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Come guarda Dio i nostri figli disabili?

MOTHER AND SON
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Paola Belletti - pubblicato il 13/08/18
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E loro come ci insegnano a guardare noi stessi? Ecco: la gloria che è in loro fa risplendere di più anche la nostra, se ci lasciamo spogliare di cenci inutili allora sapremo farci rivestire dell’abito regale

Il senso inesprimibile del dolore innocente

Mi dispiace ripetermi soprattutto se rischio di non rendere giustizia alla meraviglia ineffabile che questo mio figlio è per me, per noi. Così come lo sono gli altri figli. Ma lo farò solo per far risuonare un’altra voce, ancora più materna e innamorata e che non si strugge mai in vano per i suoi figli. Quella di Madre Chiesa e del Suo sguardo pieno capace di dare vita a tutti i suoi figli. I nostri figli quindi e noi stessi.

Ho un bimbo bellissimo di cinque anni, ultimo di quattro. Ha una malattia odiosa, che continua imperterrita a restare pochissimo trattabile per via farmacologica e per ora anche chirurgica. L’offesa alla sua integrità, le menomazioni gravi che gli sono toccate mantengono intatta la loro crudeltà. E anche ingiustizia, sì. Eppure siamo cristiani e noi, per una grazia senza misura che spesso trascuriamo, sappiamo dove anzi Chi guardare. E da Lui ci sappiamo amati e salvati.

Significa che il vestito sgualcito del mio bambino non è il suo abito definitivo. Che si tratta di saper aspettare e di vivere questo frattempo con una pace davvero possibile e visitato più spesso di quanto si possa immaginare di gioia, di allegria anche. E di grazie che solo per mezzo suo ci possono arrivare; Dio mi impedisca di sprecarle!


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I fratelli con gravi disabilità ci mostrano la nostra vera dignità e bellezza

Noi sappiamo che Cristo è il solo vero innocente e che la sofferenza non è solo sfregio alla magnificenza di cui noi, solo noi creature umane, siamo fatti degni. Ma ha inscritto un senso e procede in una direzione. E ha una fine, oltre che un fine altissimo. Una cara amica, madrina di questo nostro figlioletto, mi ha fatto avere in regalo un libo sottile, dal titolo Abili in Cristo.

Si tratta di un sussidio proposto dall’Arcidiocesi di Udine per la catechesi e l’iniziazione cristiana per persone con disabilità. Ecco, c’è già tutto. Persone e bisognose della salvezza di Cristo, inserite nella comunità, con i fratelli, come i fratelli.


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Come mi disse il Card. Caffarra il bambino e come noi lo trattiamo dice dello stato di salute e di vero progresso di una società civile. E perchè? Per il fatto che il bambino è solo persona; ecco se lo disprezziamo significa che anche tra noi già “qualificati” ci apprezziamo solo per le competenze e le prestazioni. Ci disprezziamo allora, in fondo; e non riconosciamo il nostro vero valore: indisponibile e sganciato da qualsiasi produttività. I bambini e di più ancora quelli gravemente menomati ci mostrano, nuda, la nostra dignità di persone.

Non solo la nostra vita, ma anche la Sacra Scrittura è costellata da innumerevoli figure di persone con disabilità, alcune delle quali decisive nella storia della salvezza: da Mosè dislessico fino al sordomuto che rievochiamo in ogni battesimo, dall’immobile uomo che aveva quattro audaci amici capaci di calarlo davanti a Gesù dal tetto scoperchiato di una casa di Cafarnao, al cieco nato, seduto a Gerusalemme lungo la via, che indusse gli apostoli a domandarsi perché fosse nato cieco. Quella domanda è la nostra domanda. Sebbene posta in modo maldestro dai discepoli del Signore, che in quell’occasione azzardarono risposte ancor più maldestre, la domanda che ora ci sta a cuore è quella sul significato spirituale delle disabilità. Perchè? Cosa significano? (Abili in Cristo, pp 7,8)

Portare i pesi gli uni degli altri e non addossarne di nuovi…

Quante mamme, quanti papà o fratelli, nonni, persino i conoscenti più lontani si sono chiesti gemendo dal dolore o a volte rabbiosamente stizziti il perché di queste condizioni! A volte affrettandosi a chiudere questione e cuore con uno definitivo “non lo so, ma non fa per me”. Tanti sono fuggiti, persino tra i padri e le madri; tanti intorno appesantiscono questa croce, che resta tale, con la solitudine, l’isolamento e un ingiusto e del tutto ingiustificato stigma sociale le famiglie che portano il peso di un caro invalido. Ma cosa ci stiamo perdendo? Come ci dobbiamo lasciare guardare da queste persone? E come le guarda Dio Padre?

Nella nostra epoca, inutile negarlo, siamo continuamente sollecitati a migliorare e a rendere bello il nostro aspetto, il corpo. Le donne, soprattutto, sono quasi ostaggio di questa richiesta.


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Il peso e la dignità del corpo: solo in Gesù e Maria possiamo davvero specchiarci

Considerazione personale: probabilmente siamo tanto attente al corpo e alla sua bellezza, seppure in forma spesso deformata e deformante, ricattatoria a volte irritante, proprio perché il nostro corpo è fondamentale e fondante, indica un destino specialmente in noi donne (cosa che certo femminismo indica come condanna culturale da rifuggire). Siamo noi la religione dell’Incarnazione, siamo noi il popolo che è Corpo di Cristo, nella Sua Chiesa che ci partorisce e con doglie acutissime. Siamo noi, che cerchiamo Eva tra gli alberi ormai avvizziti dell’Eden decaduto o con santa furbizia finalmente ci specchiamo in Maria: bella, madre, vergine, obbediente, umile, potente: la Donna davvero compiuta e piena di forza. E a Lei guardiamo nel dolore, non solo a Suo Figlio in croce, ma anche a Lei, in piedi sotto la croce.


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E allora cosa possiamo imparare da questi corpi feriti, sfregiati, se non a scorgere le anime che vi brillano dentro e attraverso?

Frequentemente ci viene consentito di sviluppare il nostro corpo, mentre resta talvolta tristissimo il povero stato in cui mente e spirito sono rimasti in noi rachitici, poiché ci siamo curati troppo di quel che si vede a colpo d’occhio e non abbastanza di quel che si vede soltanto a colpo di cuore. Accade però anche il contrario: ed è come un segno, per chi vuol capire. Accade cioè che un’anima di farfalla sia trattenuta in una carne che non ha messo ancora le ali (…)

In quella singolare condizione in cui si trovano le persone con disabilità (…) si manifesta con particolare chiarezza la rivelazione originale sull’uomo, e cioè che anzitutto l’uomo è persona, fatta ad immagine e somiglianza di Dio, prima e ben al di là di qualsiasi determinazione, caratteristica corporea, attitudine mentale, curriculum, attività. Quanto bisogno abbiamo di rammentarci questa verità elementare, nell’attuale balorda stagione snervata da agitazioni ed apparenze, Dio solo lo sa. (Ib. p.8)

Questi figli (e fratelli) collaborano alla nostra salvezza e ci sono maestri: loro si affrettano sulla via indicata dal Vangelo

Ci sono cose, e le più importanti per giunta, che possiamo imparare solo da queste persone, soprattutto ora. Sono  operai specializzati nella Fabbrica della Salvezza, come mistero di espiazione perenne. E sono canto di lode a Dio che mostra in loro la Sua gloria; e sono anche maestri. Sì queste persone così colpite, atterrate dalla malattia e dalla disabilità, sono dei campioni da oro olimpico nella gara vera della vita: farsi di nuovo bambini, abbandonarsi volentieri alla volontà di Dio, lasciarsi portare e cingere quando invece noi forti e vigorosi, illusi di restare sempre giovani, facciamo spesso con arroganza di testa nostra.

Quando veniamo come messi a nudo dal segno eloquente e toccante del corpo dell’altro, nella sua carne e nella sua psiche, che ti sta davanti come un appello d’amore, e pensi che ci sono persone pazientemente disposte a farsi portare, lasciarsi aiutare, fidarsi pienamente, persone che hanno saputo imparare assai presto l’evangelica necessità di ritornare come bambini, ci fermiamo un attimo col cuore in gola, chiedendoci se anche noi sapremo mai affidarci così tanto. (Ib.p 10)

Grazie allora a Don Alessio Geretti e tutti i collaboratori che hanno cesellato questo prezioso gioiello. Spero che si diffonda in tante parrocchie e molti più cuori.

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Arcidiocesi Udine