Ci si trova talvolta a domandarsi quali siano le pene per cui si soffra maggiormente, nell’eterna dannazione: la domanda coinvolge quello che Paolo VI definì «un infelicissimo mistero, di cui sappiamo ben poco». Eppure qualcosa si può pure dire. Con moderazione e cautela, naturalmente.
Qualche giorno fa un amico mi ha mostrato via social un link riferito a un difficile tema teologico: si parlava del “tormento più grande che possa affliggere i dannati”. Non sto a riportarne il testo perché era privo di attribuzione e se anche, come riscontro a questa mia pagina, qualcuno sapesse indicarne l’autore, la cosa non sarebbe di alcuna utilità: «Tutto ciò che è vero, chiunque lo dica, viene dallo Spirito Santo». E ancora meno è utile attribuire a qualcuno le cose che per essere vere necessitano di qualche correzione.
Insomma, che diceva questo testo? Diceva in sintesi che la sofferenza più grande dei dannati consisterà nel comprendere perfettamente (e inutilmente, a quel punto) tutte le grazie sciupate in vita, e nel capire che Dio aveva sempre tentato di venire incontro a loro – come a tutti.
Era un pensiero profondo, come si vede, ma che non scendeva liscio nel mio spirito: qualcosa mancava, e in pochi istanti si sono sollevate dentro di me delle obiezioni.
Anzitutto, si capisce che la prima e la fondamentale delle pene infernali sia la sostanziale ed eterna separazione da Dio: dire però che il ricordo delle grazie sciupate costituirà la maggiore delle pene infernali mi sembra fare un’affermazione leggermente più enfatica di quanto la remota distanza di quel mistero di dolore estremo ci consenta.
Soprattutto, poi, strideva fortemente dentro di me l’idea che un dannato potesse concepire un pensiero buono e giusto verso Dio, come ad esempio il riconoscimento della sua volontà salvifica universale: «Questo – mi sono detto mentre lo dicevo al mio amico – è un tratto di psicologia purgatoriale, certo non infernale».
Soffrire da beati, soffrire da dannati
Che volevo dire? Che nella dottrina cattolica l’inferno è di fatto il più chioccio dei pensieri concepibili, che mette duramente alla prova la ragione e anche la più sfrenata immaginazione: esso è lo stato e il luogo in cui – ancora non è dato di sapere esattamente come – la creatura umana consuma il più intimo e completo fallimento personale.
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Ora, se da un lato è il cristianesimo ad aver offerto al pensiero occidentale il concetto di persona così come lo conosciamo, dall’altro è proprio su quel concetto che si appunta la stessa concezione dell’inferno. La persona è infatti classicamente pensata, da Severino Boezio in poi, come sostanza in relazione, e poiché l’inferno si descrive come il fallimento di quella particolare creatura che è la persona (angelica e umana), alcuni teologi (tra cui Joseph Ratzinger) si spinsero a dire che all’inferno la persona sopravvive nella forma della non-persona. Questo perché la Chiesa ha sempre respinto l’opinione teologica per cui la dannazione coinciderebbe con l’annichilimento della creatura: no, Dio non rinnega l’opera delle proprie mani, e come il paradiso è opera divina nella sua totalità, così l’inferno è opera delle creature ribelli in tutto (tranne che nella sola condizione di possibilità – la quale è la libertà delle stesse creature, che Dio s’impegna a non violare a costo di perderle). Ecco il motivo per cui Dante vede scritta sulla porta dell’inferno questa terribile terzina:
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina Potestate,
la somma Sapïenza e ’l primo Amore.If III, 4-6
Verbo al singolare, tre soggetti grammaticali che indicano rispettivamente le tre persone della Trinità: è l’amore di Dio la condizione di possibilità dell’inferno. Del quale pochissimo possiamo dire. Fondamentalmente queste tre cose:
- Esiste
- È eterno
- Investe tutta la persona
Questo intesero dire dunque i teologi come Ratzinger, che parlarono di “sussistenza dei dannati nella forma della non-persona”. Ogni relazione viene troncata, all’inferno, ogni legame viene negato, pur senza essere annullato – e in questo si trova fondata parte delle sofferenze dei dannati (che comunque la dottrina cattolica crede destinate a crescere immensamente dopo il giudizio universale, quando l’unità antropologica dei soggetti sarà ricostituita con la risurrezione dei corpi).
Ecco perché al mio amico dicevo: «Questo mi pare un tratto di psicologia purgatoriale, più che infernale». Il dannato può sì capire di aver perso definitivamente la possibilità di stare nella gloria dei santi, ma è così incallito nel proprio peccato da non poter neppure formulare il pensiero che ancora il Faraone d’Egitto, colpito dai flagelli di Dio, riusciva ad esprimere:
Il Signore Dio è giusto,
mentre io e il mio popolo siamo empi.Es 9, 27
D’altro canto, va pur detto che il dolore purgatoriale è sì vivissimo, tanto più quanto meno è approssimativa la consapevolezza del male compiuto o permesso (e della Grazia sciupata), ma mai si connota per una sfumatura di disperazione: in tal senso, quindi, l’affermazione contenuta nel testo mostratomi dal mio amico è ancora in ciò imprecisa. Il dolore che riconosce l’amore di Dio sciupato in vita è un dolore purgatoriale, sì, e tale sofferenza – la quale volge temporalmente verso un apice di contrizione perfetta che, per così dire, “cauterizza l’anima” preparandola all’incontro con Dio – è sempre animata da viva speranza. Ecco perché nel suo viaggio ultraterreno Dante si rivolge continuamente alle anime purganti con epiteti quali “anime beate”, “anime certe di veder l’alto lume” e via dicendo.
Anime dannate e purganti nella Commedia
Visto che ho citato Dante, vorrei ora richiamare brevemente qualche figura del Poema dantesco che possa illustrare la distinzione or ora espressa. Prima però mi preme una duplice disambiguazione: visto che i lettori sono forse abituati a trovare tra i miei riferimenti preferiti più i Padri della Chiesa che i testi del secondo millennio, tengo a ricordare che la dottrina del purgatorio andava precisandosi e definendosi proprio negli anni della vita e dell’opera di Dante (e in quelli appena anteriori); ciò non significa, come talvolta ci tocca leggere, che il purgatorio fu “inventato da Bonifacio VIII per rimpinguare le casse del Vaticano”. Intanto mai nessuno di codesti fantasticatori ha mai spiegato come mai Dante celebrerebbe l’“invenzione” di un tanto acre nemico… ma soprattutto Bonifacio VIII non era Papa all’epoca del Concilio lionese II, dove appunto si muovevano i primi passi della definizione magisteriale del purgatorio.
In realtà, la dottrina cattolica sul purgatorio è tanto raffinata (e per contro viene volgarizzata tanto dozzinalmente) che oltre sette secoli dopo la sua definizione ci capita ancora di soffrire versi come:
Dicono che il Cielo ti fa stare in riga,
che all’Inferno si può far casino
mentre il Purgatorio te lo devi proprio infliggere.Luciano Ligabue, Happy Hour
Per ora ci dobbiamo infliggere i versi infelici di cantautori che straparlano di cose più grandi di loro: da questi però facciamo bene a raccogliere la temperatura dell’opinio communis. Vuoi la stampa, vuoi il cinema, vuoi le canzoni, vuoi la critica gramsciana, è per qualche motivo passata l’idea che l’inferno sia un gigantesco rave party pieno di gente interessante, laddove il paradiso sarebbe tuttalpiù un interminabile girotondo di parrucconi barbosi attorno a un lampadario accecante. Le cose stanno precisamente al contrario, e una delle distinzioni più forti tra inferno e purgatorio sta nel fatto che i dannati non possono neppure gioire della compagnia gli uni degli altri, mentre i purganti sì, anzi gioiscono intensamente di tutta la comunione ecclesiale (con la “Chiesa militante” e con quella “gloriosa”).
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Ma vediamo qualche testo che ci illustri queste differenze. Francesca da Rimini è senza dubbio una delle figure più celebri della Commedia: vuoi per l’erotismo, vuoi per il sentimento tragico, vuoi per la grande lezione che Dante stesso trae da quell’incontro (non ogni “desiderio” orienta al Cielo)… Gabriele d’Annunzio dedicò a lei una sua tragedia, mica a Casella o a Pia de’ Tolomei. Insomma dice Francesca da Rimini, condannata ad essere sballottata per l’eternità da una bufera infernale come in vita si fece trascinare dalle basse voglie contro le ragioni dell’intelletto:
O animal grazïoso e benigno,
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,se fosse amico il re dell’universo
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi ch’hai pietà del nostro mal perverso.[…]
If V, 88-93
Spesso anche Roberto Benigni ha commentato questi se versi dicendo: «Accidenti, se questa è una dannata io dove vado a finire?». E così sembrerebbe, a una prima lettura: eppure a ben leggere si nota nelle parole di Francesca un (neanche troppo velato) rimprovero a Dio, accusato nientemeno che di essere loro nemico. Don Paolo Pecoraro, eccelso dantista, chiosava divertito che si può scorgere una nota di manipolazione tipicamente femminea, nell’elegante perifrasi della dannata. Ma Dio non è nemico dei dannati: l’inferno stesso nasce per una secessione unilaterale di Satana e dei suoi angeli, i quali trascinano «un terzo delle stelle del cielo» (Apoc 12) in una guerra folle contro un avversario invincibile. I nemici sono loro, e già il buio del primo cerchio – i lussuriosi sono posti da Dante appena a ridosso della soglia dell’Inferno vero e proprio – è sufficiente a mistificare questa semplice realtà: Dio non è nemico di alcuno, e ci si danna precisamente per avergli fatto la guerra.
In nessuna figura questo è più evidente che in Vanni Fucci: il vile e feroce ladro, passato alla storia con l’affettuoso epiteto di “la bestia”, è difatti l’unico tra i dannati che osa nominare Dio senza perifrasi (ovviamente lo fa per scagliare un’orribile bestemmia gestuale, poiché a Dio “mostra le fiche” – qualcosa di analogo al nostro “dito medio”):
Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!»[…]
El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?».If XXV, 1-3.16-18
Lo sdegno dei dannati più eccellenti di fronte alla punizione infernale risplende sinistramente in Cavalcante de’ Cavalcanti, che Dante vede ergersi da uno dei sepolcri di Dite «come avesse l’Inferno a gran dispitto» (If X, 36) ma pure nell’astuto e fedifrago Ulisse troviamo una sinuosa e blanda allusione a un preteso “accanimento divino” contro i dannati:
[…] de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque.If XXVI, 139-141
A Dio, che «tutto ha creato per l’esistenza» (Sap 1, 14) “non piace” mandare la gente all’inferno. Eppure nel suo accettare che le creature possano separarsi da lui fino al punto di preferire «regnare all’inferno piuttosto che servire in paradiso» (così il diavolo del Lost paradise di Milton: la realtà è che all’inferno sono tutti servi mentre in paradiso tutti regnano) si magnifica quella prerogativa divina che è la giustizia e che neppure alla misericordia è seconda.
Se da Minosse a Lucifero, passando per tutti i dannati, la psicologia infernale è dunque contrassegnata da un ostinato fissismo – anche Francesca, quantunque venga sballottata, non va da alcuna parte e mai progredisce dal vizio che l’ha dannata; e lo stesso si può dire dei “dannati corridori” come Brunetto Latini –, la psicologia purgatoriale è caratterizzata proprio dal “volgersi”, cioè dal rompere il circolo del vizio per lasciare che in esso s’immetta la Grazia salvifica che è l’onnipotente volontà di Dio. Lo richiamiamo appena con due celeberrimi esempi, lasciando a ogni lettore l’invito a tornare sulle pagine altissime del Purgatorio: Manfredi al III canto e Bonconte da Montefeltro al V esemplificano magnificamente quella dinamica virtuosa del “volgersi” che spezza la schiavitù della colpa e avvia l’uomo – anche in extremis – a godere della visione beatifica.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volentier perdona.Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia
che prende ciò che si rivolge a lei.Pg III, 112-123
E similmente, più avanti, Bonconte (che lamenta l’incuria dei propri discendenti per la sua salvezza…):
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: «O tu del ciel, perché mi privi?Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ’l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!».[…]
Pg V, 97-108
Le volontà dei dannati nell’ultimo Tommaso
Ora, però, qualcuno potrà storcere il naso di fronte a Dante, affermando che in nulla la Commedia possa additarsi come luogo teologico. È vero, il Poeta non è un dottore della Chiesa (a mio avviso questo titolo omesso va a disdoro della Chiesa, più che di Dante, ma passiamo oltre…), Tommaso d’Aquino, però, sì. Quanto alla dottrina sul Purgatorio, Tommaso vede impreziosirsi il proprio consueto genio per via di due circostanze accidentali:
La prima è che il Doctor Angelicus, appena cinquantenne, morì mentre si recava al Lionese II ma non potè prendervi parte; dunque la sua dottrina (a differenza di quella di Dante) non è influenzata dal Concilio, bensì la influenza.
La seconda è che le quæstiones di Tommaso relative ai novissima sono raccolte nel cosiddetto “supplementum” della Summa Theologiæ, ovvero sono quei materiali a cui l’Angelico non riuscì a dare forma compiuta prima di morire, e che sono pervenuti a noi nella forma attuale mediante la collazione del segretario Reginaldo.
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Tale seconda circostanza, in particolare, è suggestiva e utile nella nostra materia perché ci permette di prendere con le pinze anche le vertiginose sintesi di Tommaso – anzi, ci obbliga! –: nessun teologo può pretendere di dire molte parole definitive (a parte le poche che sono fondamentali) sull’Inferno e sul Paradiso – figuriamoci poi sul Purgatorio, che a differenza degli altri due neppure fa parte, in senso stretto, dei “novissimi”!
Scrive dunque “Tommaso”, all’inizio della novantottesima quæstio del supplementum, quella dedicata a “la volontà e l’intelletto dei dannati”. Bisogna discutere nove cose:
- se la volontà dei dannati sia cattiva;
- se di tanto in tanto i dannati si pentano del male che hanno fatto;
- se non preferirebbero smettere di esistere del tutto;
- se i dannati desiderino che altri non si dannino;
- se gli empi abbiano in odio Dio;
- se gli stessi possano meritare altre pene;
- se possano usufruire delle nozioni apprese prima della morte;
- se di tanto in tanto pensino a Dio;
- se vedano la gloria dei beati.
Così procede il metodo tomistico: di ogni questione individua anzitutto, dialetticamente e in base alle categorie aristoteliche, un elenco di “articoli”, preparandosi poi a passarli singolarmente in rassegna, evidenziando i pro e i contro di ciascuna tesi e armonizzando il tutto alla luce dei principî d’identità, di non contraddizione e del terzo escluso (una lezione inesausta per chiunque voglia imparare a pensare). Come si capisce, non potremo riportare qui l’intero contenuto della quæstio: bisognerà che ci accontentiamo di una spizzicata.
Quanto al primo articolo, quindi, un rapido spoiler: sì, la volontà dei dannati è malvagia, sempre e in tutto (chi voglia sapere di più vada a leggere la Summa). Meno immediato è l’articolo secondo, a cui “Tommaso” risponde così:
Ci sono due modi di pentirsi di qualcosa: il primo è per sé, l’altro è in modo accidentale. Ci si pente del peccato in sé e per sé quando si ripudia il peccato per il fatto che è peccato. Ci si pente in modo accidentale per il fatto che si giunge ad odiarlo in ragione di aspetti collaterali, come ad esempio le conseguenze dolorose o cose simili. I malvagi, quindi, non si pentiranno dei peccati in sé e per sé, perché la volontà delle cose cattive permane in loro. Si pentiranno però in modo accidentale, cioè in quanto vengono afflitti da pene che derivano loro dal peccato.
Una risposta simile viene data anche all’articolo terzo, sul quale pure non indugiamo, nel quale però si legge che i dannati potranno desiderare (invano) di essere annichiliti, e non perché la ragione possa desiderare il proprio annientamento, quanto per l’enormità delle sofferenze eterne che dovranno sostenere.
E poi: i dannati possono desiderare per gli altri la salvezza?
Così come tra i beati nella patria celeste ci sarà carità perfettissima, così tra i dannati regnerà perfettissimo odio. E così, come i santi godranno di tutti quanti sono buoni, così i malvagi si dorranno dei buoni. Ragion per cui anche la considerazione della felicità dei santi li affliggerà moltissimo. […] E quindi desidereranno che tutti i beati siano dannati.
Ma com’è possibile che delle creature possano giungere a fissarsi nell’odio di Dio, che è bene supremo e destino di ogni persona? Risponde così “Tommaso”:
Dio può essere conosciuto in due modi: per sé o per altro. In sé e per sé lo conoscono i beati: i dannati e noi lo conosciamo per altro. In sé stesso Dio, che è bontà essenziale, non può dispiacere ad alcuna volontà: così chiunque lo veda nella sua essenza non può odiarlo. Alcuni degli effetti però possono ripugnare alla volontà, perché magari contrastano qualche voglia. E per questo, dunque non in sé e per sé ma in ragione degli effetti, uno può giungere a odiare Dio. E quindi i dannati, che percepiscono Dio in quell’effetto della sua giustizia che è la pena infernale, odiano Dio così come odiano le pene cui sono destinati.
Una sorpresa si ha, leggendo il Supplementum, allo scoprire che i dannati non possono accumulare demeriti – non più di quanto i santi possano accumulare meriti: ogni virtù, in Paradiso, è premio e non merito; ogni vizio, all’inferno, è pena e non demerito. Anche in questo bisogna notare una radicale differenza tra il paradiso, dove si viene trasfigurati «di gloria in gloria» (perché il premio, che è Dio, è infinito) e l’inferno, che è destinato a un’eternità statica per il suo essersi fissato su una creazione disabitata da Dio (cisarà quindi un dolore eterno, ma che dopo il giorno del giudizio non crescerà più neanche in intensità, sarà sempre uguale a sé stesso).
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Ma veniamo agli ultimi tre articoli, che più da vicino interessano la nostra domanda iniziale:
Così come nella beatitudine dei santi – spiega “Tommaso” – non c’è nulla in loro che non diventi materia di gioia, così fra i dannati nulla sussiste senza che sia funzionale alla loro tristezza, come materia e come causa. E niente mancherà loro che possa essere ordinato ad accrescere e portare al parossismo la loro tristezza. Dunque la considerazione di alcune cose note può portare alla gioia per alcune cose […] e può pure essere motivo di tristezza […] . E dunque nei dannati ci sarà il pensiero fisso delle cose che sono causa di tristezza e non di quelle che dànno gioia. Penseranno quindi i mali che hanno fatto e per cui sono dannati e i beni che hanno amato e perduto irrimediabilmente – da entrambe le cose saranno tormentati. Allo stesso modo, saranno tormentati pure dal sapere che la loro nozione delle cose teoretiche è imperfetta e che mai quel desiderio innato sarà colmato.
Va bene, ma i dannati penseranno a Dio?
A questa domanda “Tommaso” aveva già risposto, sostanzialmente, quando aveva precisato che ai dannati è impossibile qualunque altra conoscenza di Dio che non sia quella mediata dalle pene che per la sua eterna giustizia subiscono, e in tal senso lo stesso pensiero di Dio diventa per costoro fonte di tristezza. Quanto al resto, invece, cioè in sé e per sé, Dio non sarà mai oggetto di pensiero da parte di un dannato – e si spiega come mai è impossibile che da parte sua sia concepito un pensiero giusto su Dio.
E in ultimo cosa dice “Tommaso”? I dannati vedono la gloria dei beati? Leggiamo:
Prima del giorno del giudizio i dannati vedranno i beati nella gloria, non nel senso che possano conoscere la natura di quella gloria: sanno solo che sono in una gloria inestimabile. Per questa conoscenza saranno molto scossi: un po’ per invidia, dolendosi della loro felicità; un po’ per il fatto di aver perso quella tale gloria. Per questo nel libro della Sapienza (5) sta scritto: «Vedendo saranno turbati di orribile timore». Ma dopo il giorno del giudizio i dannati saranno privati per sempre della visione dei beati, e non per questo (tuttavia) la loro pena diminuirà, bensì sarà accresciuta, perché avranno la memoria della gloria dei beati, che nel giorno del giudizio (e anche prima) avranno visto: e questo li tormenterà. Ma soffriranno ancora di più per il vedersi stimati indegni anche solo di vedere la gloria che i santi avranno meritato di avere.