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Padre nostro: il problema non è “indurci” o “abbandonarci”… ma perché “alla tentazione”?

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 19/11/18
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Le discussioni e le polemiche sul cambio della traduzione del Padre Nostro nella nuova versione italiana del Messale Romano si sono concentrate sul verbo “indurre” e hanno relativamente trascurato che a porre il problema teologico è soprattutto l’idea un Dio che fa oppure omette qualcosa che ci espone al male – e questo lo ha detto Gesù. Dunque il problema, come sempre, sta più nel comprendere le parole che nel cambiarle.

Continua la discussione sulla modifica della traduzione del Padre Nostro: alcuni continuano a stracciarsi le vesti per la pretesa sovversione di ataviche tradizioni, altri puntualizzano che la discussione di cui è questione va avanti da più di quindici anni (inferendo con ciò che le modifiche non si dovrebbero a un fantomatico “contesto eversivo” di questi ultimi anni).

Da parte mia ero inizialmente molto perplesso circa la traduzione del Gloria, perché lo scioglimento di quel semplice complemento di specificazione in una relativa mi sembrava una procedura ermeneutica poco fluida. Poi ho chiesto a un po’ di amici: «Ma secondo te cosa significa “pace in terra agli uomini di buona volontà”?» – e tutti, senza neppure un’eccezione, mi hanno risposto che avere buona volontà è indispensabile perché si viva in pace. Cosa senz’altro vera, ma estranea all’intenzione del testo lucano da cui l’eucologia liturgica attinge: è di Dio la “buona volontà”, o meglio il “beneplacito”, la “benevolenza”, di salvare gli uomini. E solo su questo si può fondare una pace altrimenti impossibile per un’umanità radicalmente corrotta. Quindi ho cambiato idea: meglio la forzatura morfosintattica nello scioglimento che continuare a fraintendere. Del resto abbiamo l’abitudine di pensare che le cose che “abbiamo sempre saputo” siano ataviche solo perché le abbiamo imparate così: è questo che ci rende restii ai cambiamenti.


MAN,STRUGGLING,PRAYER
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A ben vedere, però, la storia del cristianesimo è marcata fin dalle origini da una simile disposizione: nessuno oggi pensa più – cosa che ai suoi tempi scriveva Oscar Wilde – che Cristo parlasse in greco con i suoi discepoli, e quindi dobbiamo accettare il fatto che la preghiera del Signore (già di per sé problematica in quanto pervenutaci in due redazioni) sia già nel testo greco una versione. Cristo la insegnò probabilmente in aramaico, e quel testo aramaico è per noi oggi inattingibile per via di tradizione testuale (mentre lo abbiamo mediante tradizione eucologica siriaca e tramite retroversione). Quando poi il greco cominciò a essere poco compreso nella parte occidentale dell’Impero, i cristiani presero a tradurre la Bibbia… e tempo dopo la liturgia. E così quando, secoli dopo, fu il latino a risultare poco comprensibile… le traduzioni sarebbero state fatte dal latino alle altre lingue. Insomma, con una boutade diremmo che quella del cristianesimo è sempre stata “una storia volgare”: rivendicare questa o quella lingua come “lingua ieratica” significa ignorare e/o contrastare tutta questa storia. Un contributo a mio avviso molto buono ed esaustivo è quello firmato #BellaProf:

Lo si è detto: proprio il fatto che fin dal principio abbiamo opere scritte in una lingua diversa da quella in cui le parole furono pronunciate e intese ha costituito nel dna del cristianesimo il permesso (e il compito) di operare ogni opportuna traduzione. Chiaro che tutte le volte che si traduce c’è il rischio (che in parte si concreta) di tradire qualcosa… ma anche l’opportunità di guadagnare altro.

Nella fattispecie – e senza pretendere di spiegare qualcosa ai biblisti che ci hanno lavorato per anni – ho l’impressione che nel dibattito l’attenzione sia stata convogliata un po’ troppo sul verbo “indurci” e troppo poco sul sostantivo “tentazione”. Dal punto di vista filologico io trovo tuttora opinabile che si traduca il verbo greco εἰσφέρω [eisphero] con “abbandonare”: in fondo – se prima il tacito presupposto della domanda era che Dio potesse “indurre” adesso lo stesso resta che Dio possa “abbandonare”, onde lo preghiamo di non farlo (e di per sé non mi pare una miglioria) – la questione diventa problematica a seconda dell’accezione che diamo a “πειρασμός” [peirasmós]. Così è chiaro ciò che disse Papa Francesco parlando con don Marco Pozza: «Quello è l’ufficio di Satana!».

E così la lettera di Giacomo esplicita: «Dio non può essere tentato al male e nessuno tenta» (1, 13). Ma anche lì si usa il verbo “πειράζω” [peirázo], e dunque il cuore del problema filologico si conferma: che cosa vuol dire questa parola che Giacomo usa per indicare ciò che Dio assolutamente non può fare e Matteo con Luca per esprimere in greco la domanda della preghiera di Gesù, la quale sembra implicare che Dio possa eventualmente fare quella cosa?



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Franco Montanari, illustre grecista e coordinatore dell’équipe che ha compilato il celebre “GI” (ed Loescher), illustra così i significati del verbo “πειράζω” per la diatesi attiva e per quella passiva:

  1. provare, sperimentare, far prova, sottoporre a prova;
  2. tentare, provare;
  3. tentare, cercare di corrompere o sedurre;

  1. essere provato o sperimentato;
  2. essere tentato, essere soggetto a tentazione;
  3. essere attaccato (ad esempio da malattia);

Il primo significato del verbo, in entrambe le diatesi, non ha a che fare con la “tentazione” ed è quello più largamente attestato negli autori classici ed ellenistici. Il terzo della diatesi media è usato da medici e storici (paragonabile al nostro “essere provati da un’influenza”). Il secondo, in entrambe le diatesi, è quello tipico dell’uso neotestamentario e cristiano: Montanari segnala in particolare 1Cor 7, 5 in cui Satana viene indicato come “colui che tenta”. Come diceva il Papa a don Pozza: tentare al male è l’ufficio di Satana.

Così abbiamo visto che il greco del Nuovo Testamento si colloca in un contesto linguistico in cui il verbo significa fondamentalmente “testare” e gli conferisce una sfumatura peggiorativa, un connotato di dolo e di malizia. Con questa annotazione usciamo dall’àmbito strettamente filologico ed entriamo in quello teologico, ripartendo dal punto che ci eravamo preannunciati: perché Gesù formula quella domanda? Ci ha insegnato a chiamare Dio “padre” e c’insegna a pregare implicando che possa fare o non fare qualcosa che ci esponga al male? Va riconosciuto che l’esperienza di qualunque padre lo conferma: noi lasciamo che i figli affrontino delle difficoltà, anche a rischio di vederli fallire. Chiaramente non per sadismo ma per farli crescere. Massimizziamo il fantasma paterno, ottimizziamone le perfezioni ed eliminiamone le imperfezioni… e abbiamo davanti ciò che Gesù ci ha descritto essere Dio: se Gesù prega e c’insegna a pregare così significa che ci rivela un contesto nel quale il “πειρασμός”, il “crash-test”, è procurato da due agenti (Tommaso preciserebbe: da uno che agisce e da uno che lascia agire) che conferiscono alla prova un carattere che è contemporaneamente di malizia e di speranza. Il prototipo di questo tipo di tentazione – narrato quando, letterariamente, Satana era ancora uno che si presentava davanti al trono di Dio – è la storia di Giobbe.



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Non a caso Benedetto XVI la usò proprio per spiegare il senso della sesta domanda della preghiera del Signore:

Le parole di questa domanda sono di scandalo per molti: Dio non ci induce certo in tentazione! Di fatto, san Giacomo afferma: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (1,13).

Ci aiuta a fare un passo avanti il ricordarci della parola del Vangelo: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1). La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli uomini da Dio. Egli deve, come abbiamo visto, sperimentare su di sé queste tentazioni fino alla morte sulla croce e aprirci in questo modo la via della salvezza. Così, non solo dopo la morte, ma in essa e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo «discendere negli inferi», nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per prenderci per mano e portarci verso l’alto. La Lettera agli Ebrei ha sottolineato in modo tutto particolare questo aspetto, mettendolo in risalto come parte essenziale del cammino di Gesù:

«Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18). «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4,15).

Uno sguardo al Libro di Giobbe, in cui sotto tanti aspetti si delinea già il mistero di Cristo, può fornirci ulteriori chiarimenti. Satana schernisce l’uomo per schernire in questo modo Dio: la sua creatura, che Egli ha formato a sua immagine, è una creatura miserevole. Quanto in essa sembra bene, è invece solo facciata.

In realtà all’uomo – a ogni uomo – interessa sempre e solo il proprio benessere. Questa è la diagnosi di

Satana, che l’Apocalisse definisce «l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte» (Ap 12,10). La diffamazione dell’uomo e della creazione è in ultima istanza diffamazione di Dio, giustificazione del suo rifiuto.

Satana vuole dimostrare la sua tesi con Giobbe, il giusto: se solo gli venisse tolto tutto, allora egli lascerebbe presto perdere anche la sua religiosità. Così Dio concede a Satana la libertà di mettere alla prova Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia cadere l’uomo, ma permette che venga messo alla prova. Qui traspare già in modo sommesso e non ancora esplicito il mistero della vicarietà, che prende una forma grandiosa in Isaia 53: le sofferenze di Giobbe servono alla giustificazione dell’uomo. Mediante la sua  fede provata nella sofferenza, egli ristabilisce l’onore dell’uomo. Così le sofferenze di Giobbe sono anticipatamente sofferenze in comunione con Cristo, che ristabilisce l’onore di noi tutti al cospetto di Dio e ci indica la via per non perdere, neppure nell’oscurità più profonda, la fede in Dio.

Il Libro di Giobbe può anche esserci d’aiuto nel discernimento tra prova e tentazione. Per maturare, per trovare davvero sempre più la strada che da una religiosità di facciata conduce a una profonda unione con la volontà di Dio, l’uomo ha bisogno della prova. Come il succo dell’uva deve fermentare per divenire vino di qualità, così l’uomo ha bisogno di purificazioni, di trasformazioni che per lui sono pericolose, che possono provocarne la caduta, che però costituiscono le vie indispensabili per giungere a se stessi e a Dio. L’amore è sempre un processo di purificazioni, di rinunce, di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione. Se Francesco Saverio poté pregare Dio dicendo: «Ti amo, non perché puoi donarmi il paradiso o l’inferno, ma semplicemente perché sei quello che sei – mio re e mio Dio», era stato certamente necessario un lungo percorso di purificazioni interiori per giungere a quest’ultima libertà – un percorso di maturazioni, in cui era in agguato la tentazione, il pericolo della caduta – e tuttavia un percorso necessario.

Così possiamo ora interpretare la sesta domanda del Padre nostro già in maniera un po’ più concreta. Con essa diciamo a Dio: «So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi di sottopormi a queste prove, se – come nel caso di Giobbe – dai un po’ di mano libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura limitata delle mie forze. Non credermi troppo capace. Non tracciare troppo ampi i confini entro i quali posso essere tentato, e siimi vicino con la tua mano protettrice quando la prova diventa troppo ardua per me». In questo senso san Cipriano ha interpretato la domanda. Dice: quando chiediamo «e non c’indurre in tentazione», esprimiamo la consapevolezza «che il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là la facoltà» (De dom. or. 25).

E poi, ponderando il profilo psicologico della tentazione, egli spiega che ci possono essere due differenti motivi per cui Dio concede al Maligno un potere limitato. Può accadere come penitenza per noi, per smorzare la nostra superbia, affinché sperimentiamo di nuovo la povertà del nostro credere, sperare e amare e non presumiamo di essere grandi da noi: pensiamo al fariseo che racconta a Dio delle proprie opere e crede di non aver bisogno di alcuna grazia. Cipriano, purtroppo, non specifica poi il significato dell’altro tipo di prova: la tentazione che Dio ci impone ad gloriam – per la sua gloria. Ma in questo caso non dovremmo ricordarci che Dio ha messo un carico particolarmente gravoso di tentazioni sulle spalle delle persone a Lui particolarmente vicine, i grandi santi, da Antonio nel deserto fino a Teresa di Lisieux nel pio mondo del suo Carmelo? Tali persone stanno, per così dire, sulle orme di Giobbe come apologia dell’uomo, che è al contempo difesa di Dio. Ancor più: sono in modo del tutto particolare in comunione con Gesù Cristo, che ha sofferto fino in fondo le nostre tentazioni. Sono chiamate a superare, per così dire, nel proprio corpo, nella propria anima le tentazioni di un’epoca, a sostenerle per noi, anime comuni, e ad aiutarci nel passaggio verso Colui che ha preso su di sé il gravame di tutti noi.

Nella preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del Padre nostro deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall’altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani. Pronunciamo questa richiesta nella fiduciosa certezza per la quale san Paolo ci ha donato le parole: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,13).

Benedetto XVI, Gesù di Nazaret 56

Questa storia, così a metà tra la fiaba, la favola morale e la disputa teologica, esprime bene la complessa visione teologica del giudeo-cristianesimo, secondo la quale il male che gli uomini fanno non è semplicemente frutto di un asettico libero arbitrio e non è neppure l’effetto inerte di un tentatore esterno (il quale comunque non può mai essere Dio). Dunque è per questa peculiare e particolarissima concezione teologica che gli autori del Nuovo Testamento hanno risemantizzato (e incidentalmente esposto all’equivoco) un verbo e un sostantivo anteriormente assai meno ambigui. Le parole, del resto, si formano così: l’una dall’altra, ma talvolta con balzi indeducibili a priori (avete mai pensato al fatto che il referente di “lampadina” si rifà a “lampada” e “lampadario”, mentre il suo significato – ossia l’invenzione “di Edison” – non deriva in alcun modo da quelli delle altre due parole? Eppure oggi avvitiamo le lampadine sui lampadari e quasi non pensiamo che esistettero lampade perfettamente autonome senza lampadine…).



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La citazione di Cipriano che Benedetto XVI fa nel suo Gesù di Nazaret è poi illuminante sul senso della “tentazione”, sul perché Dio permetta che tutti gli uomini siano tentati da Satana. Da un lato c’è la penitenza, dall’altro la gloria. Comprensibilmente l’autore si rammarica del fatto che il Cartaginese non si sia molto soffermato sul quel misterioso “ad gloriam”, ma forse una buona (e autentica) esegesi dell’uno e dell’altro senso ci viene dalla lezione del Concilio Tridentino. Nel Decreto sul peccato originale, del 17 giugno 1546, si legge infatti:

[…] Questo santo sinodo professa e ritiene tuttavia che nei battezzati rimane la concupiscenza, o passione; ma, essendo questa lasciata per la prova, non può nuocere a quelli che non vi acconsentono e che le si oppongono virilmente con la grazia di Gesù Cristo. Anzi, «non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole» (2Tim 2, 5). Il santo sinodo dichiara che la chiesa cattolica non ha mai inteso che questa concupiscenza, che talora l’apostolo chiama “peccato” (cf. Rom 6, 12-15; 7, 7.14-20), fosse definita “peccato” in quanto è veramente e propriamente tale nei battezzati, ma perché ha origine dal peccato e ad esso inclina.

(DH 1515)

Cristo ha vinto e superato per noi tutti il peccato e la morte, giusto. Non solo: ha pure resi partecipi di questa pasqua gli uomini che credono in lui, i quali vengono misticamente incorporati a lui nel mistero della croce e della risurrezione. Egli però, che ha vinto per noi, vuole che noi vinciamo «per ipsum, cum ipso et in ipso» (lo dice il presidente dell’assemblea durante la celebrazione eucaristica): così mentre viene cancellato il peccato originale (e ogni peccato attuale), al battezzato è lasciata una specie di “cicatrice del male”, cioè una cosa che non è più una ferita ma da quella viene e ancora può facilmente riaprirsi. Cipriano dice “ad penitentiam” e “ad gloriam”, Trento sintetizza “ad agonem”: per questo motivo è certamente lecito che desideriamo di essere risparmiati dalla prova (specie da quella che prevediamo tanto grave da soverchiarci), ma è pure molto sensato che a delle prove – pure a quelle che ci portano al limite delle nostre forze – veniamo sottoposti.