Santa Teresa di Calcutta la considerò membro ad honorem del suo ordine, per l’FBI era una radicale pericolosa. Lei, abitando coi poveri, sperava di essere ricordata per il minestrone e non come santa
Cos’è l’uomo, dove sta andando, qual è il suo destino? È un mistero. Siamo figli di Dio ed è una cosa terribile cadere nelle mani del Dio vivente. (da Una lunga solitudine)
Per raccontare qualcosa di Dorothy Day bisogna partire nel modo meno comodo possibile, magari stando seduti su una sedia a cui manca una gamba. Non sentirsi a posto, ecco.
I giorni di ogni vita sono fatti di passi per nulla accompagnati da un ritmo costante, se c’è un’armonia la si deve far cantare a Chi ci guarda da lassù, il solo in grado di vedere un senso buono in tutte le nostre storture.
Dorothy Day è una «cantante stonata» di sé, ferita dalle grandi stonature del mondo: portò addosso il proprio male come una macchia su un abito bianco e lo incontrò a ogni angolo di strada in uno sbandato che bestemmiava o in una madre che elemosinava qualche dollaro.
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Perciò, dovendo cominciare a raccontare la propria storia nel libro Una lunga solitudine, la Day parte dalla confessione:
«Ho peccato, questi sono i miei peccati». Questo è quanto si deve dire; non i peccati altrui, o le proprie virtù, ma solo i propri brutti, scialbi, monotoni peccati.
Le grandi bandiere del pensiero dominante giudicherebbero virtù molti di quelli che lei col tempo chiamò peccati. Facilmente le etichette la infilerebbero nella casella delle femministe, liquidando con uno stereotipo una vita nient’affatto adatta a essere chiusa in una categoria sociale, psicologica, religiosa. Sì, lei fu tra le pioniere che si batterono per il diritto al voto delle donne.
Ma poi il cerchio si allargò in maniera radicale, la battaglia riguardò tutti gli esclusi, emarginati, inutili: dal grembo materno ai marciapiedi di strada.
Allora ripercorriamo gli eventi più significativi che hanno portato questa donna americana a un confronto serrato col mistero terribile del Dio vivente.
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Teniamo innanzitutto a mente la meta, l’ultimo tassello della sua vita terrena: sulla tomba di Dorothy Day a Staten Island è raffigurato un cesto di pane con dei pesci, il tutto è accompagnato dalla scritta «Deo gratias».
Di cosa deve ringraziare Dorothy? Di un cammino inesausto, tumultuoso, proteso a dare un nome buono a tutto ciò che è Altro, anche il proprio io.
Così lei stessa inquadrò la propria giovinezza:
Non sapevo in cosa credevo, benché volessi servire una causa. (da Una lunga solitudine)
Nasce nel 1897 a New York e conosce ben presto il volto meno presentabile dell’America, le grandi sacche di povertà come quella del quartiere di Chicago dove si trasferisce con la famiglia. Nell’infanzia porta in dote un afflato religioso sincero, «il cuore mi batteva forte quando sentivo nominare Dio. Credo che ogni anima tenda verso Dio» – scrive.
Eppure una forte passione sociale la porta ad allontanarsi dalla fede per abbracciare le idee comuniste; il lavoro di giornalista la catapulta nei i bassifondi di New York e vede con i suoi occhi la miseria e il degrado in cui vivono immigrati provenienti da ogni parte di Europa.
Ma scrivere non basta, a lei non basta:
Sono una giornalista, non una biografa, non una scrittrice di libri. Il continuo sforzo di scrivere, mettere nero su bianco per tante ore al giorno, è terribilmente penoso, quando creature umane hanno bisogno di me, quando c’è malattia, fame, dolore. Sento che non ho fatto niente di buono. Ma ho fatto quel che ho potuto. (da Una lunga solitudine)
Diventò perciò infermiera, spendendosi con generosità vicino ai letti dei malati più poveri. Sono anche anni di intensa militanza politica, conobbe il carcere e dentro questo tumulto di vita entrarono prorompenti gli amori e una gravidanza inattesa. È questo un momento cruciale, perché la Day scelse di abortire e soffrirà per tutta la vita la pena di questa decisione:
I miei passi erano malfermi. Il mio braccio sinistro si aggrappava forte alla ringhiera. Il mio braccio destro stringeva l’addome. Era un dolore lancinante. Camminai da sola per strada al buio. Era il settembre del 1919. Avevo 21 anni e avevo appena abortito il mio bambino.
Lionel, il mio ragazzo, mi aveva promesso di riportarmi a casa appena avessi fatto. Aspettai dolorante dalle 9 alle 10 di sera, invano. Quando arrivai a casa trovai solo un biglietto; mi diceva che era partito per un nuovo lavoro e che, riguardo al mio aborto, ero solo una di non so quanti milioni di donne che l’avevano fatto. Diceva anche «non nutrire false speranze, è meglio anzi se mi dimentichi». (da Catholic Education)
All’abbandono si aggiunge un altro abbandono: la scelta di non tenere il figlio si accompagnò alla fuga del fidanzato. Il buio chiama altro buio, eppure in questo spazio di dolore qualcuno è in cerca di lei. Quel Dio così tanto amato da piccola non molla la presa sulla signora Day, nonostante le sue cadute.
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Una nuova maternità diviene occasione per ricapitolare tutti i fili sparsi di un’anima che brucia di ardore per le ingiustizie e brama di aiutare gli ultimi.
L’impegno politico e sociale proseguì, finché Dorothy trovò un nuovo compagno; aveva vissuto con sofferenza il terrore di essere diventata sterile dopo l’aborto e perciò considerò un miracolo la notizia di una nuova gravidanza. Ma il suo fidanzato era Forster Batterham, un biologo anarchico che si opponeva al matrimonio e riteneva troppo crudele il periodo in cui vive per mettere al mondo dei figli. Questa volta lei scelse la vita, della figlia Tamar Teresa e di se stessa. La nascita della bambina fu tutt’uno con il compimento della conversione al cattolicesimo:
E così Tamar venne battezzata in Giugno. Quanto a me, pregavo per il dono della fede. Ero sicura, eppure non così sicura. Spostai la data della scelta. Diventare cattolica significava dire addio a un compagno che amavo tantissimo. Mi chiarii le idee ponendomi la domanda più semplice: scegliere Dio o un uomo?. Scelsi Dio e persi Forster. Fui battezzata il giorno della festa dei Santi Innocenti, il 28 Dicembra 1927. Era qualcosa che dovevo fare. Ero stanca di seguire i tumulti e i desideri del mio cuore, di fare sempre ciò che volevo o ciò che i desideri mi imponevano di fare, con l’impressione costante di finire fuori strada. Il costo di tutto ciò fu la perdita dell’uomo che amavo, ma guadagnai la salvezza di mia figlia e la mia. (da Catholic Education)
Tenendo fisso questo punto focale di discernimento si può guardare a tutto il resto, cioè all’opera che è nata dalle mani zelanti e dal cuore ardente di Dorothy Day: innanzitutto la fondazione, insieme a Peter Maurin, del mensile «The Catholic Worker» negli anni della Grande Depressione americana. La rivista si proponeva di affrontare i temi sociali alla luce del Vangelo; nella Chiesa cattolica Dorothy aveva trovato la Chiesa dei poveri e degli immigrati cioè lo sguardo più adeguato per accompagnare la sua visione politica locale e personale, lontana dalla burocrazia dello stato moderno.
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Dalla carta stampata nacque un’opera: furono fondate case di ospitalità nei quartieri poveri di New York e in tutto il resto del Paese. “In quelle comunità, all’esercizio delle opere di misericordia – dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini – si univano un forte impegno per la giustizia sociale e l’idea che fosse possibile costruire una società diversa, basata sui valori di generosità, compassione e solidarietà” (da Avvenire). Dorothy abitava in queste case, a tu per tu con gli ultimi; sperava di essere ricordata dai posteri per come faceva il minestrone e non come santa.
Quando, più tardi, ebbe modo di incontrare Santa Teresa di Calcutta, quest’ultima la considerò parte del suo ordine ad honorem. Invece, Edgar Hoover, direttore dell’FBI negli anni ‘50, inserì il nome di Dorothy Day in una lista di pericolosi radicali che sarebbero dovuti essere arrestati nel caso di un’emergenza nazionale.
Si diventa pericolosi quando, si sceglie di affidarsi alle mani del Dio vivente. Si diventa anche sfuggenti alle etichette, quando si abbraccia quel Bene incontenibile che tutto contiene, come recita il salmo dalla Day tanto amato: «Allarga il mio cuore, o Signore, che Tu possa entrarvi!».