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“Buongiorno, buona gente”: Valentina e il cibo della seconda possibilità

VALENTINA BALDACCI

Valentina Baldacci

Annalisa Teggi - pubblicato il 02/03/21

A Trieste Valentina Baldacci ha lasciato il posto fisso per seguire un'ispirazione che porta il segno di San Francesco: aprire un negozio di prodotti alimentari che nascono in contesti di emarginazione e disagio.

Non sono questi gli anni in cui una persona adulta e assennata si lascia trascinare da sogni folli. In passato, forse, c’era un che di eroico nel sentire la storia di qualcuno che mollava tutto e ricominciava da capo. Avere un lavoro, oggi, è una benedizione.

Questo deve essere chiaro da subito, per conoscere la storia di Valentina Baldacci. Lei è la prima a ripetere che è da incoscienti licenziarsi dal posto fisso. Eppure lei lo ha fatto.




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A Trieste 4 anni fa Valentina ha lasciato il suo lavoro da dipendente (e le piaceva molto) per mettersi in proprio. Ha aperto un negozio di prodotti alimentari che si chiama Buongiorno buona gente: vende cibo di ottima qualità fatto da mani non esattamente “pulite” o perfette. I suoi fornitori sono aziende e associazioni che operano in realtà disagiate o emarginate. Ci sono panettoni prodotti dai detenuti, cioccolata lavorata da ex prostitute, confetture prodotte da disabili.

Ho detto che si è messa in proprio, ma non è così. Fosse dipeso solo da lei non avrebbe corso il rischio di catapultarsi in un’impresa che ad oggi non è affatto facile né remunerativa.

Sentirete che, nel raccontare cosa è accaduto, Valentina chiamerà in causa una “vocina”. Ed è un modo molto informale per dire una cosa  profonda: la coscienza non è un posto solitario. La coscienza è il luogo di un incontro, in cui ascoltiamo la voce di Dio come compagna di strada. Quella “vocina” è un invito alla nostra libertà. E non siamo certo più liberi pensando di star soli coi nostri rimuginii.

Un seme piccolo piantato in una coscienza può anche non fiorire. Valentina lo ha innaffiato e quello che è nato non è solo un negozio in più di cibo “etico”. C’è dietro tutto l’azzardo di San Francesco: “Bisogna essere fiduciosi nel germe divino che è presente in ogni uomo“. E non c’è fotografia più onesta di ogni nostra giornata di quella che mostra un cibo buono che nasce dalle nostri mani poco buone. Il vero rischio umano, di oggi e di sempre, è avere il coraggio di lasciarsi guardare con una misericordia che da soli non ci diamo.

Cara Valentina, raccontiamo ai lettori di Aleteia For Her la tua folle impresa. Sono passati 4 anni da quando hai dato le dimissioni dal tuo lavoro. Cosa è successo per arrivare a questo grosso passo?

Sì, è così. Tutto è iniziato a mia insaputa. Hai presente il semino che viene messo nel campo all’insaputa del contadino? Ecco. Io avevo degli amici a Modica che frequentavo in occasione delle vacanze. Una volta capitò che, mentre cercavo dei souvenir da portare a casa a Trieste, un’amica mi suggerì di prendere le cioccolate di Casa Don Puglisi. Lo disse senza spiegarmi niente, e io mi sono fidata. Solo più tardi ho saputo cosa avevano di speciale: è un’associazione che accoglie e dà assistenza e un tetto a donne che hanno subito violenza o ex prostitute o con altri tipi di problemi.

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Col passare degli anni, più volte ho portato a casa da Modica queste cioccolate. Nulla più. Finché una mattina, mentre ero beatamente tranquilla nel mio ufficio a lavorare, succede una cosa che mi piace molto descrivere pensando ai cartoni animati di quando ero piccola. Sento una vocina che mi dice di punto in bianco: “Valentina, perché non apri un punto vendita dei prodotti di Casa Don Puglisi a Trieste?”. Ma figurati!

In quel momento di cosa ti occupavi?

Ero impiegata amministrativa in un’azienda nel settore metalmeccanico. Non avevo mai preso in considerazione l’idea di mettermi in proprio. Sono nata da dipendente e pensavo di morire da dipendente. Ho scelto la scuola superiore giusta per fare la segretaria ed ero proprio riuscita a fare la segretaria.

Insomma: i conti tornavano, li hai fatti saltare tu. O meglio: li ha fatti saltare quella “vocina”, che è probabilmente l’ispirazione di un Padre che osa dare una spinta.

Assolutamente sì. Credo che quest’idea non sia farina del mio sacco. Non è la storia di una che dice: “Ma sì, io in fondo sognavo di aprire un negozio…”. Quella vocina continuava a farsi sentire, e io continuavo a rispondere: “Stupidaggini!”. Dopo qualche giorno ho chiamato una di quelle amiche di Modica proprio per mettere a tacere la cosa una volta per tutte. Le chiesi: “La prossima volta che vedi quelli dell’associazione di Don Puglisi, informati se sono interessati ad avere un punto vendita a Trieste”. Era una domanda retorica, nel senso che l’unica risposta che mi aspettavo era un “no”. Volevo mettere una bella pietra sopra questa follia.

VALENTINA BALDACCI, NEGOZIO
Valentina Baldacci

Un paio di giorni dopo la mia amica mi fece sapere che l’associazione era molto felice dell’idea che avevo avuto. Ma non era questa la risposta che volevo! Anche di fronte a questo riscontro, ho continuato a far finta di niente. Non passano neanche due settimana e mi ritrovo a guardare in TV un servizio sull’economia carceraria. La vocina torna, alzando la posta in gioco: “Oltre ai prodotti di Don Puglisi, potresti vendere i prodotti dell’economia carceraria”. Mi rendo conto che raccontare le cose così potrebbe sembrare solo una barzelletta.

Sì, potremmo riderci su. Però possiamo anche vederla così: quando Dio pianta un seme, la nostra libertà comincia a sgranare gli occhi su cose a cui prima non badava. Improvvisamente i segni diventano “parlanti”.

Sì, c’è stata la mia libertà. Potevo estirpare quell’erbetta verde cha stava spuntando. Ma dopo quel servizio sull’economia carceraria far finta di niente era diventato difficile. Anzi, mi sono venuti in mente tanti altri prodotti da aggiungere, provenienti da realtà emarginate. Si trattava di un “mondo” assolutamente sconosciuto, ma ho cominciato a informarmi e a studiarlo. Il mondo carcerario mi era estraneo, al confronto mi sentivo più ferrata sui marziani. Entrando però nel merito e informandomi sulle possibilità offerte ai carcerari di essere impegnati in attività produttive, mi sono resa conto che si trattava di una realtà degna. Degna, cioé, di essere portata all’attenzione.

Ho cominciato a prendere sul serio in considerazione l’idea di aprire questo negozio. Ne ho parlato con la mia fraternità, perché faccio parte dell’ordine francescano secolare, e anche loro sono stati molto chiari nel mettermi di fronte a tutte le difficoltà che avrei incontrato nell’imbarcarmi in un’impresa del genere.

Bisognerà aprire una finestra su questa tua appartenenza francescana, però ora procediamo con la cronaca dei fatti. Non era una strada facile. Di questo ti rendevi conto?

Sì, io ero completamente digiuna di tutto. E in molti mi dicevano che l’idea era bella, ma forse era meglio che aspettassi  finché la fissa non mi fosse passata. Sono andata avanti, nel tempo libero facevo ricerche e cercavo spunti. Poi, ovviamente, a un negozio occorre trovare un nome. E questo è stato un altro punto di svolta. Qualche idea in testa era venuta, ma nulla di entusiasmante. Finché un giorno mi sono accorta di qualcosa che era già in casa mia. In soggiorno ho una cornice a giorno in cui ho raccolto fotografie significative della mia vita. Una di queste fu fatta tanti anni fa durante un pellegrinaggio con la mia fraternità a Poggio Bustone, in provincia di Rieti. In quel paese nel 1209 San Francesco, passando, salutava gli abitanti dicendo loro: “Buongiorno, buona gente”.

C’è una targhetta con questa frase a Poggio Bustone e campeggiava nella mia foto. Quel giorno, attraversando il soggiorno, mi passò davanti agli occhi quella foto – credo per la miliardesima volta – e leggendo “Buongiorno, buona gente” è arrivato il colpo di fulmine. Quello era il nome giusto. Devi sapere che a Trieste dirsi “buongiorno” per strada è assai raro. E vendere dei prodotti che parlano di donne che hanno subito violenza, terreni confiscati alle mafie, carcere con il nome di “buona gente” è un azzardo stridente.

VALENTINA BALDACCI, NEGOZIO
Valentina Baldacci

Il nome si dà quando il figlio è nato. Se eri arrivata a dargli un nome, per te questo progetto era nato, no?

Sì, infatti è stata una mia amica che ha un salone da parrucchiera a farmelo notare: “Se gli ha dato un nome, la cosa è fatta”. Quando me l’ha detto mi sono spaventata. Era tempo di fare le cose seriamente e le difficoltà che a quel punto ho dovuto affrontare sono state tantissime. Però pian piano il terreno è stato disboscato. Una delle decisioni più ardue è stata quella di lasciare il lavoro che avevo, il famoso posto fisso che si lotta con le unghie e coi denti per avere. Mollarlo è davvero da incoscienti.

Ma cresceva anche l’entusiasmo per questo figlio “appena nato”. Ed è arrivata la scelta di aggiungere alle realtà da cui attingere i prodotti anche il settore dei disabili.

Cominciando a conoscere queste associazioni che sarebbero diventate tuoi fornitori cosa hai scoperto?

Nell’allacciare questi rapporti l’entusiasmo è cresciuto. Avremmo un gran bisogno di relazionarci con queste presenze “scomode” e sono convinta che volutamente noi le ignoriamo. Pensiamo, banalmente, ai disabili: finché li lasciamo in un cantuccio nei loro centri diurni o istituti, gli diamo l’assegno di invalidità, siamo tutti apparentemente tranquilli. Ma la disabilità è un panorama molto diversificato e c’è chi può essere davvero produttivo. Perché dovremmo togliere loro la dignità di lavorare? Sono persone che possono inserirsi in un tessuto lavorativo, perché no?

E il mondo del carcere?

Posso dire che si è aperto un abisso. Occorre proprio capovolgere la prospettiva. Ero ignorante a riguardo, ora parto dal presupposto che potrei finirci io “dentro”. E posso finirci da innocente o da colpevole. Nessuno è esente dal confronto a tu per tu con il male. Non ne siamo immuni … parola azzeccata, proprio in questo tempo in cui parliamo di virus. Prego Dio che mi preservi dal male, ma non ho nessuna garanzia sulle scelte che farò.

Alla luce di questo, tu cosa proponi a chi entra nel tuo negozio? Un prodotto o qualcosa di più?

Vorrei proporre di più. Il mio progetto iniziale, forse mi ero illusa, era quello di fare della mia bottega un punto informativo. Pensavo che i prodotti potessero essere un trampolino per aprire una finestra sulle realtà da cui nascono. Ho ricevuto tante porte in faccia. Non ho trovato la volontà di collaborazione da parte associazioni, scuole, anche parrocchie per far conoscere il mondo dell’economia che nasce dal carcere, dalla disabilità, eccetera. Ci sono stati mercatini da cui sono stata mandata via, anche in contesto cristiano.

E i clienti, tendenzialmente, vengono per la grande qualità della merce, ma non interessati a sapere la storia che c’è dietro. La clientela costante e affezionata che crede in tutto il progetto è davvero poca.

L’entusiasmo che c’era, allora, a cosa lo aggrappi?

Diciamo che continuo fermamente a credere che non è un mio progetto. Se fosse stato solo un mio sogno, avrei già chiuso tre anni fa. Ogni tanto, nei momenti più bui, parlo a Dio come a un amico e gli chiedo di essere chiaro nel dirmi se devo andare avanti o no. E ci sono casi in cui i segni sono così fiochi da scoraggiarmi, ma arrivano anche luci abbaglianti come fari.

Ma al di là di questo, sono anche personalmente convinta che in questo settore ci sia tantissimo da fare. Soprattutto per abbattere dei pregiudizi dovuti, banalmente, all’ignoranza, cioé proprio al non conoscere. E non sto parlando da cristiana, come esseri umani abbiamo il sacrosanto dovere di conoscere questi spazi di realtà che teniamo in disparte.  Partendo dal presupposto che anche io potrei finire in carcere, nasce la domanda: come vorrei essere trattata se fossi in prigione?

Affrontiamo ad esempio i dati tremendi sulle recidive. La media è ben superiore al 70%, quindi su 100 carcerati che escono 70 tornano a delinquere. Invece, quelli che seguono dei percorsi di istruzione e formazione hanno una probabilità di recidiva attorno al 5%. Anche solo facendo un ragionamento cinico ci sono dei vantaggi: molti costi in meno e una società più sicura.

Non sono questi, però, i discorsi che sentiamo più di frequente. Siamo invece schiacciati da tutta una massa di pregiudizi sui detenuti, quei discorsi tipo: “Ah, beati loro che sono dentro e possono guardare la TV tutto il giorno!”. Quando parliamo così, noi non ci rendiamo conto di quello che diciamo. Può essere bello per una settimana all’anno passare le giornate di fronte alla TV, ma non di più. La quotidianità della vita carceraria è dura.

Però qualcuno potrebbe dire: “Se lo meritano!”…

Certo, la pena da scontare non si toglie. Ricordiamoci però che la nostra Costituzione parla di “percorso riabilitativo”, cioè l’obiettivo del carcere non è solo punitivo ma anche di comprensione e di cambiamento. E’ dentro perché ha sbagliato, d’accordo; però francamente lasciarlo lì in cella a guardare la TV non so come possa farlo diventare una persona migliore. Sarebbe già un grande passo essere disposti a sapere come stanno davvero le cose, al di là dei nostri pregiudizi.


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E anche io che svolgo un’attività inerente le carceri e le realtà disagiate vengo etichettata facilmente: mi considerano sempre o una radicale o una di sinistra. Questo mi ferisce, perché vuol dire che noi abbiamo già deciso a chi appartiene il “campo” della cura dei disabili o della riabilitazione dei carcerati. Quando mi vogliono addossare certe etichette, io tiro fuori le parole di Gesù che, se non sbaglio, disse prima di tanti altri:

Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. (Matteo 25, 35-36).
VALENTINA BALDACCI, NEGOZIO
Valentina Baldacci - Buongiono, Buona gente

Il punto è che se mi metto a guardare i carcerati, inevitabilmente, entra in gioca anche quel che di “carcerato” – poco presentabile e buio – c’è dentro di me. Per questo quello che tu coltivi è un terreno difficile da dissodare, perché apre la domanda: mi basta il giudizio oppure ho bisogno del perdono?

E perciò mi permetto di ribaltarla sul personale anche con te. Quanto di te stessa hai conosciuto lasciando quella che eri e lanciandoti in questa avventura folle?

Sono molto diversa da quello che ero quattro anni fa. Ma non sto dicendo che sono migliore, “cambiata” è questo il punto. Non faccio questo lavoro per mettere timbri sulle carte, mi metto in discussione umanamente. Ho scoperto tanti miei pregiudizi sui disabili, ad esempio. E ho il ricordo di una telefonata che mi è rimasta impressa. Dovevo contattare una cooperativa che lavorava coi detenuti e avevo solo il numero del call center. Anche lì lavoravano i detenuti, ma io non lo sapevo quando ho parlato con la persona che mi ha risposto.

Gli ho raccontato chi ero e cosa facevo e lui, a quel punto si è scoperto, e ha detto: “Io non vedo l’ora di aver finito di pagare il mio debito…”. Sentivo che in lui c’era tutto il peso di gravare sulle spalle della società. Questo è stato un incontro, altro che i pregiudizi sulla “bella vita” che si fa in carcere. Come è diversa la realtà quando la incontri! E una volta che la incontri non puoi non metterti in discussione.


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A proposito di incontrare, ci fai incontrare il tuo percorso di fede? Dicevi all’inizio che appartieni all’Ordine francescano secolare. Cos’è?

Quel gran santo di San Francesco – lasciami essere entusiasta! – aveva l’unica premura di essere un cristiano migliore, ma la sua personalità era così affascinante che molti lo vollero seguire. E nacque l’ordine dei Frati minori. Accanto a loro ci fu l’esperienza di Santa Chiara da cui nacque la vocazione della Povere Dame, quelle che oggi chiamiamo clarisse. Però in tanti volevano seguirlo senza avere la vocazione a diventare frate o monaca di clausura; magari avevano già una famiglia. Per cui San Francesco diede vita a quello che oggi chiamiamo Ordine francescano secolare. Tutti questi tre ordini hanno in comune il vivere il Vangelo nel proprio stato di vita.

Nel 1991 io ho fatto la professione perpetua nell’ OFS e sono stata ‘incorporata’ in una fraternità. Insieme a queste persone faccio un percorso di formazione e preghiera che dura per la vita intera. Non siamo un gruppo di preghiera, né un gruppo di volontari, né un gruppo culturale.

Diventa una seconda famiglia, anche nel tipo di rapporti che nascono. Non è neppure detto che con tutti sia amica nel senso più comune con cui intendiamo questa parola. Con alcuni non andrei in vacanza o non farei certe confidenze, ecco. Però il rapporto che ci lega è profondissimo. Tra fratelli e sorelle si litiga e si hanno gusti diversi, però si appartiene a un nucleo familiare unico.

Anche all’Ordine francescano secolare è stata data una regola da parte della Chiesa. Non è un insieme di norme come il codice civile, è proprio un’indicazione della strada su cui vivere. La mia folle scelta lavorativa non è partita dalla regola, non mi sono mossa per mettere in pratica alcune indicazioni scritte lì. Però, a posteriori e lungo la strada, è nella regola che trovo certe fondamenta che tengono in piedi le mie ragioni. Ad esempio, l’articolo 13 è uno dei miei preferiti e dice: “Bisogna accogliere tutti con animo umile e cortese”. E poi c’è il 19 che è proprio tosto: “Bisogna essere fiduciosi nel germe divino che è presente in ogni uomo“.


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In fondo è anche la sintesi di cosa è accaduto a te. Hai dato fiducia a un germe che non era tuo e in cui hai riconosciuto la presenza di un Padre che ci manda dove non avremmo mai pensato. In questa semina cosa hai raccolto di buono per la tua anima?

Innanzitutto che a volte si fa fatica ad accogliere con cortesia anche se stessi. Da quattro anni a questa parte mi sono confrontata con persone che non avrei mai pensato di incontrare. Ad esempio, da me in negozio sono arrivati come collaborati persone che provenivano dalle associazioni con cui collaboravo. Ognuno di loro è stato prezioso, ma non sono stati rapporti facili. Mi sono trovata di fronte a facce che certo non dovevano essere solo giudicate, ma che comunque andavano corrette con chiarezza.

Non è facile stare dentro i rapporti, qualunque essi siano, senza cadere nella trappola della misura che condanna. Di questo mi sono resa conto. Su tutti noi grava la trappola di ragionare in termini di “loro” e “noi”, come a separare da che parte stanno i buoni e da quale i cattivi. Sono le gabbie di questo carcere invisibile che vanno buttate giù.

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