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Famiglia e figli disabili: quello che serve è una compagnia (e delle grigliate)

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Di HTWE|Shutterstock

Paola Belletti - pubblicato il 05/11/21

Un'opera viva nata da un papà che ha preso sul serio la sua domanda davanti al dolore per la figlia con disabilità. Un popolo che si ingrossa intorno ad alcuni che sì, proprio in quelle circostanze, sono davvero felici. Che strana gente, questi cristiani.

Sì.

La risposta è sì.

Le famiglie che fanno parte dellaMongolfiera, Onlus nata a Imola dal cuore in fiamme di un papà normale, a questa domanda che dà anche il titolo al libro di cui vi voglio raccontare, rispondono a volte tremanti, ma decisamente sì:

“Chiedimi se sono felice”

Famiglie con figli disabili

Che poi non è neanche una domanda, ma un imperativo che chiede di domandare.

Sono tutte famiglie, quelle attaccate alla Mongolfiera (e volano, in un certo senso), che hanno almeno un figlio con una qualche disabilità e sono le più varie: fisiche, psichiche, cognitive, psicomotorie, tutte queste insieme. Di origine cromosomica, genetica, per sofferenza perinatale, per una malattia oncologica, per Dio sa cosa – e lo sa.

Dal cuore trafitto di un papà normale

Intorno a questo papà, Davide, che si è trovato senza fiato e con molte domande davanti alla terapia neonatale dove era finita sua figlia appena nata, si è radunata gente a grappoli, in nome di un’amicizia e di una compagnia tanto radicale e profonda quanto pratica e concreta.

Era germogliata nel grembo caldo della mamma accanto alla sorella gemella, ma poi, in sala parto, qualcosa era andato storto: e ora suo padre è lì, bocconi sullo scrigno sterile, nel frinire elettronico di linee intermittenti.

Dalla presentazione di Caterina Giojelli, Pag 5, Chiedimi se sono felice, Famiglie e disabilità, un’amicizia che accompagna per sempre

Insieme per rispondere a un bisogno

Il bisogno da cui è nato tutto è talmente specifico, dettagliato e ambizioso che fa venire da piangere per la bellezza che sprigiona.

Tutto il contrario di ciò che quasi in automatico ci sentiamo di dover provare di fronte ai bambini disabili e alle loro famiglie: poverini, diamogli una mano, aiutiamoli ad avere una vita almeno accettabile. No, qua puntano all’eccellenza.

Questi bambini vanno a scuola, giusto? E spesso le scuole migliori in termini di preparazione e soprattutto di attenzione alla persona nella sua interezza sono quelle paritarie (e cattoliche), bene. Anzi male: per una grave forma di ingiustizia ben impacchettata in questioni burocratiche e normative le paritarie hanno una copertura economica delle ore di sostegno solo parziale. E allora tocca supplire come si può, spesso con il contributo economico della famiglia.

Servono soldi? Troviamoli

Ma perché mai una famiglia con un bimbo disabile dovrebbe accollarsi pure il costo dell’insegnante di sostegno o, se non ce la fa, pur con la buona volontà e l’aiuto da parte delle scuole, rinunciare a quella realtà tanto bella e così capace di far venir grandi anche i nostri piccoli menomati, offesi, predisposti a restare indietro?

“Mettiamoci insieme, troviamoli questi soldi”.

E così è stato e continua ad essere. Ma che ci sarà mai da raccontare intorno a una cosa tanto piccola?

Mangiamo insieme e proviamo a capirci qualcosa

Intanto piccola lo dici a qualcos’altro. Perché è piccola come può essere piccolo un seme, o un bambino quando viene concepito; e grande come un albero quando è adulto e come un figlio quando nasce e poi cresce, anche quando non è come vuoi tu. Grande come le tavolate e i barbecue o i chili di piada che volano quando queste famiglie si trovano insieme due volte l’anno. Grande come l’aiuto e la compagnia concreta che si fanno più silenziosamente e a piccoli gruppi durante il resto dei giorni.

Ecco cosa dice Davide De Santis guardando a come è cresciuta l’opera che da lui ha preso le mosse:

(…) ciò che si sta rivelando ancora più bello è l’incontro con le famiglie che cercano nella Mongolfiera una risposta a un bisogno concreto, come il sostegno per i figli disabili,
e finiscono per mettersi a loro volta in gioco per aiutare altre famiglie.

Chiedimi se sono felice, p.27

E comunque è proprio una loro caratteristica distintiva, una cosa che è tanto romagnola quanto squisitamente cristiana: si trovano a mangiare e bere e a provare a dirsi tra loro come mai sono così. Ma così come?

Felici. Sono felici.

Dovevamo ancora imparare a guardare

Erminio, marito della Betta Pasini (per me si dice così, eravamo compagne al CLU), è uno dei tanti papà che ha aderito a questa associazione.

Leggete la sua testimonianza e quella di sua moglie; hanno 6 figli e l’ultimo, che a rigore di una cieca logica sarebbe il meno fortunato, è invece il più potente e in qualche modo quello che, dice Erminio, ha permesso di vedere di più e più a fondo chi sono anche gli altri figli, un dono. Sono un dono, cioè dati, atterrati qui con noi mandati da un Altro e destinati a Lui. Diversi da come pensavi e addirittura più belli di come il più ambizioso genitore potrebbe sognare.

Che strani questi cristiani

Lui, il bimbo fragile che invece innesca incendi e riaccende i cuori, si chiama Luigi, ma non Luigi e basta. Lo hanno battezzato Luigi Fuoco. C’entra Forlì con la Sua Madonna del Fuoco; c’entrano le lacrime della Betta e il suo essere segno di gioia (tu pensa quanto sono strani questi cristiani, che spandono gioia e meraviglia anche mentre piangono e aiutano le ostetriche che li spiano di sottecchi a riscoprire il valore del proprio mestiere); c’entrano i fratelli e le sorelle più grandi che trovano tutti un motivo per essere felici, orgogliosi, grati per questo fratellino speciale.

Il giorno in cui ci hanno dimesso mi ha chiesto il numero di telefono:
«Vorrei restare tua amica», mi ha detto, «tu hai ridato valore al mio lavoro: in questo periodo stavano succedendo delle cose in ospedale che mi affaticavano molto. Ma soprattutto ho visto nei tuoi occhi il sì di Maria». In quei giorni avevo pianto tantissimo ed ero molto stanca, eppure un’altra persona aveva visto in me il frutto di ciò che stava succedendo.

(Elisabetta Pasini) Chiedimi se sono felice, p.90

Padri, madri, figli. Normali e speciali

E diciamolo anche noi, ogni tanto si può dire: sì sono speciali questi figli diversi, disabili, feriti. Con la sindrome di Down, come Gigi Fuoco, o con quella che ha colpito Benedetto, primogenito di Luca e Rachele. O come Paolo e Daniele i due ragazzoni figli di Enrico, due gemelli affetti da atrofia cerebrale, che hanno gravi disabilità sia fisiche che psichiche e ce n’è uno in particolare che non sta mai fermo e va a rompere le scatole a tutti quando si sta in mezzo alla gente; e il papà a un certo punto fa una cosa fighissima e scandalosa, perché normale: lo sgrida!

O come il mio che non ci vede e sa solo gorgheggiare e girarsi da un lato, il destro, ma è il re incontrastato di tutti i nostri cuori ed è il bambino più bello del mondo. (E c’è gente che ancora adesso che ha otto anni ci chiede, senza rendersi conto della tragicomicità della cosa, se siamo proprio sicuri sicuri che non ci veda, perché a loro invece pare che ci veda. Nemmeno un pochino, poco poco, sicuri sicuri?)

Il papà di Benedetto, di cui leggerete la testimonianza nel libro (compratelo, fatevi questo favore. Non è una faccenda pietosa, un mercatino dell’usato messo in piedi per raccattare due soldi e aiutare gli sfigati. E’ roba che scotta, un fiume di lava che quieto scende e vi travolgerà) mi ha insegnato una cosa bellissima e sfrontata, che cambia del tutto la postura che noi genitori di figli disabili rischiamo di assumere; arriva come un osteopata nerboruto che con un crock con falso preavviso – conto fino a tre, 1…- ti rimette in sesto senza che tu abbia il tempo di dire Amen. Crock, prova adesso: come va? Meglio vero?

Ogni figlio ha la sua vocazione

Benedetto, suo figlio, ha cambiato ogni anno per tutte le elementari l’insegnante di sostegno. Ma porca miseria, sarà che oltre tutto quello che tocca subire tra dolore, fatica, sevizie burocratiche, ricoveri, medicine, solitudine, orgoglio sotto i piedi, pure la sfiga di questo turn over continuo delle figure di riferimento?

Ehi, ma Benedetto non è solo un peso da portare, un ragazzino da aiutare, un debole da proteggere. Non è solo un soggetto i cui diritti noi grandi dobbiamo rivendicare perché se no il mondo lo calpesta.

Lui è qua, sta al mondo per un compito ben preciso e alto; che nessuno può portare a termine al suo posto. E, udite udite, lo svolge egregiamente.

Papà Luca si è accorto che non era solo suo figlio ad avere bisogno di quelle insegnanti ma erano loro, porca miseria, che avevano sete di una presenza così bruciante, viva, carica di affetto come solo suo figlio poteva essere. Una aveva la figlia adolescente anoressica, un’altra era depressa, l’altra non ricordo che problema avesse. Ma con Benedetto respirava, stava meglio.

Dolore innocente

Non è solo una croce per sé stesso, per i suoi genitori e fratelli, che lo amano, ma è anche la sua e la loro resurrezione e il ristoro per molti. E qui parliamo solo del poco che riusciamo a vedere; nel regno dell’invisibile, quello che conta davvero, non abbiamo idea del bottino che sta portando a casa.

Ehi, non l’abbiamo inventata noi la faccenda della salvezza e non ci siamo voluti ficcare noi in questa strettoia del dolore innocente. Ma ora che ci siamo dentro lo vediamo distintamente: è una scorciatoia. Si arriva prima dove bisogna andare. (E dov’è che bisogna andare, tutti, sani e malati, svegli come Elon Musk o all’apparenza spenti come la piccola Maria Speranza? Musk più che una gita su Marte non potrà offrirci; la piccolina, invece…)

Cercate le pagine con la testimonianza di Luca e godetevi la schiettezza tutta maschile, milanese, politicamente scorretta di questo marito e papà. Ne uscirete rinfrancati e forse anche vergognandovi un po’, come è successo a me a volte troppo incline alla recriminazione e al lamento.

Di chi sei tu?

Ah, ecco, c’è tutto, anche il lamento, la recriminazione, lo sfinimento, la rabbia. Il “dove vedete tutta questa bellezza che io a volte non so come arrivare a sera”. Ma c’è sempre un’amicizia a cui portare e lasciare giù un po’ dei nostri pesi.

C’è una coppia stupenda di genitori che litigano amandosi da quando sono fidanzati e che, di ritorno dal viaggio in ospedale dove hanno saputo che la figlia Anna, ultima di 5, doveva essere operata al torace, ai polmoni e al diaframma, per non litigare anche quella volta si mettono a pregare. Cosa c’è di più carnale e onesto di questa cosa?

Siamo tremendi, passionali, infiammabili (lo so, continuo ad usare questa immagine ma ci sarà pur un motivo. Poi lo scopriamo)

Siamo fatti così, che se ci lasciamo andare a noi stessi non facciamo altro che litigare oppure soccombere al dolore. Invece siamo di un Altro che si chiama Cristo e Cristo ce lo ha dato Maria, sua Madre.

Allora ricorriamo a lei, con 10, 100, settemila Avemaria. E quella figlia colpita da un brutto sarcoma impara a chiamare la malattia esperienza e dice che è contenta di quello che ci ha guadagnato, da questa esperienza-malattia.

Non c’è traccia di masochismo, non c’è amore per la croce prima di avere scoperto che cosa nasconde e regala. Siamo cristiani, mica scemi.

Come si vive dopo un miracolo?

Ci sono persino i genitori di un bambino che doveva morire e invece la preghiera ai coniugi Martin ha salvato. Si chiama Pietro, vive a Monza. Anche la loro testimonianza vi porterà in un pianeta inesplorato: la normalità della vita di chi è stato strappato solo alla prima morte e ora ha di nuovo e daccapo tutti i problemi che abbiamo tutti; e in più è sordo. Il miracolo della sua guarigione, che è valso la beatificazione dei genitori di Santa Teresa, è una consolazione potente e una conferma che Cristo guarisce il corpo per aiutarci a concentrarci sulla parte veramente bisognosa di salute, l’anima.

Così come si può

C’è proprio tutto, anche qualche fraterno schiaffo alla faccia di tolla del ciellino che si chiede “come posso stare davanti a queste famiglie con figli disabili” e uno di loro, un papà con un figlio così, gli dà un consiglio stupendo: mentre ci pensate, stateci.

Ce lo racconta lo stesso che se lo domandava, confessando forse la sua tentazione di mettere una distanza tra sé e loro di cui non si era accorto e rimettendosi con umiltà al servizio di questi amici, colpiti più duramente di lui.

Fa anche un altro eccellente servizio togliendo il velo su una sofferenza tipica delle famiglie con figli disabili: la solitudine, l’essere lasciati indietro, sotto pesi che non fanno che crescere e occasioni normali che non si fa che perdere perché ogni volta che ci si muove è come spostare il circo Togni.

Non lasicateci soli, perché ci perdiamo noi ma ci perdete anche voi.

Più mi alzo in volo e più vedo. E sono grato

Lo dice Erminio in un audio che mi ha mandato: io sto con gente felice, sto qua perché ho imparato a vedere meglio mio figlio Luigi e gli altri e perché c’è un’amicizia che si fa concreta e quindi è vera carità. E ci fa vivere quello che ci diceva Enzo, ricordi? Quando in quella testimonianza agli Esercizi spirituali di Rimini nel 1998 ci raccontò della sua vita che più si approfondiva più saliva come una Mongolfiera e da quell’altezza poteva vedere dettagli e vastità che prima non poteva scorgere.

Ma lo sai come si alza e resta in volo una Mongolfiera? Ecco a cosa serve tutto questo fuoco.

Dai su, fallo di nuovo: Chiedimi se sono felice

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