Barbara Garlaschelli scrive una lettera al padre defunto per scoprire che oltre la perdita c’è un affetto che resta presente e vivo
Quante biblioteche si riempirebbero raccogliendo tutto ciò che è stato scritto su «la morte del padre»? Tantissime, e forse si dovrebbero proprio costruire, perché ogni documento sul tema è indispensabile all’intera umanità. Un nodo umano così profondo ha bisogno, per essere guardato, di tutte le miriadi di sfumature in cui si manifesta in ogni singolo individuo.
Non capita di pensarci spesso, eppure noi prima di «essere» siamo «creati»; «io» è innanzitutto «figlio di un Creatore Padre». Questo ci testimonia la Genesi, e possiamo pure non crederci. Però, proprio quando nell’esperienza di vita si manifesta la rottura del vincolo con nostro papà biologico, qualcosa di noi va in tilt nelle fondamenta. La morte di nostro padre è morte di noi.
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Questo dato umanamente condiviso è conferma, o forse domanda aperta per chi non è cristiano, della dipendenza genitoriale che c’è all’origine di ogni vita.
Scrivere il dolore, per capirci qualcosa
Personalmente ho molta paura del momento in cui mio padre morirà, perché le cose tra noi sono sempre andate male e temo che la mia speranza di ricucire qualcosa con lui naufragherà: se ne andrà e – come si suol dire – «io resterò litigata con lui».
Ho letto con il cuore disponibile a essere ferito e curato la lettera scritta ieri da Barbara Garlaschelli su Facebook al proprio papà, anni dopo la sua morte.
Barbara è una scrittrice, sono arrivata a leggerla perché di recente molti giornali italiani hanno riportato un’altra sua lettera: quella scritta al marito per ringraziarlo del suo amore incondizionato,
Sono disabile per fato, tu resti per scelta (da Corriere)
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Condivido con lei, che non conosco personalmente ma sento molto vicina, la fiducia che la scrittura sappia squarciare le ferite e sia una via alla cura di esse. Anche se suo marito è vivo e vegeto, lei gli scrive e non per assenza di intimità personale, ma proprio per maggiore intimità.
Lo fa anche con suo padre, per recuperare il legame interrotto con la morte di lui.
Hai trascorso parte della tua vita con me, tua unica figlia e ci siamo amati come più non avremmo potuto. Abbiamo parlato tanto; riso tanto; percorso tanta strada insieme; pianto tanto – soprattutto io, tu eri un vero duro -, costruito tanto.
Catapultarsi nei ricordi è il primo passo, ricucire un’assenza e osare sperare che possa diventare di nuovo presenza. La forma viscerale di difesa dal dolore è aggrapparsi, invece la morte – che toglie la voce, l’odore, il sorriso degli occhi – chiede un passo da giganti: trasformare la sostanza dell’amore.
Mi rendevo conto, però, di dover cambiare strategia perché continuavo a stare male, a stare peggio; ogni giorno aprivo gli occhi e il mondo era vuoto di te. La notte non dormivo o ti sognavo ma erano sogni perfidi, senza pietà, nei quali tu eri malato, sofferente, distante. Sogni che non guarivano.
Mollare il colpo, abitare l’assenza
Il grande passo, racconta Barbara, è stato proprio quello di vivere appieno, in tutto il dolore che comporta, la mancanza. Il vuoto di un affetto così profondo può accogliere un volto nuovo del proprio papà:
(…) per vivere con la tua assenza, ho dovuto imparare a concedermi questo: mollare il colpo qualche volta; guardare alle mie paure e accoglierle, il che ha significato guardare alla paura più grande, al dolore più feroce e accettarlo: continuare a vivere senza di te.
In questo l’essere umano differisce dalle piante, misteriosamente le nostre radici continuano a nutrirci anche se vengono tagliate. Il legame coi nostri cari non smette di essere linfa di vita anche quando muoiono. È una stranissima impressione che porto a casa da tutti i funerali a cui assisto: c’è una innegabile consolazione tenerissima che convive con il dolore.
Staccarsi eppure restare legati
Gestire il legame coi nostri genitori è tosto tanto quanto conoscere se stessi, un impegno lungo e nebuloso fino all’ultimo istante di vita. Apparteniamo a una storia familiare, però siamo anche qualcosa di nuovo e diverso.
Nasciamo legati al cordone di nostra mamma, dipendiamo dai genitori per diversi anni, poi arriva il tempo del nostro necessario e salutare allontanarci da loro, a scrivere la nostra storia unica. Anche durante l’esuberante ribellione adolescenziale sentiamo di appartenere all’abbraccio di mamma e papà pur mandandoli spessissimo a quel paese, e peggio. Da adulti torniamo a loro per qualche consiglio, condividiamo la celebrazione delle feste importanti, litighiamo talvolta.
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Quando arriva la cesura netta della morte che ci separa dal babbo o dalla mamma è come essere nell’acqua del mare dove non si tocca, fa paura ma si può nuotare. Prima appoggiavamo i piedi, saltellavamo, ora bisogna stare a galla e avere un rapporto tutto nuovo con l’acqua … con la vita.
Guardando te posso vedere il mondo
L’ultimo passo che compie Barbara nella sua lettera al padre parla di un allargarsi dello sguardo. Tutto comincia con una donna-figlia raggomitolata nel suo dolore, come per tornare al tempo dell’infanzia; ospitando il tremore della perdita, del vuoto, gli occhi si spalancano all’orizzonte.
Ho alzato gli occhi distogliendoli da quell’unico pensiero – papà non c’è più – e ho allargato lo sguardo al mondo.
È il frutto di un rapporto padre-figlia che è stato vero e vivo, perciò non chiuso; è come quella prima volta che ti lanci con la bicicletta senza ruotine e senti una voce nota e amata alle spalle che ti dice: «Vai benissimo, vai, ti guardo!».
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