Oggi, 1 settembre, è la Giornata per la Custodia del Creato. Lo spunto di riflessione proposto dalla Chiesa è il passo di San Paolo «possiamo camminare in una vita nuova» (Lettera ai Romani, 6,4). Sembra proprio innestarsi perfettamente nel tema onnipresente della transizione ecologica. Ma cos'è questa transizione? La vita nuova è costellata solo di pannelli fotovoltaici e riduzioni delle emissioni? L'ecologia è solo un modo di guardare il pianeta o non è forse, prima di tutto, uno sguardo sul nostro cuore sporco?
Di recente Ornella Vanoni ha rilasciato un'intervista fiume ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera e in uno dei passaggi conclusivi dichiara:
La Terra non ci vuole più. Ci sta chiedendo di andarcene. Ed è tardi per tornare indietro.
Sfrattati da casa nostra. È un ritornello che si sente circolare da tanto, un mea culpa dell'umanità per i danni provocati all'ambiente. Ed è strano constatare una sorta di strabismo, di cui proprio l'intervista alla Vanoni è un'immagine chiara: una donna racconta a cuore aperto le cose che ha amato, gli errori, le proprie scommesse umane, domande ancora aperte e desideri ... e poi esprime la sua opinione sull'ambiente. Forse, se davvero esistesse una divinità chiamata Terra sarebbe capace di sfrattarci, indifferente come la Natura di Leopardi alla sorte di ogni creatura. Ma incamminarsi verso un simile orizzonte significa separare (verbo diabolico) ciò che Dio ha unito.
Immagino che se al posto di Alzo Cazzullo ci fosse stato il Creatore a intervistare la Vanoni, un certo discorso ecologico sarebbe germogliato proprio dentro la confessione di lei,
Dove hai incontrato il deserto? Dove hai dato frutto? La strada nuova di cui abbiamo bisogno non è una mera transizione ecologica, o forse è quella di riempire di senso proprio questa etichetta, prendendola come un rimetterci sui passi della Sua via, dove il deserto di ogni anima è davvero legato a doppia mandata con l'acquazzone che rinfresca i campi in piena estate.
Oltre all'incipit del Libro della Genesi, uno dei passi biblici in cui possiamo leggere una mastodontica lode del Creato - proprio nei suoi elementi naturali - è il capitolo 38 del Libro di Giobbe. E può suonare paradossale, visto che il tema lacerante di quel testo è la sofferenza umana. Tutto s'innesca a partire da uno sfogo viscerale di Giobbe, un uomo segnato da una miriade di prove che gli sono piovute addosso senza che lui avesse meritato una cattiveria simile da parte del destino.
La risposta di Dio arriva. Dopo essere rimasto in silenzio per tanto, Dio rovescia addosso a Giobbe una montagna di parole, anzi di immagini. Quelle che cominciano con il famoso: "Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra?". Anziché consolare Giobbe, Dio sposta completamente il discorso, tanto che Chesterton sintetizzò bene l'aspetto un po' inquietante di questo dialogo tra Creatore e Creatura:
La domanda di Giobbe (...e come non farla nostra) è: perché devo soffrire tanto? Dio gli risponde dicendo, tra le altre cose:«Chi mette al mondo le gocce di rugiada?». E' una punteggiatura strana, quella con cui Dio risponde. I suoi punti esclamativi sono una pioggia di dettagli su tutto quello che ha creato, dalle stelle del cielo alle vene sul collo dei cavalli, dagli abissi del mare ai leoncini affamati che aspettano le leonesse. Dio va fuori tema, si perde per la tangente. Lo fa in modo poeticamente meraviglioso, il lettore si trova di fronte a una delle descrizioni più belle della terra e dell'universo ... sembra un documentario girato in HD con il grandangolo e la lente d'ingrandimento, una narrazione da far arrorrise tutti i nostri Piero e Alberto Angela. (Ve ne abbiamo raccolto un assaggio nella gallery).
Ma perché fare una bellissima escursione naturalistica, quando il tema rovente è il dolore di un uomo? Nell'ultimo numero de I luoghi dell'infinito c'è un contributo di Ermes Ronchi intitolato Un Dio innamorato di orrizzonti che azzarda un'ipotesi proprio su come leggere questo scambio tra l'uomo e Dio che è il fulcro del Libro di Giobbe:
E se il dolore fosse un travaglio, cioé l'ipotesi di un cammino verso una nascita?
Dov'eri tu? Questo è il punto su cui Dio pianta l'inzio del suo discorso e della nostra strada. Parlando di questo tema in redazione, mi sono affrettata ad appuntarmi un'intuizione di Paola Belletti: siamo preceduti da un dono. Tutto lo splendore, anche tumultuoso, del Creato testimonia la premura di Dio nel darci un grembo-giardino in grado di ospitare il destino infinito di ciascuno. Per ciascuno di noi è stato preparato un posto fin dalla notte dei tempi in cui le acque del mare furono separate dalla terra ferma. Dio era all'opera in quel tempo lontanissimo, pensando già a me e a te.
Un altro pensatore raffinatissimo, il filofoso Fabrice Hadjadj, ha scritto un testo teatrale per squarciare il dramma posto da Giobbe e nella sua invenzione letteraria Dio spiega così il suo essere indaffarato nella Creazione:
Alla dea Terra non importa se ci sia una donna depressa con una voce meravigliosa, può farne a meno. Quando l'Islandese di leopardiana memoria chiese alla Natura perché lo facesse soffrire tanto, la Natura confessò persino di ignorare l'esistenza dell'Islandese fino a quel momento. Spesso è questo l'unico percorso ecologico di cui si sente parlare: l'ambiente come un orizzonte estraneo alle ferite dell'anima; fare la raccolta differenziata e mettere i pannelli fotovoltaici non c'entra nulla con le nostre scorie e il nostro bisogno di luce. L'alternativa, la vita nuova, è proprio scritta nell'ipotesi che Giobbe scopre di fronte al ritratto della Creazione fatto da Dio:
Tutto lo sforzo creativo di Dio è teso ad offrirci un ambiente che sia all'altezza delle tempeste e dei prodigi del nostro cuore. La terra non è una divinità, ma un grembo che geme con noi. La premura di Chi l'ha creata è di allargarci, allargare anche le fratture per renderci ospitali alla Sua voce che vuole catturarci ed è una voce di Redenzione. Ci sta col fiato sul collo al punto da non lasciare indefinita neppure la corolla di una margherita.