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Canti e preghiere: la “ricetta” degli antichi monaci per diventare angeli

A monk in a hood with a crucifix in his hands stands against the backdrop of a dramatic sky at sunset
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don Marcello Stanzione - pubblicato il 11/08/21
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Sant'Attanasio scrive che i discepoli di Sant'Antonio formavano “cori divini di uomini cantando salmi”. Il canto e le preghiera elevavano i monaci al livello della vita angelica

Gli angeli sono, nello stesso tempo, modelli e maestri di preghiera per i monaci. Nulla di strano quindi che si riconoscesse loro un certo contributo nella formazione dell’ufficio divino. 

Quelli che desiderano fare vita angelica in questo mondo, ed imitare le gerarchie del cielo, devono dedicarsi in modo particolare non solo alla contemplazione di Dio, ma anche alla sua gloria. Anche se è impossibile contemplare Dio senza adorarlo, senza benedirlo, senza lodarlo, senza irrompere in azioni di grazia.

“Loda il signore e notte e giorno, imitando i Cherubini”, esortava San Basilio ad un aspirante alla vita monastica. E non c'è dubbio che si deve in gran parte al luogo importantissimo che la salmodia occupa nell'orario del monaco, il fatto che il monacato sia chiamato già anticamente con il nome di vita angelica. I religiosi, da parte loro, sono pienamente convinti che, come dice proprio San Basilio da Cesarea, salmodiare significa esercitare l'attività degli angeli, vivere in modo celestiale, bruciare davanti a Dio un incenso puramente spirituale.

E lo stesso glorioso patriarca dei monaci domanda, riferendosi alla salmodia cenobita: “Cosa c'è di più dolce che imitare in questo mondo i cori degli angeli […] e salutare il Creatore già dall'alba con inni e cantici?”. Non è mancato chi, come il monaco sabaita Antioco, affermava che il canto dei salmi, opera delle potestà incorporee, è anche compito degli uomini, però “appartiene in primo luogo e in virtù di una speciale prerogativa ai monaci, cioè a coloro che scelsero una vita angelica”. 

Origene, invece pensava che “agli uomini spetta cantare salmi”, però “cantare inni è proprio degli angeli e di tutti quelli che conducono vita angelica”. Al di là di ogni cosa, l'idea profonda di tali sentenze è che i monaci - e in generale quanti come loro conducono vita angelica – hanno un diritto speciale di intervenire della lode divina, per essere imitatori degli spiriti celesti. 

Dedicarsi assiduamente a lodare Dio è, come dice San Gerolamo, una prova di quello che faranno i santi con gli angeli in cielo; e in un altro luogo scrive: “Quello che fanno gli angeli in cielo, lo fanno i monaci sulla terra”, questo è cantare al Signore giorno e notte”. Non era diverso il parere di Evagrio Pontico, di cui è questa massima: “Durante la funzione divina raccogli il tuo spirito lontano dai pensieri e prega senza cessare, rendendo grazie a Dio che ti ha tirato fuori dal mondo per il ministero degli angeli”.

In un poema medievale, nell'elogiare la vita monastica i monaci sono paragonati agli spiriti celesti, sempre che cantino lo stesso triplo inno: “Santo, Santo, Santo”, che gli angeli cantano davanti al trono di Dio. I religiosi non si limitano ad intonare gli stessi cantici di lode, bensì aspirano a che il loro culto divino sia continuato come quello dei Cherubini e dei quattro viventi dell'Apocalisse. 

Il problema esposto dal Nuovo Testamento, di come è possibile pregare senza interruzione, fu uno dei più pressanti, talvolta il più importante, del monacato antico. Pochi furono i solitari o cenobiti di quei secoli che operarono come un certo abate di un monastero della Palestina, che scrisse una volta a Sant’Epifanio: “Grazie alle vostre preghiere, non ci siamo dimenticati di recitare le ore canoniche; abbiamo pregato fedelmente le funzioni della terza, testa, nona e i vespri”. 

Vediamo come gli rispose il santo vescovo di Cipro, che era un monaco all'antica. Lontano dal vantarsi, li riprende in questo modo: “Evidentemente avete dimenticato le altre ore del giorno che passaste senza pregare. Il vero monaco deve avere, senza cessare, l'orazione e la salmodia nel suo cuore”. Non solo nel cuore, ma anche sulle labbra, almeno secondo l'opinione di quelli chiamati “puri”, cioè “quelli che non dormono”. È chiaro che tale ambizione è al di sopra delle forze umane, però almeno nel suo monastero non si interrompeva la salmodia, nemmeno per un momento, essendo la comunità divise in vari gruppi che si alternavano senza fermarsi nella Chiesa.

Tale modo di celebrare la funzione, che ha ricevuto la denominazione di laus perennis (lode continua), fu adottata in varie abbazie occidentali durante il Medioevo.

L'idea che con il canto della funzione divina, i monaci imitano gli spiriti celesti, anche implicita o esplicita si trova in molte espressioni dell'antica letteratura monastica. Così, ad esempio, S. Attanasio scrive che i discepoli di Sant'Antonio formavano “cori divini di uomini cantando salmi”. Dei religiosi di Nitria si è detto: “Era l’ora nona, ci si può fermare e udire la salmodia che esce da ogni monastero, di modo che uno si crede di essere elevato in Paradiso”.

La moltitudine di monaci che militavano sotto la direzione dell'abate Hor, quando cantavano inni durante la notte nella Chiesa, sembrava un coro di angeli risplendenti. Parlando della vita di comunità che conduceva S. Eusebio con i suoi sacerdoti di Vercelli, Sant'Ambrogio fa notare che imitavano gli spiriti celesti con la loro costanza nella lode divina.

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