Una donna racconta la sua depressione post-parto per condividere il lato più oscuro della propria fragilità. “Ho bisogno di aiuto” è così difficile, ma necessario, da dire
Che ne è di Alice Sebesta? Forse il nome non ci dice neppure più nulla … solo una vaga foschia di memorie di cronaca nera. Ne mastichiamo e digeriamo talmente tanta. Eppure per qualche giorno non si è parlato d’altro: la mamma che a Rebibbia ha gettato dalle scale due figli piccolissimi, uccidendoli entrambi. Che ne è di lei? Ma non voglio sapere se è stata condannata adeguatamente per il duplice omicidio, se sta pagando coi controfiocchi le pene per il suo gesto atroce. Mi chiedo che ne è di lei a tu per tu con se stessa, perché è un po’ come chiederlo a me stessa.
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La nascita è una catastrofe
Il manicheismo morale lo lascio ai puri di cuore, io pura non sono. Nella gabbia dei malintenzionati, cattivi recidivi, inciampatori seriali ci abito con frequenza; condividere il volto meno sereno e presentabile di me è l’unico motivo sensato per scrivere. Sono stata felice, o meglio confortata, che all’indomani dei tragici fatti di Rebibbia altre donne abbiamo alzato il velo dell’omertà sul tema della depressione post-parto. Sul sito Roba da donne è comparso un articolo a firma di Ilaria Maria Dondi che è una confessione per nulla edulcorata e perciò autentica di cosa possa capitare a una madre all’indomani dell’evento più bello della sua vita, la nascita di un figlio.
C’è ancora tanta reticenza a mostrare questo volto sporco e sgarbato della maternità, proprio perché lo si percepisce tale. Ma non lo è. Non è scontato che diventare mamma si accompagni a nuvolette rosa di miele e sorrisi; la nascita è una «catastrofe», diceva Chesterton, e non intendeva dire che è una sventura, ma che ha conseguenze forti, debordanti, destabilizzanti. Farci i conti provoca uno sbalzo mentale ed emotivo gigante, e non c’è da colpevolizzarsi affatto se la conseguenza è qualcosa di più forte di un semplice malesse o tristezza.
Dissi che c’era qualcosa che non andava all’ostetrica e alla ginecologa ancora prima di essere dimessa dall’ospedale: a me quel neonato di pochi giorni tanto voluto sembrava un estraneo, un intruso, non ero felice, perché non ero felice?
Dissi che stava accadendo di nuovo. 15 anni con episodi di ansia, attacchi di panico, una depressione minore, psicologi, psichiatri, terapie alternative e farmacologiche ti danno una competenza non riconosciuta in materia. (da Roba da Donne)
Conoscendo se stessa, questa donna aveva già degli strumenti per mettersi in allerta, accorgersi che non c’era da temporeggiare nel farsi aiutare.
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Il pensiero, invece, va alle tante mamme che vivono un’ondata emotiva dall’impatto così duro all’indomani della gravidanza e si trovano a navigare sole in acque nere e agitate. Talvolta diventa difficilissimo proprio confidarsi con chi è vicino, il marito o i nonni perché mostrarsi inadeguate nel compito più importante sembra un’onta troppo vergognosa. Questo muro di pregiudizi va buttato giù.
La depressione parte sempre da una forte sensibilità di base, e questo in sé non è un dato cattivo; è un tumulto che va ri-costruito nel positivo, anziché nel distruttivo. Da sole non ci si riesce a sbrogliare la matassa, e non perché si è incapaci: se resto chiusa fuori di casa, devo aspettare qualcuno che abbia un altro paio di chiavi o rompa la porta. L’ho capito su me stessa ed è stato un passo enorme per liberarmi da certi macigni; avvertire la propria fragilità e tremarne può essere trasformato in uno sguardo premuroso verso i propri figli … ma è sempre necessario il confronto con un interlocutore adeguato, e anche – senza scandalizzarsi nel dirlo – nell’uso di medicine.
Ho bisogno di aiuto
Sono esausta, ma penso che se mi addormentassi potrei perdere il controllo, ho paura di trasformarmi in un mostro. Ho bisogno di aiuto. (Ibid)
Arrivare a pronunciare ad alta voce e a qualcuno questa frase è una conquista. L’io sembra morire, invece sta nascendo. Noi siamo fatti del bisogno di relazione e lo sguardo di un altro – non sempre e solo lo specchio – sa restituirci il ritratto più a fuoco di noi stessi. In queste circostanze, quando una mamma sente una frattura nel suo equilibrio, non ci sono limiti ai ganci a cui aggrapparsi, ma alcuni aiuti sono più imprescindibili di altri. A piccoli passi, occorre fare lo sforzo di aprirsi.
Confidarsi col proprio marito, con le amiche è sacrosanto e procura una forza e consapevolezza liberanti: ho sempre preso atto che confessare i lati meno smaglianti di me ai miei cari si traduce in un ritorno di fiducia, i fantasmi si ridimensionano. Il detto vuole che il diavolo non sia così nero come lo si dipinge, ed è vero: nella solitudine dei propri rimuginamenti il nero si fa pece, ma appena si apre la porta sull’esterno arriva la luce a smorzare – dissipare – il cupo.
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Aprirsi a un confessore è altrettanto sacrosanto, perché è lì che si cura la miopia dell’anima: guardare i pezzi scomposti della propria quotidianità senza legarli al nostro destino complessivo, di cui è misura il Cielo, è già un precipitare all’inferno; non per punizione, ma per una sofferenza sensa senso. Ci dimentichiamo che la mano di Dio è sempre presente, non vediamo le piccole ancore che ci vengono spedite quotidianamente per camminare in compagnia del Bene anche su sentieri sdrucciolevoli. Il confessionale è il riparo nella tempesta, perché è un anticpo della nostra Casa eterna.
Non dovrebbe neppure essere più un tabù usare la parola psicoterapeuta; ne abbiamo parlato pochi giorni fa e ripeterlo non fa male: la psicoterapia è uno strumento medico per curare una parte di noi. Essendo creature fatte di organi e di emozioni, possiamo andare dall’ortopedico se c’è un osso rotto e dallo psicoterapeuta se qualcosa di rotto è nella nosta parte psico-emotiva. Conoscere le dinamiche dei nostri comportamenti, disinnescare le tensioni irrisolte, dare un nome alle paure è una strada lunga, ma proficua. La nota dolente è che spesso lo specialista preparato e adeguato ha un costo carissimo, se ne lamenta anche la mamma della storia:
Chiedo al medico che sta seguendo mio figlio, che nel frattempo è in osservazione per alcuni problemi di salute, il contatto di uno psichiatra valido. Mi dà un nome. Pago 250 euro a ogni incontro. Non posso permettermelo, ma lo faccio, perché non voglio andare a tentativi per CPS pubblici (nessun supporto post-partum me li ha indicati: se già non sapessi della loro esistenza, non conoscerei neppure questa opzione). (Ibid)
C’è chi può permettersi il sacrificio, chi no. Ci sono alternative? Potrebbe innanzitutto esserci un’attenzione maggiore da parte delle istituzioni a questa patologia che colpisce le donne proprio nel momento cruciale del post-gravidanza: una maggiore informazione, un contributo economico per le cure. Ancora più semplicemente si può senz’altro fare da sé e per gli altri: certamente ci sono a livello locale realtà virtuose di aiuto, associazioni o semplici gruppi informali. Sono romagnola e vicino a me conosco la bellissima presenza di Mondo Rosa, a Lugo di Ravenna. Ciascuna di noi avrà un contatto o una storia da condividere: possiamo usare i social in modo davvero utile, condividendo e creando piccole reti di sostegno ciascuno nel suo territorio.
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E qui torno ad Alice Sebesta:
Che fine fa il suo grido di aiuto? Chi ne sa cogliere i segnali, se lei non ha la consapevolezza necessaria per gridarlo o per rendersi conto di averne bisogno? (Ibid)
Tu, là fuori
La depressione ha un compagno invisibile, spesso taciuto: compassione, quella vera … non da cartolina. Anche questo è stato un piccolo guadagno che custodisco con premura, si diventa capaci di vedere il dolore altrui, che altri ignorano. Chi abita o ha abitato nel tunnel di giornate e nottate pervase da un senso di inutilità che deborda nei sensi di colpa, nei pensieri distruttivi, nei disegni solo cupi per l’avvenire, sa che mostro perfido sia la solitudine.
Tendenzialmente, perciò, diventa molto attento agli altri, magari notando sussulti e ferite che alla vista superficiale dei più sfuggono. Anche questa è una risorsa su cui far leva, il lato chiaro di questo male oscuro. Donare la propria fragiltà come telescopio o microscopio per stanare altri esseri umani smarriti è un bisogno di cui il nostro presente ha sete.
Chi si sente in trappola, sappia che se ne può uscire. Chi dalla trappola sta liberandosi, non si faccia remore a raccontare o suggerire, perché potrebbe essere un sorso di speranza per qualcuno.