C’è chi deride la fragilità altrui e chi può ridere di gioia perché amato in ogni fibra del suo essere
Aprendo la mia pagina Facebook, ieri, ho visto un post condiviso da una mia amica in cui una mamma di Bergamo chiedeva di diffondere la notizia di ciò che le era capitato. È una vicenda di quotidiana tristezza, amarezza; ma forse si può farne uno spunto propositivo, non solo limitandosi a sfoghi istintivi.
I fatti, innanzitutto.
Erika Defendi è mamma di un figlio diplegico di 15 anni; la deambulazione del ragazzo è quindi fortemente complicata. Sono usciti a piedi insieme a prendere un gelato, gesto di tenerissima evasione giornaliera. Abbiamo bisogno di questi piccoli momenti familiari tra noi, detto per inciso.
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A un semaforo rosso mamma e figlio vengono affiancati da un gruppo di giovanissime, impegnate in chiacchiere che le esaltano: discoteche, grandi disponibilità economiche da spendere in giro. Erika nota anche come sono vestite, e non è un dettaglio marginale o solo moralistico.
Le vediamo tutti queste ragazzine col corpo completamente esposto, pantaloncini ascellari e top che somigliano più che altro a reggiseni. Il corpo in mostra, in questa scena, ce l’ha anche il ragazzo accanto a loro … anche lui non può fare a meno di mostrare la sua unicità, forse non proprio adeguata ai canoni di esuberanza corporea che vanno di moda su Instagram.
Le sue difficoltà motorie si palesano quando scatta il verde e la camminata riprende. Le giovani, rimanendo alle spalle della coppia mamma e figlio, cominciano a bestemmiare e a mimare l’andatura difficoltosa del loro coetaneo sconosciuto. Come è lecito aspettarsi, Erika difende suo figlio e si rivolge alle ragazze accusando il loro gesto vigliacco. È suo figlio a rassicurarla e le dice: «Mamma, le persone così ignoranti vanno ignorate, io faccio così».
Qui la parola chiave è proprio «ignorare».
Voglio per un attimo capovolgere lo sguardo e rivolgermi alle ragazze in questione, senza cattiveria. Tutto ciò che hanno mostrato di sé, nei pochi minuti della loro comparsa, mostra una mancanza: ignorano la bellezza di sé. Hanno bisogno di ostentare un corpo, un’allegria ebbra di discoteche e soldi. Manifestano un vuoto di gioia.
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Perché deridere l’altro significa incapacità di ridere di sé. Ed è un aspetto cruciale per un giovane imparare quella forma di amore profondissimo che è la gioia di essere amato come creatura inevitabilmente imperfetta, e necessaria al mondo.
A loro, proprio a loro, è stato mandato un messaggio vivente per strada: un ragazzo diplegico che va a prendere un gelato con la mamma.
Era una mano tesa al loro evidente vuoto nel cuore, era una voce che diceva: «guarda la felicità com’è semplice! Non temere di essere chi sei, anche non adeguata ai canoni del mondo, c’è chi ti ama così unica». Hanno ignorato il messaggio. O forse – inconsapevolmente – lo hanno colto, ne sono state così ferite da volerlo sbeffeggiare.
La repulsione beffarda può suscitare una giusta indignazione, ma deve anche essere letta come una richiesta di aiuto di emergenza.
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Il soccorso più adeguato viene proprio da quel genere di gruppi umani che la società emargina, le istituzioni vessano di burocrazia, le ideologie presuntuose additano come «peso» per la comunità.
Una famiglia come quella di Erika, che porta in dote l’accoglienza della malattia come impegno quotidiano, è una delle risorse più grandi del nostro paese. Perché si fonda sull’autenticità della relazione umana, e non sul buonismo di facciata.
Siamo assetati di relazioni fondate sulla pietas, siamo assetati di una gioia che abbracci i nostri corpi tremanti e cuori ansiosi.
L’economia, ci dice l’etimologia della parola, parte dalla famiglia. Le relazioni domestiche, soprattutto se si aprono all’accoglienza della persona umana nelle sue mille forme di fragilità, sono il nostro petrolio nascosto, eppure alla luce del sole.
È perciò fonte di speranza quanto dichiarato di recente dal neo ministro della famiglia e disabilità, Lorenzo Fontana:
Viviamo in un mondo nel quale è diffuso il relativismo che vuole creare un uomo individualista, isolato, privo di legami, semplice produttore e consumatore. Un numero. La famiglia invece porta relazioni, educazione, senso di comunità, ma questo non conviene al sistema economico oggi predominante, che fa di tutto per diffondere una cultura ostile alle relazioni e alla vita.
[…]
Il grado di civiltà di una nazione si misura anche su quanto è in grado di aiutare chi è più in difficoltà e ai margini, come le famiglie con disabili, spesso ignorate, ma che sono formate da veri eroi dai quali dobbiamo prendere esempio, valorizzandoli. Non devono sentirsi più soli, se continuassimo ad abbandonarli tradiremmo le nostre radici. Si parla tanto di spread e niente di disabilità, ma è qui che dobbiamo spendere risorse. (da Avvenire)