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«E io avrò cura di te», l’accudimento che guarisce l’anima

COPPIA, ANZIANI, FELICI
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Annalisa Teggi - pubblicato il 23/07/18
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Un viaggio nell’assistenza domiciliare, una proposta umana che parte dagli anziani, malati e disabili: tutti noi abbiamo bisogno di una mano che ci aiuti

Onora il padre e la madre. Me lo sto ripentendo senza sosta, in questa estate di giorni torridi e temporali; che è un po’ come la mia testa, tra ribollimenti e tuoni.

Onorare la mamma, ancora ancora. Ma te, babbo, come ti onoro?
Me lo chiedo, con rabbia e amarezza, da settimane tutte le volte che lui mi sbatte in faccia il telefono e la porta. Anziano, non più autosufficiente: è durissima da accettare per un uomo robusto, gran lavoratore del ferro e dei campi per una vita intera.


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Vorrei trovare una soluzione, in fretta, che lenisse i suoi bisogni e la sofferenza di noi familiari. No, è la sua risposta. Non voglio aiuto, ribadisce perfino con cattiveria. Poi si pente di aver ferito chi ama. Poi litighiamo, piangiamo di nuovo.

Malato tu, malato io

Non senza sensi di colpa, ho cominciato a pensare che io-figlia e mia madre-moglie abbiamo bisogno di un aiuto esterno. C’è un groviglio di emozioni troppo stretto tra noi per permettere un accudimento adeguato. E quanto è difficile accettare che sia amore anche quello che delega, accettando il peso di ammettere: «Io non sono più capace di aiutarti da sola».

Dante diceva che la vecchiaia è l’età in cui si devono ammainare le vele. Cedere, lasciarsi fare, mollare la presa. Ma chi deve ammainare la volontà e il cipiglio? L’anziano o tutta la sua famiglia? Entrambi, perché il mistero delle relazioni sta proprio nel fatto che sono vive e quindi devono cambiare, anche fino a capovolgersi, rinascere in modo imprevedibile.

Non ho bisogno di soluzioni per mio padre, ma innanzitutto di stare da capo dentro il rapporto con lui, che richiede di conoscersi da capo una volta di più.
È questo il guadagno che mi è piovuto addosso come acqua rinfrescante leggendo il racconto di Fabio Cavallari La cura è relazione, ed Lindau, 2018.

CURA, RELAZIONE, CAVALLARI

Lindau

Con pudore e delicatezza Cavallari è entrato nelle case, nelle storie più intime di dodici famiglie, uomini e donne, giovani e anziani, che si sono incontrati nella malattia e che insieme, dentro una reciprocità non scontata, hanno fatto passi condivisi, costruendo, di fatto, una comunità.

La vita chiede presenza, partecipazione, adesione. Nessuno vuole rimanere solo, ammalato o sano che sia. Tutti noi abbiamo bisogno dell’altro, di una mano che ci aiuti, ci sostenga, accompagni la nostra fatica. (da La cura è relazione)

Quando la malattia in tutte le sue forme bussa alla porta, da quelle crudelissime che colpiscono in tenera età fino alle patologie della senilità, l’orizzonte familiare rischia di cadere sotto l’incantesimo di uno specchio deformante.


LINO BANFI
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«Il malato deve essere guarito» può diventare una legge-trappola, perché l’intero nucleo domestico è parte ferita di fronte a un proprio caro che ha bisogno. Chi è malato? Chi deve essere curato? Dare risposte non scontate a queste domande può essere l’inizio di un percorso di cura anche per i cosiddetti «sani».

Sfogliando le storie narrate da Cavallari, mi stupiscono due testimonianze. La prima è quella di un infermiere che decidere di intraprendere questo mestiere dopo essere stato un barman affermato: la morte del nonno lo scuote al punto di riscrivere completamente la sua vita e mettersi al servizio degli altri. Dai party all’assistenza agli anziani, è un viaggio che in pochi sceglierebbero di intraprendere.
La seconda è quella di una mamma che sceglie di diventare assistente domiciliare dopo la morte della figlia: il dolore non si può lenire, ma si può non precipitare nella disperazione condividendolo.

ANZIANO, INFERMIERA, PIANGERE

Shutterstock

Riassume il senso di questi percorsi umani coraggiosi Melania, una coordinatrice dei Servizi di Assistenza domiciliare:

«Si potrebbe dire che la premessa che sta alla base di una scelta lavorativa di questo tipo risiede nella volontà di guardare l’altro come parte di sé». (Ibid. )

È questo l’unico specchio che ci può far rimanere umani, dentro la disumana contraddizione che è la disabilità, la patologia incurabile, la demenza senile. Non c’è l’altro – il malato – e noi. Ci siamo noi con lui, qualunque nuova via di relazione ci chieda questa constatazione.

La famiglia che non c’è più

C’è un grande attrito alla novità e soprattutto a quella specie di novità che riguarda le relazioni. Siamo diventati bravissimi a starcene per conto nostro e se ci leghiamo a qualcuno vogliamo avere la garanzia di poterci liberare di lui più in fretta possibile, senza strascichi. Che illusione. Come fa notare Cavallari, nel nostro passato prossimo la famiglia era già un antidoto alla malattia, la famiglia era già una forma di cura:

Un tempo l’anziano veniva accudito a casa, spesso malamente, ma dentro un rapporto, in compagnia di qualcuno che di lui si accorgeva, che di lui persino ricordava i colori dei vestiti da lavoro e quelli della domenica, nell’aia contadina con le donne a far da veglia. Ora il pianerottolo è deserto, chiusa la porta, mute le voci delle genti (Ibid).



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Oggi, chi bussa alla porta, spesso e volentieri, non è l’anziano padre o madre, ma il giovane figlio o figlia:

Sono sparite le grandi famiglie, che sapevano fare nido attorno all’idea di comunità che stringeva in maniera naturale in un’unica, composita, società. Sempre più spesso sono i genitori pensionati ad aiutare i figli.

ANZIANO, FIGLIA, CAMMINARE

Lily Banse | Unsplash

È dunque inevitabile che la famiglia abbia bisogno di appoggiarsi all’esterno per l’accudimento e l’esperienza dell’assistenza domiciliare, come messa a fuoco dalle testimonianze raccolte da Cavallari, può essere la via per tutelare due grandi tesori: il permanere dei vincoli affettivi coi propri cari e con la propria dimora.

«Il punto principale dell’Assistenza domiciliare è la presa in carico della persona e del suo nucleo, mai della malattia» afferma Maria, una veterana dell’assistenza domiciliare.

«Stando a casa ho mantenuto un’identità, una presenza, che va ben oltre la mia disabilità. Ognuno ha una storia da raccontare, una vita che non sempre procede come i desideri vorrebbero. Siamo tutti fragili. Non esistono uomini certi e indefessi, liberi e sapienti. Io credo di poter offrire qualcosa» racconta Renato, disabile fin dall’adolescenza e rimasto senza genitori da adulto. (Ibid)

È mettendo al centro della cura un rapporto tra esseri umani, inizialmente sconosciuti e che possono anche faticare ad aprirsi l’un l’altro, che la prospettiva della malattia si apre a un’ipotesi di cammino, e non a un declino progressivo. Non è «facile» come somministrare una pillola e via, non è eseguire certe competenze acquisite e firmare un modulo. È aprire una porta e ospitare, abitare il dolore e il groviglio dei rapporti umani senza risposte preconfezionata, ma dando valore immenso a ogni passo fatto insieme.



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Inguaribile non significa incurabile

Ancora più sorprendenti sono le testimonianze «positive» di chi racconta l’accudimento dei malati terminali. Ho sottolineato con vigore e aggiunto a margine una caterva di punti esclamativi accanto a queste parole di Ernestina, una fisioterapista che descrive la sua esperienza con malati condannati a morte certa:

“L’accompagnamento non è mai alla morte, ma è alla possibilità di vivere, per intero, quel tratto di vita ancora disponibile”. (Ibid)

Inguaribile non significa incurabile, ecco lo sguardo che vorrei imparare da lei. Perché non è solo un giudizio su qualcuno – lontano da me – che è colpito da una patologia che non lascia scampo; anche noi siamo attanagliati da mille morbi inguaribili, invisibili eppure non meno invalidanti. Non relegare in un ghetto chi vive la malattia con tutte le sue estreme conseguenze è un atto di affetto a noi stessi, è lasciare che la speranza non abbandoni le nostre case. Aggiunge Ernestina:

«Non ci si ferma mai alla patologia, si entra sempre dentro la vita degli altri. Ciò che si dona non è mai esclusivamente il sapere tecnico, ma l’interezza di se stessi. È così che si creano le relazioni, che si acquista fiducia. … In questa epoca storica, il rischio che corriamo è quello di cancellare questa bellezza dolente». «Quando ti ritrovi davanti a un ragazzo, ai suoi occhi intensi che ti guardano e ti chiedono “perché”, non puoi permetterti molti ragionamenti, non ti è consentita una via di fuga. Al cospetto di quella domanda, io non sapevo dare una risposta. L’unica possibilità era stare davanti a lui, con le sue stesse domande. Aiutandoci a trovare una strada assieme.» (Ibid)

ANZIANA, INFERMIERA, ASSISTENZA

Luca Moglia | Flickr

Abbiamo bisogno di occhi che guardano così l’umano, è pura acqua di fonte in mezzo al deserto che avanza e miete vittime non solo coi nomi di DJ Fabo, Charlie, Alfie. Avevo tanta voglia di trovare una soluzione per aiutare in fretta mio padre, perché sono vittima dell’allucinazione da soluzioni che ci riempie la testa. E sempre più spesso la scelta è la cosiddetta «soluzione finale», tagliare i ponti, ridurre i costi, eliminare la fatica.

Leggendo queste pagine mi sono ritrovata a tu per tu con storie di straordinaria e ordinaria sofferenza così simile alla mia, alla tua, alle nostre. La sfida che mi hanno proposto queste voci è tosta, perché mi chiede di aprire le mie ferite per curare le ferite di un altro, mi chiede di stare appieno dentro un rapporto vivo e non di fronte a una diagnosi. La posta in gioco, però, è altissima in termini di dignità umana e non posso che lasciare a Fabio Cavallari la chiosa di questo viaggio tra le stanze dell’amore dolente:

«Vite indegne di essere vissute», «qualità della vita», appaiono solo invettive decontestualizzate, destrutturate del loro reale valore ontologico, senza qualcuno che le sappia declinare in realtà, trasformarle in verità concrete fatte di pane e ascolto, pulizia personale e affetto condiviso. […] Nell’incontro con l’altro, con il sofferente, a finire sconfitti sono i pregiudizi, le frasi fatte, le narrazioni sulla dolce morte.