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Susanna Tamaro contro l’utero in affitto: «è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità»

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Silvia Lucchetti - Aleteia Italia - pubblicato il 24/03/17
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L’intervento della scrittrice pronunciato ieri durante l’incontro «Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata, una sfida mondiale» tenuto alla CameraSi è svolto ieri a Roma un incontro internazionale dal titolo «Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata, una sfida mondiale» con l’obiettivo di chiedere all’Onu la messa al bando universale della pratica della gestazione per altri, o più chiaramente chiamata, utero in affitto. A un anno dal convegno tenuto al Parlamento francese dal Collettivo femminista Corp, ieri a Montecitorio ha avuto luogo un nuovo convegno promosso dall’associazione femminista «Se non ora quando-Libere».


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L’evento ha rappresentato un importante occasione di confronto per discutere della maternità surrogata e per formalizzare la richiesta alle Nazioni Unite di considerare l’utero in affitto una pratica lesiva dei diritti umani delle donne e dei bambini. La battaglia contro la maternità surrogata vede coinvolta anche la scrittrice e blogger femminista Marina Terragni fondatrice di Rua (Rete contro l’utero in affitto), che ha ricevuto un blocco da parte di Facebook di 72 ore a causa di una segnalazione per un suo vecchio post considerato “omofobo”: è la stessa blogger a raccontare la vicenda “particolarmente grave perché mi impedirà di offrire un report del convegno di Se Non Ora Quando-Libere sull’utero in affitto”.

Oggi chi si oppone all’utero in affitto, pratica vietata e severamente punita in Italia, va spesso incontro a pesanti critiche da parte del mondo dei media e dei Social. Come non pensare agli insulti subiti da Costanza Miriano e Mario Adinolfi, in numerose trasmissioni televisive e radiofoniche, oltre che nei lori profili social?


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Ieri alla Camera sono state molte le presenze e altrettanti gli interventi che si sono susseguiti per opporsi alla gestazione per altri, ma credo valga davvero la pena leggere e riflettere il discorso pronunciato dalla scrittrice Susanna Tamaro, che con il suo stile avvincente e franco inizia la sua trattazione dalla storia di Il’ja Ivanovic Ivanov, il padre universalmente riconosciuto della fecondazione artificiale, per parlare di maternità surrogata.

«La gestazione per altri è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, uno schiavismo in cui il volto della iena è nascosto dietro il sorriso del benefattore, uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola ‘amore’. Un amore che non si riferisce in alcun modo al bene di chi nasce ma soltanto ai desideri dei singoli individui».

Abbiamo l’onore, concessoci direttamente dall’autrice, di poter riprodurre l’intervento integrale sperando che potrà aiutare molti a comprendere le logiche infernali sottese ad una simile pratica:

«L’idea che il fine di ogni vita sia la felicità e che tutto sia giustificato in nome dell’amore è una delle perversioni del pensiero post moderno, oltre che uno dei chiari sintomi della condizione più che crepuscolare del mondo occidentale».


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Qui di seguito si riporta il testo completo della scrittrice:

Ogni cosa nel mondo ha il suo opposto. Il nord e il sud. L’alto e il basso. Il freddo e il caldo. Il maschio e la femmina. La luce e il buio. Il bene e il male. Ma allora, se davvero è così, perché è possibile dire ti uccido e non è possibile dire: “Ti restituisco la vita?”. (S. Tamaro. Per sempre)

Il’ja Ivanovic Ivanov iniziò la sua carriera scientifica come fisiologo nella squadra di Ivan Petrovic Pavlov, il geniale – si fa per dire – scopritore della salivazione dei cani collegata allo stimolo del cibo. Da lì, Ivanov passò poi alle stalle dei Romanov con l’incarico di selezionare destrieri di qualità per la famiglia imperiale. Per portare a termine il suo compito, assorbiva con delle spugne lo sperma degli stalloni che poi inseriva – attraverso delle lunghe cannule di gomma – nella vagina delle giumente. La Rivoluzione di Ottobre lo privò del suo impiego – non c’erano ormai più le stalle e neppure i Romanov – ma non della sua ambizione e della sua sete di sapere, e di potere. Lavorando con gli stalloni e le cavalle, infatti, Ivanov era riuscito a intravedere, con raro spirito profetico, le grandi potenzialità e le relative possibili applicazioni di questo nuovo campo di sperimentazione.

Fu proprio il nuovo ordine politico sociale a dare l’abbrivio al suo rivoluzionario progetto. Grazie alla sua abilità avrebbe potuto confermare in modo assolutamente definitivo le teorie darwiniane dell’evoluzione. Quale gloria più grande ci sarebbe potuta essere per il trionfo del marxismo leninismo?

Ivanov iniziò così a cercare denaro pubblico per realizzare il suo esperimento, ma tutte le porte rimasero chiuse. Non si scoraggiò. Sapeva che le grandi idee richiedevano qualcuno abbastanza grande per capirlo e le menti grandi non si trovavano dietro ogni angolo, ma esistevano, bastava avere pazienza, non mollare mai.

Ed infatti, finalmente – nel 1925 – una porta si aprì, anzi, si spalancò. L’Accademia delle Scienze dell’Urss concesse al fisiologo un cospicuo finanziamento per portare avanti il suo ambizioso progetto. Fu così che la grande macchina capace di produrre lo Scimpauomo si mise in moto. Gli animali, confermava Pavolv, non erano altro che macchine, e gli uomini erano soltanto macchine più complesse. E come macchine, andavano trattate.

Nella sua vita precedente, per divertire lo Zar e la corte, Ivanov aveva già creato diversi ibridi. Conigli e porcellini d’india, zebre e asini, mucche e antilopi. Specie affini, infatti, possono incrociarsi: i cani con i lupi, le orche con i delifini, le tigri con i leoni. In laboratorio, gli spermatozoi umani non hanno alcun problema a penetrare nello stato esterno di un ovocita di primate. Creare lo Scimpauomo, insomma, non sarebbe dovuto essere poi particolarmente arduo. Nel 1926 Ivanov era già in Guinea, pronto a cominciare il suo esperimento. Fece catturare settecento giovani femmine di scimpanzé, le chiuse in anguste gabbie, controllando ossessivamente le loro zone intime in attesa del segno del menarca.

Proprio nel giorno di San Valentino – ironia della sorte – due femmine finalmente ebbero il ciclo. Il grande momento era arrivato. Armati di pistola per difendersi da improvvisi attacchi, Ivanov e il figlio legarono quelle disgraziate creature e le violentarono con le loro siringhe. Le piccole scimpanzé però resistettero in ogni modo, urlarono, tentarono di divincolarsi, di graffiare, impedendo di fatto allo sperma di Ivanov di arrivare a destinazione. L’esperimento dunque fallì. Durante quell’inverno la maggior parte delle prigioniere morì di dissenteria e di altre malattie e così Ivanov dovette arrendersi, tornando a casa, come si dice, con le pive nel sacco.

Pur nella delusione, però, il fisiologo non si perse d’animo. La strada era ormai tracciata, non gli restava che trovare un altro modo per far nascere lo Scimpauomo. Cercò allora altri finanziamenti e, grazie anche alla generosità dei sostenitori dell’Associazione Americana per la Diffusione dell’Ateismo, fondò un centro di detenzione per primati sul Mar Nero, dove il clima era più mite, passando cosi alla fase due del progetto. Come aveva fatto a non pensarci prima? Perché mantenere quelle centinaia e centinaia di scimmie urlanti quando, invertendo l’ordine degli addendi, tutto poteva diventare economicamente più semplice? Sarebbe bastata una sola scimmia maschio, infatti, per ingravidare centinaia di donne.

Partì allora per il Congo dove aveva già avuto contatti con un medico delle colonie. Avrebbero utilizzato delle povere pazienti ignare. Quando ormai tutto era pronto per il gran passo, il governatore locale però, colto da un improvviso scrupolo di coscienza, bloccò tutto. Non poteva permettere che un ospedale pubblico fosse coinvolto in un esperimento del genere. Ivanov tentò allora a cercare inutilmente delle volontarie tra la popolazione locale.

Sconfitto per la seconda volta, tornò nella stazione sul Mar Nero dove, intanto, quasi tutte gli scimpanzè maschio erano morti di freddo. Non rimaneva che mettersi alla ricerca di una femmina caucasica che, per amore del marxismo leninismo, offrisse volontariamente il suo corpo per ospitare il primo Scimpauomo del mondo. Impresa non facile ma che alla fine fu coronata dal successo. Non si conosce il nome esteso della volontaria, soltanto l’iniziale, G., ma ci è stata tramandata la lettera che scrisse per candidarsi. “Egregio professore, scriveva, la mia vita è a pezzi e non vedo alcun motivo per continuare a vivere… Ma nel pensare di rendere un servigio alla scienza, raccolgo il coraggio sufficiente per rivolgermi a lei. La prego, non mi respinga!” Naturalmente Ivanov non la respinse. Sfortuna volle però che, proprio mentre la prescelta signorina G. stava raggiungendo la stazione zoologica sul Mar Nero per offrire il suo corpo alla scienza, l’unico sopravvissuto del branco – Tarzan, un orangutang di 26 anni – morisse per un’improvvisa emorragia cerebrale.

Ma neppure allora l’instancabile fisiologo si arrese. Era ormai a un passo dal coronamento del sogno di una vita. Sarebbe bastato procurarsi appena possibile un nuovo maschio di orango o di scimpanzé. Prima però che il nuovo esemplare arrivasse al suo laboratorio, bussò a quella stessa porta il KGB e lo arrestò con l’accusa di attività contro rivoluzionaria, deportandolo in un gulag in Kazakistan. Sembra che Stalin avesse perso la pazienza. Confinato nel gelo della steppa, l’ormai non più giovane Ivanov soffrì le stesse pene di assideramento e costrizione che aveva imposto a migliaia di scimmie innocenti e, per ironia della sorte, morì fulminato da un’emorragia cerebrale pochi giorni prima di venire scagionato dall’accusa, proprio come il povero Tarzan, che aveva lasciato questo mondo il giorno prima di finire per sempre nei libri di storia.

Sic transit gloria mundi. Evolutivamente parlando, farsi sponsorizzare dai dittatori non è mai una buona idea.

Perché vi ho raccontato questa storia che oscilla tra il ridicolo, l’agghiacciante e il criminale? Perché Il’ja Ivanovic Ivanov è il padre universalmente riconosciuto della fecondazione artificiale, cioè è stato il primo a trattare gli esseri viventi di genere femminile come fisiologiche macchine da riproduzione. Se siamo qui a parlare di uteri in affitto lo dobbiamo a lui, alla sua abilità, al delirio perverso dei suoi sogni. È lui ad avere aperto la strada a tutto ciò che è venuto dopo. E se pensate che questo allucinante programma – lo Scimpauomo partorito da una donna – si sia eclissato assieme al grande regime totalitario, vi sbagliate. Non più tardi di vent’anni fa, nel 1997, un biologo americano ha fatto domanda di poter concepire in vitro un embrione di Scimpauomo per poi impiantarlo nel ventre di una madre surrogata. Naturalmente prometteva di non far giungere al termine la gravidanza perché quello che stava davvero a cuore al novello Ivanov non era tanto il parto dello scimpanzé umano quanto piuttosto quello di accaparrarsi prima di altri un brevetto che, nel tempo, avrebbe potuto dimostrarsi estremamente lucroso. Trasformare le donne in portatrici sane di scimmie è un sogno dunque che non abbandona mai il perverso pensiero degli uomini privi di un cielo interiore.


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La gestazione per altri è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, uno schiavismo in cui il volto della iena è nascosto dietro il sorriso del benefattore, uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola ‘amore’. Un amore che non si riferisce in alcun modo al bene di chi nasce ma soltanto ai desideri dei singoli individui. Già perché all’ideologia marxista leninista si è sostituito un capitalismo senz’anima e questo nuovo totem idolatrico riconosce solo una legge: quella del desiderio del singolo individuo e del profitto che si può ricavare per soddisfarlo.

Che la causa generatrice dei figli sia un non ben definito e onnipotente sentimento di amore è una delle grandi bufale propinate dal neosentimentalismo della società consumistica. Da che mondo è mondo la maggior parte delle persone nasce per ragioni per lo più lontanissime dal mantra amoroso. Si può nascere da uno stupro, da un coito fugace nel gabinetto di una discoteca, dall’improvvisa e stupefacente rottura di un preservativo. La vita ha in sé una forza che non richiede, per esistere, la melassa dei nostri sentimenti. Alcuni, fortunatissimi, nascono da un vero rapporto d’amore tra un uomo e una donna che dura nel tempo ma credo si tratti ormai di una minoranza piuttosto esigua. Si nasce perché una donna ha detto il suo sì, perchè – anche se il preservativo si è rotto, anche se neppure si ricorda la faccia del fecondatore – a un tratto ha sentito che quella cosa lì, quel millimetrico ammasso di cellule, in cui già dopo venti giorni si percepisce con chiarezza battere il cuore, è qualcosa di diverso da tutto quello che finora ha conosciuto e che in quella diversità è racchiusa l’ombra del mistero. Un mistero che a chi non sia completamente accecato dalla disperazione o dalle ideologie non può che provocare timore e tremore.

L’idea che il fine di ogni vita sia la felicità e che tutto sia giustificato in nome dell’amore è una delle perversioni del pensiero post moderno, oltre che uno dei chiari sintomi della condizione più che crepuscolare del mondo occidentale. La vita è complessità, ingiustizia, confusione, dolore e, meno è soggetta a un progetto interiore, più viene divorata da questo intrico di forze che a tutto pensa tranne che a renderci felici. E oltre a ciò, c’è il carico pesante del destino che agisce con apparente cecità, donando magari ai non meritevoli e punendo i meritevoli. È la complessità del destino a determinarci ed è proprio dall’interrogazione su questa complessità che nascono la poesia, la musica, la filosofia, vale a dire tutto ciò che distingue gli esseri umani dalle altre forme viventi. Interrogarsi, stupirsi, intravedere un orizzonte verso il quale incamminarsi. Se ci commuoviamo ascoltando della musica è grazie a questa complessità, se i nostri bambini fanno domande nel cuore della notte mentre tutti gli altri cuccioli dormono, ancora una volta è per questo. Perché alla base della vita c’è il mistero, e il mistero e l’inquietudine si alimentano costantemente l’un l’altro producendo un unico fuoco. Quel fuoco che rende ogni vita unica e degna di essere vissuta.


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Nel mondo dei negromanti della riproduzione questo orizzonte non compare mai. Lo spazio in cui si muovono è quello della catena di montaggio. Ottenuto l’acconto, si mette in cantiere il prodotto, se poi alla fine del processo il prodotto ha qualche difetto lo si rispedisce al mittente, come è successo alla madre surrogata indonesiana che ha avuto la sventura di fallire producendo un bambino down. Che poi quel prodotto un giorno si trasformi in una persona non è poi così importante. Basta l’amore. Ma un giorno, passata la fase festosa del cucciolo scodinzolante, quell’essere assumerà la sua natura umana e comincerà a guardarsi nello specchio e a interrogarsi. A chi appartengono questi occhi? Questo volto?

Cos’è questa nostalgia che divora il mio cuore? E che cosa potrà provare quando saprà che il suo ovulo – cioè la sua vita – è stato selezionato su un catalogo come le vendite per corrispondenza? Cosa proverà per la sua madre genetica – magari una brillante studentessa di Harvard scelta per le sue elevate qualità fisiche e intellettuali – che l’ha venduto al migliore offerente, come si faceva al mercato degli schiavi? E che sentimenti potrà provare per quella povera donna che, in qualche oscura parte del mondo, l’avrà portato in grembo per nove mesi, quella donna che non ha mai potuto essere tentata da una carezza, da una frase dolce, da quell’intimità che sempre lega le madri alla creatura che cresce in loro? Quella donna di cui, per nove lunghi mesi, ha ascoltato la voce e il battito del cuore, da cui è stato nutrito, da cui ha appreso gli odori, i sapori; quella donna che ha lasciato in lui un’impronta genetica incancellabile e a cui lui ha impresso la sua, come fossero un aquilone e la mano che tiene il filo per potersi sempre inseguire e ritrovare ovunque, tra la terra e il cielo? Che cosa proverà per lei, per la voragine oscura che l’ha inghiottita nel momento stesso in cui gli ha donato la vita? Diventerà un essere umano equlibrato perché satollo dell’amore dei suoi committenti? Oppure…

Come è possibile, lucidamente e scientificamente, decidere di privare una persona della propria memoria genetica – dunque della sua storia, della sua salute fisica e mentale, della sua identità – con l’ infantile convinzione che l’amore possa essere la soluzione a tutto? Dov’è finito tutto il devastante dolore e smarrimento della gran parte dei bambini adottati? E la rabbia furibonda di chi non ha mai conosciuto il padre? Cento anni di psicanalisi, milioni di studi sul Dna e la scoperta dell’epigenetica, cancellati con un colpo di spugna. Il bambino su ordinazione viene proposto come una tabula rasa, da plasmare a piacimento. L’importante è che il prodotto funzioni e non abbia difetti, tutto il resto è superfluo. Un fantoccio che ai baci risponda con i baci, ai sorrisi con i sorrisi, così come il cane di Pavolv sbavava sognando la pappa al suono del campanello. Non ha importanza perché, nel mondo di Ivanov e dei suoi seguaci, la complessità umana non ha alcun diritto di cittadinanza.

Dallo Scimpauomo al bebè pret-à-porter il passo è brevissimo. La siringa, la spugna, il tubo di caucciù nella versione più tecnologicamente avanzate non contemplano altro orizzonte che quello della loro materialità. Che intorno a questa atto ci sia un quid non quantificabile, non misurabile e non governabile non li riguarda alcun modo. Nell’universo ridotto a materia conta solo ciò che si può toccare. Come i bambini piccoli che sono convinti di sparire coprendosi gli occhi con le mani, così gli stregoni dal camice bianco vivono nella serena certezza che nell’essere umano e nel suo venire al mondo non vi sia innata alcuna insondabile complessità. Non la si vede, non la si può pesare, e soprattutto non la si può vendere né comprare, dunque non c’è. Semplicissimo.

La gestazione per altri è dunque soltanto la punta di un iceberg – la più vistosa e la più agghiacciante – di uno slittamento della visione antropologica verso un modello ad un’unica dimensione, quella del mercato. L’amore è il cavallo di Troia attraverso il quale vengono condizionate le coscienze. Ma di quale amore stiamo parlando? Un amore che reclama diritti. Ma un amore che reclama diritti che razza di amore è? Il concetto di amore e quello di diritto sono assolutamente incompatibili. Non esiste il diritto di amore, così come non esiste il dovere di amare. Persino il Decalogo – oserei dire, il codice etologico dell’umanità – ci impone di onorare il padre e la madre, non di amarli. L’amore, per essere davvero tale, non richiede una legge a cui uniformarsi, ma piuttosto un’idea del bene, e l’idea del bene soggiace sempre a quello della reciprocità. Quale forma di reciprocità ci può essere in un rapporto di commissione della vita? Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso è il principio su cui si è retta la società umana fino ad ora.


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Per esercitare un nostro diritto, dunque, costringiamo lucidamente una persona a venire al mondo privandola di ciò che fa di un uomo un uomo, vale a dire la genealogia, mettendo sulla sua vita una grande ipoteca di infelicità. Non è il karma a porre questo peso, non è il destino, siamo noi con la nostra minuscola volontà individuale. D’altronde come stupirsi? Nel mondo in cui tutto si consuma non c’è spazio per questo tipo di arcaiche finezze. Il destino è la nostra volontà, non conosciamo e non vogliamo conoscere nessun altro tipo di orizzonte.

Ma se va respinto con fermezza l’atto della maternità surrogata, non va negata la vera esigenza di donare amore che affligge tante coppie che, per ragioni fisiologiche o di genere, sono costrette alla sterilità. Si tratta solo di fare un po’ di chiarezza cominciando con il dire l’amore, quando non è procreativo, non può essere altro che oblativo. Che cosa vuol dire oblativo? Che si dona senza pretendere nulla in cambio. Non un cognome, non un diritto, non la proprietà ma soltanto la certezza della straordinaria forza racchiusa in questo tipo di amore. Già, perché, seguendo la vitalità della biologia, si può dare la vita con il corpo, ma la vera generazione avviene sempre attraverso i livelli più sottili di quella che una volta veniva chiamata anima.

Nel mondo ci sono circa 170 miloni di bambini abbandonati, la grande battaglia da fare per spezzare il vertiginoso business dell’utero in affitto – la battaglia che riporta tutto il discorso nuovamente nei confini dell’umano – è quella per leggi migliori, di più ampio respiro e di più rapida attuazione nel campo dell’adozione e dell’affido. Adozioni e affidi, tra l’altro, grazie al diffondersi di queste pratiche e al costo esorbitante necessario per portarle a termine, sono drasticamente crollate.

E comunque di bambini che hanno bisogno di noi ne incontriamo ogni giorno. Forse non siamo capaci di fermarci ad ascoltarli, di vederli, non sappiamo guardare i loro occhi per capire la loro richiesta di aiuto. Quando il cuore è pronto, di solito i bambini arrivano. Basta essere disponibili ad accoglierli, senza pedigree genetici, senza garanzie ereditarie, senza la certezza che diventino, come da ordinazione, dei geni della matematica o dei novelli Mozart, con il rischio magari di doversi occupare anche dei loro genitori genetici, che sono molto spesso persone problematiche e che metteranno a dura prova il nostro equilibrio e la nostra pazienza. Ma l’amore oblativo non teme i rischi perché rifugge dall’idea di possesso e da quella del rendimento. L’amore oblativo vive e prospera soltanto sotto il cielo della libertà, ed è proprio grazie a questa libertà che offre ad ogni vita, piccola o grande che sia, la possibilità di rinascere ad ogni istante. Questo è il vero spirito di maternità, questo è l’amore che dobbiamo coltivare dentro di noi ed intorno a noi, questa è l’unica arma che abbiamo per contrastare il sinistro business della riproduzione.