Accademica, prima Presidente donna della Consulta e da oggi Ministro della Giustizia nel Governo di Mario Draghi
Marta Cartabia è riconosciuta da tutti, sia chi la apprezza che chi non lo fa, come una giurista di altissimo livello, una dei pochi italiani che hanno voce e peso nel dibattito giuridico internazionale e non solo in quello del proprio paese. Nata in provincia di Milano, sposata, tre figli e una carriera lampo che la porterà ad appena 48 anni – nel 2011 – nella Corte Costituzionale italiana, un servizio durato come prescritto per nove anni, in cui ha scalato i ranghi della Corte fino ad assumerne la Presidenza, prima donna nella storia della Repubblica a capo del massimo organo giudiziario del Paese, da oggi sarà Guardasigilli, cioè Ministro della Giustizia nel Governo Draghi.
Prima donna alla Corte Costituzionale
Quando il Presidente Giorgio Napolitano l’ha chiamata alla Corte Costituzionale, le ha detto, racconta l’interessata, la professoressa Marta Cartabia: «Volevo assolutamente una donna perché mancava, volevo una donna aperta ad altre culture. Sono ben consapevole che lei ha una forte cultura cattolica, ma sono convinto che nella Corte Costituzionale ci voglia un pluralismo di voci». Quando venne eletta Presidente, nel suo discorso, disse: «Sì è rotto un vetro di cristallo. Ho l’onore di essere qui come apripista» dedicando la nomina a tutte le studentesse di Giurisprudenza. La – oggi – Ministra della Giustizia lo aveva raccontato a Soul nel novembre scorso.
Un curriculum da Quirinale?
Marta Cartabia, laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti e, subito dopo, ha svolto attività di ricerca negli Usa, precisamente presso la University of Michigan Law School di Ann Arbor. Ha insegnato in alcuni atenei esteri come Tours, Tolone, San Sebastián, Eichstätt e nel 2004 è diventata professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. La Cartabia è una delle donne più importanti per quanto riguarda la giustizia costituzionale ed è tra i fondatori, nonché co-direttrice di Italian Journal of Public Law, prima rivista italiana del settore giuridico in lingua inglese. Ormai da diversi anni è considerata una “riserva della Repubblica”, a disposizione delle istituzioni, si è parlato di lei come ministro sin dal 2018, e più volte come possibile Capo dello Stato, e se per molti osservatori la successione a Mattarella è già “prenotata” da Mario Draghi, nulla esclude che la prossima possa essere lei.
Marta Cartabia, la fede non la ostenta, la vive e quella fede interroga la sua professione. Sul Sussidiario, il quotidiano online vicino a Comunione e Liberazione (movimento che la professoressa frequenta fin dai tempi della scuola), su cui è stata editorialista a proposito di due questioni molto delicate per l’etica e il diritto quali l’eutanasia e il matrimonio egualitario ha avuto parole pacate ma precise. Commentando la sentenza che dette il via libera alla sospensione dell’idratazione di Eluana Englaro scrisse:
«Il presupposto di tutte le decisioni, sempre affermato assertivamente, è che Eluana vive una non vita. La scienza però non è in grado di dire una parola certa sulla vita in stato vegetativo: è piuttosto una vita avvolta nel mistero. Chi potrebbe affermare oltre ogni ragionevole dubbio che Eluana non prova nessun sentimento e nessuna sensazione? Nessuno ha avanzato l’ipotesi che, nel dubbio, potrebbe essere più opportuno proteggere la vita, a puro scopo di precauzione».
E poco sopra circa la ratio giuridica della decisione
«Dietro l’apparente asetticità di una decisione procedurale – “il ricorso è inammissibile” – si nasconde in realtà una precisa concezione sostanziale. Dire che non c’è un interesse pubblico in una vicenda come quella di Eluana Englaro significa dire che ognuno deve poter decidere da sé sulla propria vita e sulla propria morte. È il trionfo del diritto alla privacy: un diritto dell’uomo che spesso, troppo spesso porta a gravi decisioni contro l’uomo. Un tragico paradosso del nostro tempo».
Circa il cosiddetto “matrimonio egualitario”, commentando la legge approvata dallo Stato di New York nel 2011 spiegò la sua contrarietà così:
«In che cultura si radica una decisione di questo tipo?
Gli argomenti che ricorrono nel dibattito sul matrimonio omosessuale sono essenzialmente due. Il primo: se sposarsi è un diritto, occorre che ciascuno sia libero di sposarsi con chi preferisce, senza condizioni. Il secondo: impedire il matrimonio agli omosessuali è una discriminazione.
Il primo argomento esprime una idea di individuo in-dipendente, dis-incarnato, che non dipende da nulla e da nessuno, la cui libertà si risolve nella possibilità di svincolarsi da qualunque dato e da qualunque condizione, compresa la propria identità sessuale. Secondo questa concezione il genere, si dice, non è dato, ma è scelto. Ma esiste nel mondo reale una condizione umana in cui la scelta, la preferenza, la volontà, l’aspirazione si realizza svincolata da ogni condizione data? Questo argomento, se portato a piena coerenza, dovrebbe indurre ad eliminare ogni condizione che la legge prevede per il matrimonio: età, divieto di matrimonio tra consanguinei, monogamia, etc.
Il secondo è frutto di una difficoltà tipica della nostra epoca che tende a confondere differenziazione e discriminazione. È vero che nel passato ci sono state molte legislazioni e costumi sociali aspri e inospitali verso gli omosessuali, se non addirittura impietosamente discriminatori: ancora negli anni 90 alcuni stati americani prevedevano il reato di sodomia, punito con il carcere. Questo retaggio del passato ha innescato una giusta sensibilità avverso le discriminazioni subite dagli omosessuali.
Tuttavia, altro è discriminare altro è mantenere delle distinzioni: non ogni differenziazione è discriminazione. Mantenere su un piano distinto il matrimonio e la famiglia rispetto ad altre forme di convivenza è discriminare o operare distinzioni? Se il legislatore non potesse mai distinguere, classificare, selezionare i destinatari delle sue norme nessuna scelta politica sarebbe mai permessa, perché tutte si basano su classificazioni e opzioni. Il punto, piuttosto, è valutare se la distinzione è ragionevole e se è finalizzata a realizzare un obiettivo ritenuto meritevole di tutela, come si è ritenuto finora nella maggior parte del mondo nelle legislazioni sul matrimonio e la famiglia».
A queste considerazioni, che ci danno un quadro coerente di Marta Cartabia, possiamo aggiungere gli atti concreti. Quando divenne Presidente della Consulta operò alcune importanti innovazioni e ha evidentemente espresso attenzione e cura nei confronti dei diritti dei carcerati, così come di quelli degli imputati, con una evidente impronta garantista nella propria concezione dei rapporti tra giustizia e cittadini:
In attesa di capire che succederà a via Arenula, alla Corte Costituzionale la giudice cattolica si era occupata dei diritti delle minoranze. È stata relatrice di una sentenza che ha permesso alle madri di figli gravemente disabili la possibilità di scontare la pena ai domiciliari, a prescindere dall’età del figlio e dalla durata della pena.
La prof ha dato una svecchiata all’immagine della Consulta, portando i giudici in tour nelle carceri e poi nelle scuole. È stato creato un podcast per raccontare le attività della Corte, illustre sconosciuta per molti cittadini. Cartabia ha anche aperto le porte della Consulta alla società civile, stabilendo che associazioni di categoria, ong e soggetti istituzionali possano inviare un parere in casi che riguardano i loro ambiti. «Una presidenza innovativa», dice chi ha vissuto da vicino quel periodo.
La sua idea di legge è lontana anni luce da quella del predecessore. «La giustizia deve sempre esprimere un volto umano», E poi: «Non è detto che il carcere sia sempre la pena più appropriata». Altro che tintinnio di manette. Cartabia tiene alla funzione rieducativa della pena. Sulla prescrizione non si è espressa, anche se ha fatto capire come la pensa. «I processi troppo lunghi – spiegava a Repubblica – si tramutano in un anticipo di pena. Che il processo debba avere una ragionevole durata è un principio di civiltà giuridica esplicitato nella Costituzione» (Linkiesta).
Tutti dossier non facili, in una maggioranza composita come quella del Governo Draghi dove sensibilità molto diverse su tutte queste questioni dovranno trovare una sintesi, possibilmente non un compromesso.
Uno stile discreto nelle istituzioni
Mentre infuriava la battaglia e la polemica sulla Legge Cirinnà, Luigi Amicone, direttore ciellino del settimanale Tempi, aveva tentato invano di portare Marta Cartabia – in quel momento alla Consulta – a prendere una posizione pubblica sulle unioni civili, perfino nei giorni caldi del Family Day, scrivendole pubblicamente: «Lettera aperta a Marta Cartabia perché dica una parola chiara sulle unioni civili», era il 2016, senza ottenere un coinvolgimento diretto. Come sottolinea Italia Oggi:
«Probabilmente la giudice costituzionale ha fatto sua la distinzione, cara al filosofo Jacques Maritain, sull’agire pubblico di un credente, che secondo l’autore di Umanesimo integrale, deve essere «da cattolico» sempre e «in quanto cattolico» solo nell’ambito ecclesiale.
Una distinzione che Giussani ha peraltro sempre e radicalmente avversato».
E poco sopra circa la ratio giuridica della decisione
Circa il cosiddetto “matrimonio egualitario”, commentando la legge approvata dallo Stato di New York nel 2011 spiegò la sua contrarietà così:
A queste considerazioni, che ci danno un quadro coerente di Marta Cartabia, possiamo aggiungere gli atti concreti. Quando divenne Presidente della Consulta operò alcune importanti innovazioni e ha evidentemente espresso attenzione e cura nei confronti dei diritti dei carcerati, così come di quelli degli imputati, con una evidente impronta garantista nella propria concezione dei rapporti tra giustizia e cittadini:
Tutti dossier non facili, in una maggioranza composita come quella del Governo Draghi dove sensibilità molto diverse su tutte queste questioni dovranno trovare una sintesi, possibilmente non un compromesso.
Uno stile discreto nelle istituzioni
Mentre infuriava la battaglia e la polemica sulla Legge Cirinnà, Luigi Amicone, direttore ciellino del settimanale Tempi, aveva tentato invano di portare Marta Cartabia – in quel momento alla Consulta – a prendere una posizione pubblica sulle unioni civili, perfino nei giorni caldi del Family Day, scrivendole pubblicamente: «Lettera aperta a Marta Cartabia perché dica una parola chiara sulle unioni civili», era il 2016, senza ottenere un coinvolgimento diretto. Come sottolinea Italia Oggi: