mia):

– C’è un traditore qui con te, Aslan – disse la Strega. […]

– Bene – disse Aslan – ma la sua offesa non è stata contro di te.

– Hai dimenticato la Magia Profonda? – chiese la Strega.

– Diciamo che l’ho dimenticata – rispose gravemente Aslan – Parlaci della Magia Profonda.

– Parlartene? – disse la Strega con una voce che cresceva e diventava più penetrante – Parlare a te di cosa sta scritto nell’antica Tavola di Pietra collocata qui dietro di noi? Parlare a te di cosa sta scritto a lettere profonde come una punta di lancia nelle pietre laviche della Collina Segreta? Parlare a te di cosa sta inciso sullo scettro dell’Imperatore-oltre-il-Mare? Di sicuro conosci la Magia che l’Imperatore ha messo dentro Narnia al principio. Sai che ogni traditore appartiene a me come mia legittima spoglia e che per ogni tradimento io ho diritto a un omicidio.

[…]

– E quindi – proseguì la Strega – questa creatura umana è mia. La sua vita appartiene a me. Il suo sangue è mia proprietà.

– Allora vieni a prendertelo – disse il Toro dalla testa umana con voce ringhiante.

– Sciocco – disse la Strega con un sorriso selvaggio che era quasi una smorfia – davvero credi che il tuo capo possa rubarmi i miei diritti con la forza bruta? Egli conosce ben più di così la Magia Profonda. Egli sa che se non avrò il sangue, come dice la Legge, tutta Narnia sarà sconvolta e distrutta nel fuoco e nell’acqua.

– È verissimo – disse Aslan – non lo nego.

Poi Aslan si allontana a parlare con la Strega in disparte e quando i due tornano viene comunicata la decisione: il Leone si immolerà per il figlio di Adamo. Così al momento stabilito Aslan si avvicina alla grande Tavola di Pietra dove la strega lo attende, questa fa legare e radere il Leone (reminiscenza di Sansone, cioè del Nazireo/Nazareno). Prima di ucciderlo (ma il lessico è quello di un sacrificio rituale, come se si immolasse un agnello – e in effetti quel Leone è l’Agnello) la Strega dice:

– E adesso chi ha vinto? Sciocco, pensi che con tutto questo salverai il traditore umano? Adesso io prenderò te invece di lui, secondo il nostro patto, e la Magia Profonda sarà adempiuta. Ma quando tu sarai morto chi mi impedirà di uccidere anche lui? E chi lo salverà dalla mia mano, allora? Capisco che mi hai dato Narnia per sempre, hai perso la tua vita e non hai salvato la sua. Con questa consapevolezza, sparisci e muori!

Nel corso della notte poi sopraggiungono dei topi «a compiere il pietoso ufficio» di rosicchiare le funi che costringevano Aslan, e per tutta la notte Lucy e Susan avrebbero vegliato il grande Leone morto. All’alba le due figlie di Eva si apprestano ad andarsene e appena si voltano la grande Tavola di Pietra si spezza: Aslan compare e parla con le bambine riecheggiando i discorsi del Risorto dei Vangeli con le donne e con i discepoli. Quando Susan chiede “ma cosa significa questo?” Aslan spiega:

Significa che per quanto la Strega pensasse di conoscere la Magia Profonda esiste una magia ancora più profonda, che lei non conosceva. La sua conoscenza risale indietro solo fino all’alba dei tempi. Ma se avesse potuto guardare fino a un poco prima, dentro al silenzio e all’oscurità di prima che il Tempo sorgesse, lì avrebbe potuto leggere un incantesimo differente. Avrebbe saputo che quando una vittima volontaria che non si fosse macchiata di tradimento venisse uccisa al posto di un traditore, la Tavola si sarebbe spezzata e la Morte stessa avrebbe cominciato a funzionare al contrario. […]

Ed ecco il cuore della questione: Lewis sembra preferire l’immagine del riscatto a quella dell’inganno, ma in realtà le fonde insieme, e tutte e due trasfigura al fuoco di una Legge superiore alla legge stessa, quella che fonda e sostiene la legge fino a che essa non si riveli nella sua insufficienza – e poi la compie e la supera.

Ma di tutto questo cosa poteva mai immaginare «il demonio, quello spirito orgoglioso che non tollera di essere deriso» (Thomas More)? Era fatto per volare sicuro nell’empireo dei misteri divini… e si ritrova a brancolare e inciampare perfino nelle banali contraddizioni della libertà umana: sfido che è arrabbiato. «Povero vecchio diavolo, / povero Belzebú».