Ireneo da bambino conobbe Policarpo, Papia e Melitone; Venanzio Fortunato fu un giovanotto geniale che una malattia e una grazia hanno reso pellegrino, poi monaco e vescovo; Tommaso fu da bambino un oblato benedettino e da ragazzo un frate mendicante che il mondo avrebbe conosciuto come “il dottore angelico”: tutti e tre ci aiutano nel comprendere in che senso il “Documento Finale” del #Synod2018 abbia potuto parlare di “giovani come luogo teologico” senza tuttavia peccare di giovanilismo.
Nessuno disprezzi la tua giovane età, ma sii esempio ai fedeli nelle parole, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza. […] Abbi premura di queste cose, dèdicati ad esse interamente perché tutti vedano il tuo progresso.
1Tim 4, 12.15
Ho scorso con attenzione e interesse il documento finale della XV assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, a tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”: essendomi lasciato alle spalle (più precisamente affianco al calendario dei Maya) gli isterismi di quanti vedevano in agguato il pericolo concreto di una pericolosa sovversione dottrinale, mi sono dedicato alla lettura con serenità e serietà. L’unica nota “critica” che mi sento di condividere, come osservatore e come vir ecclesiasticus interessato a queste cose, è che si sente la mancanza dell’esortazione apostolica postsinodale.
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L’avvio dell’evoluzione del “documento finale”
Intendiamoci: il documento è completo ed esaustivo, quanto ai temi trattati, e i segretari hanno evidentemente fatto un gran lavoro di sintesi e di sistema. Però si tratta sempre e comunque di un “documento finale”, a mio avviso non qualitativamente diverso dai documenti finali dei sinodi precedenti. I quali potevano permettersi (anche “il lusso”, in un certo senso) di non essere molto più di una silloge delle proposizioni emerse nel corso dei lavori sinodali: da questo, date le premesse di Episcopalis communio, speravamo di ricevere una proposta unitaria operativa, mentre mi sembra che assomigli piuttosto a un eccellente verbale di un super-consiglio pastorale.
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Probabilmente era fisiologico che andasse così, al primo giro: se il capitano di un vascello indicesse un “sinodo marinaro” sulla nave, difficilmente la ciurma – almeno da principio – andrebbe oltre all’elenco delle valutazioni e dei desiderata. “C’è poco rhum in stiva”, “i quarti notturni sono stancanti”, “il mare però è bello”, “qualcuno non si lava i piedi”… non sono precisamente delle proposte di navigazione, le quali dovrebbero concernere piuttosto la rotta, gli scali, i venti, gli approvvigionamenti e i tempi di percorrenza. Mutatis mutandis, forse il documento finale risulta analogamente compilativo e, perciò, meramente consultivo: il che non è affatto un problema, ma forse non costituisce (ancora) una risposta adeguata alla recente disposizione del Santo Padre. Chissà, forse al prossimo giro, in Amazzonia, il meccanismo sarà meglio rodato e vedremo un’evoluzione del genere letterario del “documento finale” verso qualcosa di più dispositivo: chiaramente sarà sempre più necessaria l’unanimità morale, poiché per diritto canonico – e salvo pronunciamenti del Romano Pontefice – il Sinodo dei vescovi non ha in sé alcun potere vincolante neppure sulle scelte pastorali del Vescovo della diocesi più piccola del mondo.
La giovinezza, luogo teologico
Tra le poche citazioni patristiche presenti nel documento mi ha colpito quella di sant’Ireneo che riscontriamo al numero 63: «“Giovane tra i giovani per divenire esempio per i giovani e consacrarli al Signore” (IRENEO, Contro le eresie, II,22,4), Cristo ha santificato la giovinezza per il fatto stesso di averla vissuta». Il Lionese è un autore che frequento volentieri, ma questo passaggio non mi aveva mai colpito, e quindi sono andato a cercarlo per intero.
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Il ventiduesimo capitolo del secondo libro dell’Adversus Hæreses è dedicato alla confutazione di certe ricorrenze tra date e numeri riferibili alla vicenda terrena di Gesù, ricorrenze che alcuni gruppi gnostici impugnavano a sostegno delle loro tesi. Al quarto paragrafo si legge dunque:
Venne al battesimo all’età di trent’anni; poi avendo l’età perfetta del maestro venne a Gerusalemme per essere chiamato giustamente maestro da tutti: perché non è vero che sembrava una cosa ma era un’altra, come dicono coloro che lo dichiarano apparente, ma quello che era appariva anche di fatto. Dunque essendo maestro aveva anche l’età del maestro: non rifiutava né oltrepassava la natura umana, né aboliva in sé stesso la legge del genere umano, ma santificava ogni età per la somiglianza che ciascuna aveva con lui. Egli è venuto a salvare tutti per mezzo di sé stesso; intendo dire tutti coloro che rinascono in Dio: infanti, fanciulli, ragazzi, giovani e adulti. E per questo è passato attraverso ogni età: si è fatto infante per gli infanti, per santificare gli infanti; fanciullo tra i fanciulli, per santificare coloro che avevano questa stessa età divenendo contemporaneamente per loro esempio di pietà, di giustizia e di sottomissione; giovane tra i giovani per divenire esempio per i giovani e consacrarli al Signore. Così si è fatto adulto tra gli adulti, per essere un maestro perfetto in tutto, non solo in rapporto all’esposizione della verità ma anche in rapporto all’età, per santificare anche gli adulti divenendo esempio anche per loro. Giunse poi fino alla morte per essere «il primogenito dai morti, essendo egli il preminente in tutte le cose», il principe della vita, il primo di tutti e colui che precede tutti.
Trovo sempre impressionante che questo acume (ancora inferiore a quello di genî quasi coevi come Tertulliano e Origene) si dispiegasse nella seconda metà del II secolo… davvero alzo gli occhi dalle pagine e mi dico che questa benedetta fede cattolica è qualcosa di divino e non una costruzione umana… Comunque, tornando al testo, l’intento generale è chiaramente quello di sconfessare le tesi gnostiche, e in tal senso vanno compresi gli accenti polemici contro “l’apparenza di Cristo”: fioccavano da ogni parte cristologie docete che superavano lo scandalo dell’incarnazione e della kénosi pasquale di Gesù dichiarando mera illusione la fisicità (e anche la psicologia) umana del Figlio di Dio (simili tesi si trovano ancora nel Corano, ove in IV, 157 si afferma che «non l’hanno ucciso né crocifisso, ma soltanto sembrò loro»). L’affermazione invece della piena realtà di Cristo è funzionale all’assioma cristologico che sarebbe stato canonizzato da Atanasio prima e poi da Gregorio di Nazianzo: «Ciò che non è stato assunto non è stato redento». Ecco perché è importante che Gesù sia stato vero uomo, e nella fattispecie vero neonato, vero bambino, vero ragazzo, vero giovane, vero adulto.
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E la vecchiaia? Quella resta irredenta? Un poco di pazienza e ci arriviamo. Prima però osserviamo che la categoria di “giovane” e quella di “giovinezza” hanno una sfumatura semantica non sempre facile da individuare: abbiamo recentemente ricordato il messaggio del Concilio Vaticano II ai giovani nel quale Gesù veniva chiamato “il grande Vivente, il Cristo eternamente giovane”, mentre Ireneo spiega che Cristo non morì giovane, bensì nell’“età perfetta del maestro”. Ora occorre che chiariamo una cosa: in greco e in latino (le lingue in cui ci è giunta principalmente l’opera di Ireneo) l’aggettivo “τέλειος/perfectus” non indica altro che il compimento, la pienezza, e dunque non “l’eccellenza morale” – come il semantema in italiano potrebbe suggerire. Insomma, l’espressione “l’età perfetta del maestro” non suggerisce che a trent’anni si sia maestri migliori che a sessanta o a cento, anzi tutta la civiltà umana è concorde nell’attribuire alla canizie dei membri anziani e lucidi un valore aggiunto di sapienza, dato se non altro dall’esperienza. Cosa significa dunque “età perfetta”? Quella del compimento, cioè del massimo sviluppo della natura: il che da un lato comporta che non si possa essere maestri prima di aver raggiunto la pienezza della vita umana, e dall’altro spiega perché Cristo abbia potuto abbracciare tutte le fasi della vita umana anche senza essere stato anziano. Ma Tommaso sarebbe stato più chiaro, come di consueto, e lo vedremo a breve.
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Ma cos’è dunque la giovinezza? Ecco, penso che con questa premessa possiamo fruttuosamente tornare a leggere qualche passaggio del documento che prova a offrire una risposta:
La giovinezza, fase dello sviluppo della personalità, è marcata da sogni che vanno prendendo corpo, da relazioni che acquistano sempre più consistenza ed equilibrio, da tentativi e sperimentazioni, da scelte che costruiscono gradualmente un progetto di vita. In questa stagione della vita i giovani sono chiamati a proiettarsi in avanti senza tagliare le radici, a costruire autonomia, ma non in solitudine. Il contesto sociale, economico, culturale, non sempre offre condizioni favorevoli. Molti giovani santi hanno fatto risplendere i lineamenti dell’età giovanile in tutta la loro bellezza e sono stati nella loro epoca veri profeti di cambiamento; il loro esempio mostra di che cosa siano capaci i giovani quando si aprono all’incontro con Cristo.
[…]
I giovani sono portatori di un’inquietudine che va prima di tutto accolta, rispettata e accompagnata, scommettendo con convinzione sulla loro libertà e responsabilità. La Chiesa sa per esperienza che il loro contributo è fondamentale per il suo rinnovamento. I giovani, per certi aspetti, possono essere più avanti dei pastori. Il mattino di Pasqua il giovane Discepolo Amato è arrivato per primo al sepolcro, precedendo nella sua corsa Pietro appesantito dall’età e dal tradimento (cfr. Gv 20,1-10); allo stesso modo nella comunità cristiana il dinamismo giovanile è un’energia rinnovatrice per la Chiesa, perché la aiuta a scrollarsi di dosso pesantezze e lentezze e ad aprirsi al Risorto. Allo stesso tempo, l’atteggiamento del Discepolo Amato indica che è importante restare collegati con l’esperienza degli anziani, riconoscere il ruolo dei pastori e non andare avanti da soli. Si avrà così quella sinfonia di voci che è frutto dello Spirito.
La vita dei giovani, come quella di tutti, è segnata anche da ferite. Sono le ferite delle sconfitte della propria storia, dei desideri frustrati, delle discriminazioni e ingiustizie subite, del non essersi sentiti amati o riconosciuti. Sono ferite del corpo e della psiche. Cristo, che ha accettato di attraversare la passione e la morte, attraverso la Sua croce si fa prossimo di tutti i giovani che soffrono. Ci sono poi le ferite morali, il peso dei propri errori, i sensi di colpa per aver sbagliato. Riconciliarsi con le proprie ferite è oggi più che mai condizione necessaria per una vita buona. La Chiesa è chiamata a sostenere tutti i giovani nelle loro prove e a promuovere azioni pastorali adeguate.
La giovinezza è una stagione della vita che deve terminare, per fare spazio all’età adulta. Tale passaggio non avviene in modo puramente anagrafico, ma implica un cammino di maturazione, che non sempre è facilitato dall’ambiente in cui i giovani vivono. In molte regioni si è infatti diffusa una cultura del provvisorio che favorisce un prolungamento indefinito dell’adolescenza e il rimando delle decisioni; la paura del definitivo genera così una sorta di paralisi decisionale. La giovinezza però non può restare un tempo sospeso: essa è l’età delle scelte e proprio in questo consiste il suo fascino e il suo compito più grande. I giovani prendono decisioni in ambito professionale, sociale, politico, e altre più radicali che daranno alla loro esistenza una configurazione determinante. È a proposito di queste ultime che si parla più precisamente di “scelte di vita”: è infatti la vita stessa, nella sua singolarità irripetibile, che vi riceve orientamento definitivo.
(65-68)
Ecco, chi accusa il sinodo e la Chiesa di aver peccato di “giovanilismo” di sicuro non ha letto questi paragrafi (forse perché la funzione “cerca testo” non vi ha riscontrato il lemma “omosessualità”?): vi si afferma infatti con la massima chiarezza che la giovinezza è una fase transitoria della vita, e si spiega che la sua dimensione cruciale sta nel fatto che – a differenza dell’infanzia – immette direttamente nell’età adulta, cioè nell’“età perfetta” di cui parlava Ireneo. Accompagnare verso questa “perfezione” è compito non solo degli “adulti”, ma di tutta la comunità nel suo complesso, e non è pensabile guidare in modo autarchico e inducendo alla passività quelli che si vorrebbe rendere capaci di autonomia e solidità. Da una parte abbiamo l’indottrinamento, dall’altra l’educazione. La differenza è sottile ma trovo che due giorni fa Papa Francesco l’abbia espressa mirabilmente con un Tweet:
La pretesa di educare “riempiendo le orecchie” è stupida (e sterile) esattamente quanto quella contraria, cioè quella di educare facendo dar fiato alla bocca. È vero, sì, quanto lo stesso Papa Francesco twittava poco dopo:
Ma l’ascolto è finalizzato a intercettare le domande – che poi sono sempre varie declinazioni di una Domanda, la cui risposta è Cristo, il Maestro perfetto –, non a lasciare che esse costituiscano di per sé una Weltanschauung compiuta. L’abbiamo letto espresso a chiare lettere nel documento finale del sinodo.
Qual è dunque il valore aggiunto della giovinezza, se «non si tratta quindi di creare una nuova Chiesa per i giovani, ma piuttosto di riscoprire con loro la giovinezza della Chiesa, aprendoci alla grazia di una nuova Pentecoste» (60)? Cosa significa che «i giovani sono uno dei “luoghi teologici” in cui il Signore ci fa conoscere alcune delle sue attese e sfide per costruire il domani» (64)?
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Significa ciò che spiegava Ireneo: Cristo giunse all’“età perfetta” in cui poteva e doveva essere chiamato “maestro” attraverso una giovinezza. Una giovinezza «vissuta senza clamore, nella semplicità e nella laboriosità di Nazareth» (63). Ora quella sacratissima giovinezza del Figlio di Dio fu il crogiolo invisibile in cui s’è temprata la più strabiliante umanità che abbia camminato su questa terra:
Gesù ha avuto una incondizionata fiducia nel Padre, ha curato l’amicizia con i suoi discepoli, e persino nei momenti di crisi vi è rimasto fedele. Ha manifestato una profonda compassione nei confronti dei più deboli, specialmente i poveri, gli ammalati, i peccatori e gli esclusi. Ha avuto il coraggio di affrontare le autorità religiose e politiche del suo tempo; ha fatto l’esperienza di sentirsi incompreso e scartato; ha provato la paura della sofferenza e conosciuto la fragilità della Passione; ha rivolto il proprio sguardo verso il futuro affidandosi alle mani sicure del Padre e alla forza dello Spirito.
(63)
Come egli si preparò a tutto questo? Ecco l’oggetto della nostra costruttiva contemplazione, che tanto più ci edifica dall’interno quanto più internamente vi penetriamo conformando con «semplicità e laboriosità» la nostra vita alla sua. Ecco perché e in quale senso la giovinezza è un luogo teologico.
Due citazioni medievali
Risulta difficile pensarlo, per noi occidentali postmoderni che del conflitto generazionale abbiamo fatto una pietra miliare di (in)civiltà, ma se la Chiesa non è mai stata giovanilista essa non ha mai percepito i giovani come un’insidia alla propria autorità, a differenza di tutti gli altri poteri della storia nota. La ragione è molto semplice: la Chiesa vive per dare (la buona notizia e i suoi sacramenti), e dunque i giovani sono sempre stati oggetti di un peculiare investimento, da parte sua; tutti gli altri poteri vivono per accumulare (potere e denaro), e dunque hanno sempre visto nelle giovani leve degli strumenti possibili o delle virtuali minacce. Ovviamente non c’è da essere scioccamente angelicati: anche la Chiesa è anche un potere tra gli altri, ma la radice della sua esistenza è posta fuori di sé, essendo la missione del Redentore. Ciò significa che la Chiesa farà ciò che deve fare se, fintanto e in quanto terrà ben presente di essere in funzione di Cristo; se, fintanto e in quanto trascurerà questo principio precipiterà gradualmente allo stadio di qualunque altro potere. Donde gli abusi (sessuali, di coscienza e di potere) di cui tanto – e spesso così superficialmente – si parla.
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San Paolo (o forse un suo redattore coevo o di poco posteriore) l’aveva ben inteso, quando agli Efesini scrisse:
È lui [Cristo, N.d.R.] che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore. Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità.
Ef 4, 11-16
In mensuram ætatis plenitudinis Christi, recita la Vulgata, assai aderente all’originale greco: veleggiando insomma verso quell’obiettivo ciascuno diventa “uomo perfetto” secondo la specifica morfologia che lo Spirito di Cristo gli assegna nell’economia del Corpo mistico. Ed ecco la questione della vocazione.
Ma il discernimento è un puro flatus vocis, prescindendo da questa esistenza mistica i cui strumenti privilegiati sono i sacramenti, i quali tutti discendono dalla Pasqua di Gesù.
Venanzio Fortunato
Ecco perché quel meraviglioso personaggio che fu il veneto Venanzio Fortunato, giovane di talento, poi malato e pellegrino ancor prima di diventare vescovo di Poitiers, dedicò uno dei suoi celebri acrostici a Syagirius, il vescovo di Autun che aveva riscattato un giovane concittadino di Venanzio reso schiavo da una banda di mercenari: la Chiesa pagava un riscatto pecuniario per un giovane e il futuro vescovo dedicò al fatto trentatré versi da trentatré lettere ciascuno – la ragione ultima della salvezza di quel giovane, in ogni senso, doveva essere riconosciuta in Cristo.
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Uno dei più celebri poemi di Venanzio Fortunato – la cui poesia è citata da Dante, ricordiamolo, come incipit dell’ultimo canto dell’Inferno! – è il Pange lingua, sublime inno alla passione di Cristo che un altro genio poetico medievale – Tommaso d’Aquino – avrebbe voluto omaggiare di un “remake”.
Le undici stanze, culminanti nella laus crucis, collocano a metà tra il cordoglio divino per la caduta di Adamo e la dossologia escatologica di chiusura i sei versi che descrivono “la pienezza dell’età di Cristo”:
Lustra sex qui iam peracta,
tempus implens corporis,
se volente, natus ad hoc,
passioni deditus,
agnus in crucis levatur
immolandus stipite.Il quale, avendo compiuto sei lustri
ed essendo giunto alla pienezza del corpo,
con piena libertà, poiché per questo era nato,
tutto proteso alla passione,
fu innalzato come agnello
da immolare sullo stipite della croce.
Proprio come aveva detto Ireneo quattro secoli prima: coi trent’anni Cristo era giunto alla pienezza dell’umanità (per ragioni metriche qui Venanzio Fortunato predilige “corporis”) e a quel punto – non estemporaneamente ma “nato per questo” e “proteso alla passione” – raccolse ogni età dell’uomo nell’abbraccio della Croce.
Tommaso d’Aquino
Quasi sette secoli dopo sarebbe stato il pingue domenicano laziale passato alla storia come “doctor angelicus”, grande fan di Venanzio Fortunato (volle chiamare “Pange lingua” l’inno che da trentasettenne scrisse tra il 1263 e il 1264, su incarico di Papa Urbano IV), a spiegare da par suo questa storia dell’età perfetta. Il passo che ora traduco di seguito è tratto dalla Summa contra Gentiles, scritta a più riprese in quegli anni (ma il progetto lo intraprese da trentaduenne!). Al capitolo 88 del quarto libro si discute “del sesso e dell’età di coloro che risorgono”: Tommaso spiega che la differenza sessuale inerisce all’uomo al di là della sua condizione storica, e che dunque – anche se non sarà più usata per la riproduzione – la si troverà pure in Cielo. A margine annota il proprio dissenso verso quanti ritenevano che le donne, «per via della loro debolezza», sarebbero risorte anch’esse in corpi virili: «Quella fragilità non è un difetto della natura, ma proprio una sua espressione. E anche quella distinzione della natura dimostrerà negli uomini la perfezione della natura e la divina sapienza, che tutte le cose dispone con ordine». E quindi passa all’età:
E neppure pone difficoltà, quanto a questo, la parola dell’Apostolo che in Ef 4, 13 dice “finché non giungiamo tutti all’unità della fede e alla conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, secondo la misura dell’età della pienezza di Cristo”. Infatti questo non viene detto come se quel giorno in cui «coloro che risorgono andranno incontro a Cristo nelle regioni aeree» tutti quanti dovessero assumere sesso maschile, ma per designare la perfezione e il potere della Chiesa. Tutta la Chiesa infatti sarà come “l’uomo perfetto” che tende a Cristo, come si capisce dal contesto della pericope.
È poi necessario che tutti gli esseri umani risorgano nell’età di Cristo – che è l’età giovanile – a causa della perfezione della natura che consiste unicamente in quella età. Infatti l’età puerile non è ancora giunta alla perfezione della natura, per via di mancato sviluppo: quella senile, invece, ne è già decaduta per il progressivo decremento.
Si capisce bene che ai tempi di Tommaso il latino “iuvenilis ætas” indicava la prima maturità, e con questo si distingueva dalla “puerilis ætas”, che noi oggi chiameremmo forse “giovinezza”. Ad ogni modo era quella l’età in cui il giovane Tommaso, impegnato nell’insegnamento e nel servizio della Chiesa fino ai massimi livelli, si riconosceva, dunque l’età adulta al principio del massimo dispiegamento di facoltà e di forze. In un certo senso, per così dire, Tommaso sembra il più “giovanilista” dei tre qui menzionati… e sarebbe bello se noi Chiesa riuscissimo a far assaporare a molti giovani la freschezza di esistenze così belle, piene, avventurose e feconde come quelle di Ireneo, Venanzio e Tommaso.
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