Dalla cura di sé al non sentirsi i numeri uno al mondo. Così un prete affronta meglio le difficoltà del suo ministero
Aiutare i sacerdoti a crescere giorno per giorno. Fare in modo che la loro missione sacerdotale sia brillante e serena. A volte capita invece che un prete possa cadere in alcuni tranelli e non lavorare più con la dovuta tranquillità.
In questo contributo inviato ad Aleteia, Don Francesco Cosentino, docente di teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana e Officiale della Congregazione per il Clero, offre cinque utili consigli ai sacerdoti per essere dei sacerdoti migliori.
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Sono tante le domande, le provocazioni e le riflessioni che riguardano l’identità e il ministero del prete. La lente di ingrandimento e le indagini alla Sherlock Holmes a cui è sottoposto da tempo il prete sono degne di una fiction. Eppure, senza voler sminuire le problematiche della vita e del ministero dei Sacerdoti, vi sono alcuni dettagli, dei cambiamenti a cui siamo chiamati e delle visioni personali ed ecclesiali che, prese seriamente in considerazione, potrebbero almeno indicare una qualche via d’uscita dalla crisi.
Alcuni accorgimenti – alcuni semplici, altri che richiedono forse una certa disponibilità a cambiare mentalità – possono ritornare utili.
1. Non sei più “un prete di una volta”: c’è una nostalgia che rischia di imprigionare e di farci restare “fissati” su una fotografia, un modello, uno schema del passato, che oggi non esiste più. Diceva il grande John Henri Newman, “vivere è cambiare”. Ora, a meno che tu non voglia essere un vecchio disco rotto o una specie di statua da museo, devi accettare il cambiamento. Non solo quello della vita che scorre in te, ma anche quello della società, della storia, della cultura e della Chiesa. Si, anche la Chiesa è cambiata e sarebbe lungo parlarne.
Per alcuni, la Chiesa di ieri era sbagliata e oggi finalmente va tutto bene; per altri, oggi stiamo rovinando il poco che è rimasto, mentre la Chiesa di ieri era quella veramente fedele. Tra chi vive rivolto all’indietro e chi fugge troppo in avanti, la strada giusta è accogliere e vivere il presente, cioè prendere atto che la storia cammina, la cultura cambia, la Chiesa si trasforma, la dottrina si sviluppa. E, se vuoi restare vivo ed essere un uomo di questo tempo, devi accettarlo. Non adeguarti, ma neanche rifiutarlo. E’ inutile pensare di poter essere come “un prete di una volta”. Nel modo di pensare, di fare, di parlare e perfino di vestire, tu sei diverso. E sei prete dentro un modello di Chiesa diverso. Non essere triste se, in quanto prete, non sei più al centro o sul piedistallo dell’autorità, e se non ti baciano più la mano. C’è più Vangelo nel servizio umile, discreto e faticoso che in tanta vanagloria.
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2. Non aver paura di cambiare: Se tutto intorno a te è cambiato, vuoi davvero fermare il tempo? Sei così sicuro che “si stava meglio prima”? L’attuale crisi del cristianesimo occidentale, insieme alle molteplici problematiche che interessano la vita della Chiesa, sono fermenti positivi. Dicono anzitutto che la Chiesa è un organismo vivente e che la fede progredisce verso il Regno di Dio, lasciando cadere alcune cose e, forse, scoprendone altre. Se ci alleggeriamo e iniziamo a pensare che una situazione diversa da quella del passato, e magari non tanto rosea, possa rappresentare un’occasione o una possibilità, allora si sviluppa in noi la bellissima arte della creatività.
Un coraggio inatteso fiorisce in noi e iniziamo a osare percorsi umani, spirituali e pastorali nuovi. Finalmente, ci liberiamo dalla paura più grande che abbiamo: cambiare. Cioè, la paura di lasciare quel modello “sicuro”, a cui si è stati formati e ci si è abituati. Nella paralisi, ci si dimentica che l’identità del prete è in cammino, è aperta, è in continua evoluzione. Non c’è un prete “valido una volta per tutte”, ma un ministro chiamato nella storia concreta, fatta di volti da incontrare, di gioie da condividere e accompagnare e di lacrime da asciugare. Non con il piglio del capo, ma con il passo del compagno di viaggio.
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3. Accettare di non essere un super-eroe: Questo cambiamento richiede maggiore flessibilità e, probabilmente, una nuova riorganizzazione pastorale ed ecclesiale. Sono importanti le sfide – ha detto Papa Francesco ai preti di Milano – perché “ci fanno crescere. Sono segno di una fede viva, di una comunità viva che cerca il suo Signore e tiene gli occhi e il cuore aperti. Dobbiamo piuttosto temere una fede senza sfide, una fede che si ritiene completa, tutta completa: non ho bisogno di altre cose, tutto fatto. Questa fede è tanto annacquata che non serve”.
Oggi abbiamo di certo tante sfide: i cambiamenti socio-culturali degli ultimi decenni, il mondo diventato plurale e multietnico, la crescente disaffezione nei confronti della fede cristiana, le difficoltà dell’annuncio, il calo delle vocazioni; e, tutto ciò, mentre le forme tradizionali della fede sovraccaricano di lavoro i preti che, peraltro, diventano sempre più vecchi. Perché abbiamo ancora paura di cambiare? Potremmo iniziare a vedere la Chiesa, la conduzione della parrocchia, l’esercizio dei ministeri e della pastorale non più come una macchina di cui siamo unici conducenti al volante; a sperimentare strade nuove, formando un laicato adulto e maturo; ma, soprattutto, possiamo smettere di pensare che siamo chiamati a fare tutto noi e che senza di noi le cose non vanno avanti: “Dio esiste e non sei tu, rilassati”, diceva qualcuno. Non sei un super-eroe, sei un uomo. Povero. A volte stanco. Altre volte arrabbiato. Per fortuna, direi, sei umano anche tu.
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4. Non sentirsi salvatori del mondo: se inizi a pensare che non sei Dio e non devi fare tutto (e sempre bene), le cose cambiano. Certo, c’è una mannaia che colpisce l’inconscio dei preti da cui è difficile liberarsi ed è il trovarsi sempre sotto il giudizio della gente. Ma, forse, una delle più grandi conquiste spirituali per la vita sacerdotale è raggiungere quel grado di “santa indifferenza”, che mentre non diminuisce la tua passione nel dare, ti libera dalle aspettative degli altri. Ci sarà sempre qualcuno, nel mondo, a cui non piacerai. E ci sarà sempre un parrocchiano che avrà qualcosa da ridire su di te.
Fattene una ragione e, se puoi, sorridici sopra. Dopo di che, inizierai a non sentirti il “salvatore del mondo” e a scoprire che è già venuto sulla terra e si chiama Gesù! Riconciliarsi con questo aspetto, accoglierlo e farselo amico nella vita sacerdotale potrebbe essere un antidoto nei momenti di difficoltà, ma anche un punto di forza della nostra gioia. Troppi piccoli o grandi momenti di crisi, nella tua vita di prete, dipendono forse dal fatto che hai messo sotto pressione te stesso. Se sopravvaluti te stesso o rivolgi verso di te richieste eccessive, il rischio della frustrazione, della depressione e spesso perfino della malattia fisica è alle porte.
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5. Aver cura di sé: non cadere nel tranello. Spesso – lo avrai sentito dire – alla spiritualità cristiana hanno abbinato un senso di sacrificio e di rinuncia che non gli appartiene. La donazione gratuita e l’offerta della propria vita per la causa del Vangelo implicano un superamento del narcisismo e dell’egocentrismo, ma non impongono la trascuratezza o la negazione dei propri bisogni elementari. E’ spiritualmente sano chi “mette ordine nella propria vita”, non solo nei pensieri e nelle emozioni, nei desideri e nelle azioni, ma anche nel quotidiano.
Da come tieni la tua casa, da come mangi, da come dormi, da come usi il tempo, si capisce bene chi sei. Abbi cura di te. Spenditi per il popolo di Dio e consacra la tua vita al Vangelo senza darti pace finché la sua consolazione non raggiunge tutti; ma permetti che questa tenera gioia possa raggiungere e guarire anche te. Vivi l’amicizia e la fraternità. Prenditi i tuoi spazi e abbi cura del tuo riposo. Non tenere tutto dentro: le gioie come le amarezze vanno condivise. In una parola, non dimenticare di trattare con dolcezza la tua umanità. La rigidità non paga e ci fa ammalare. E quando la adottiamo con gli altri, smettiamo di annunciare Gesù. Che poi, è l’unico motivo per cui siamo diventati preti!
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