Dalla prima volta in cui uscendo dall’ospedale l’accompagnò a entrare nel sole alla fatica di crescerla come genitore single, un giovane papà e poeta cammina con sua figlia in giorni fatti di meraviglia e lacrime.Le storie non sono mai lineari e le curve, quando arrivano, non sono dolci. Oggi ospitiamo una parola con cui era inevitabile confrontarsi nel cammino di questo dizionario vivo che è Gemme. Lo scorcio opportuno per guardare il «padre» non è stato pianificato a tavolino, ma a tavola. Non c’è una furba strategia editoriale dietro questo contributo, ma semplicemente un’occasione.
Incontrare dopo tanti anni Pietro Federico e cenare con lui è stato tutt’uno col ritornare al tempo in cui scommettevamo sulle parole e sulla poesia camminando nei corridoi universitari. A Bologna la facoltà di Lettere si trova di fronte quella di Economia, e ci era perciò chiaro che la nostra scelta di vita era un rischio folle, al confronto di chi aveva i piedi per terra e si faceva i conti in tasca. Ho lasciato un compagno di studi, ho ritrovato un padre, che non ha smesso di essere poeta. Lo scrivo, pur sapendo che lui aggiungerebbe «… ma potevi anche tralasciare di dirlo». Visto che in fondo al pezzo troverete un assaggio dei suoi versi (tratti da una raccolta che uscirà a breve e si intitola La maggioranza delle stelle), giudicherete voi stessi se si deve tenere addosso questo nome che molti altri fanno a gara per indossare solo come la bella coda di un pavone.
Vi lascio alle sue parole, che parlano proprio di come nella vertigine poco lineare della vita sia incrollabilmente piantata quella linea retta che è l’eterno.
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Padre
Di Pietro Federico
La mia vita si è sempre trovata lacerata in due direzioni opposte, con una violenza tremenda, spesso insopportabile: l’inutile ciclicità della vita, chiusa senza scampo nella sua mortalità, e la sua struggente bellezza.
Per ciclicità non intendo il fare sempre la stessa cosa. Ci sono persone, soprattutto oggigiorno, che sono riuscite a costruirsi una vita dai ritmi meno ripetitivi. Io sono una di quelle persone.
Ma anche quando si riesce a crearsi una vita del genere, prima o poi, se si decide di essere onesti con se stessi, ci si trova costretti ad ammettere che non sarà mai una soluzione “logistica” a guarirci da questo senso di imprigionante monotonia; in altre parole, possiamo anche trovare il modo di cambiare con più frequenza i paesaggi che si avvicendano dietro di noi sul palcoscenico della nostra vita, ma noi continueremo sempre a camminare sul posto. E quando parlo di struggente bellezza non parlo di una bellezza necessariamente legata al cliché di un tramonto, di un bel paesaggio, o di una bella donna.
Fedele a ciò che cade sulla pelle
Fin da ragazzo ero (e sono tuttora) mosso spesso alle lacrime dalle cose più insospettabili: una grossa crepa dentro un muro, il modo di camminare di una persona, in un giorno di grande risveglio mi commossi per la violenza con cui percepii che gli atomi di una sedia di legno si tenevano insieme per sorreggere il peso del mio corpo.
La mia commozione non è mai causata solo dalla tristezza che quelle cose finiranno come finisce sempre ogni cosa, e nemmeno solo dalla felicità che quelle cose in quel momento esistano, così vere, così innegabili, così date. La tristezza e la gioia hanno fatto per me sempre parte della stessa esperienza, e non sono mai riuscito a sentirmi a mio agio in qualsiasi forma di potere o di fede che cercasse di costringermi a uno solo di questi aspetti.
Per essere vero, e quindi libero, ho sempre sentito il bisogno di restare fedele alla vita così come mi cadeva negli occhi e sulla pelle: la tristezza non è mai stata per me una malattia di cui vergognarmi, o da cui tentare di guarire, e la gioia non è mai stata per me un dovere, né un diritto.
La duplicità e la diabolicità del pensiero dominante e sempre più unico non mi ha mai convinto, e non perché fossi in qualche modo più intelligente di altri, ma perché l’ho sempre sentito non vero, fin nelle più intime fibre della mia carne. Lo potrei quasi accostare a un discorso di intolleranza alimentare.
La ferita della morte
Da sempre il tempo non mi ha mai convinto. Vivere… non mi ha mai convinto. Da sempre mi ha gridato dentro la convinzione che se il tempo non fosse stato in grado di fare casa all’eternità, allora sarebbe stato inutile. È una convinzione senza compromessi che ancora oggi mi porta spesso sull’orlo della disperazione. Non ha mai importato quanti sforzi io faccia per soffocarla. O ciò che chiamiamo vita è da sempre immerso nell’eternità, oppure è tutta una stupida presa in giro.
Perché noi desideriamo un amore e una vita che siano per sempre. Tutto quello che diciamo per negarlo viene solo dall’amarezza che ci è esplosa dentro quando, in un modo o nell’altro, ci siamo trovati traditi, o abbiamo tradito.
È un tradimento ogni bugia che ci viene detta da qualcuno che amiamo, ma lo è ancora di più ogni bugia che noi ci troviamo a dire a coloro che diciamo di amare. Perché la morte non la
riceviamo soltanto, ne diamo anche tanta in cambio. E sia che la riceviamo o che la diamo essa prende dimora in noi e prende a divorarci, come l’unico cancro che possa divorarci il cuore, rubarci tristezza e gioia senza distinzione, pezzo per pezzo.
Chiedo scusa per avervi tediato con questo preambolo, ma ho pensato che senza di esso non sarei riuscito a descrivervi cosa per me abbia voluto dire diventare padre.
Entrare nel sole da padre
Mia figlia è nata nel febbraio del 2013, in America. Nell’ospedale di Henrico County in Virginia. Qualche giorno dopo la sua nascita mi trovai a portarla fuori dall’ospedale per la prima volta. Lei era nell’ovetto di un seggiolino per auto. La stavo portando fuori quasi fosse una valigia. Il tutto era ancora piuttosto surreale per me. Ero diventato padre da pochi giorni. Ma quello stato di surrealtà svanì sulla soglia tra l’ospedale e il parcheggio. C’era un lungo tappeto rosso che portava fuori dal reparto maternità, nel tipico stile da favola, ma a volte azzeccatissimo, che piace agli americani. Il piazzale era circondato da alberi altissimi e sottili che vibravano al minimo fiato di vento, ma soprattutto era allagato di sole… mio Dio…
Mi resi conto che quella era la prima volta che mia figlia entrava nel sole. Ma la cosa ancora più sconvolgente fu che anch’io sentii la stessa cosa. Era tutto nuovo anche per me. Mia figlia non aveva ancora i nomi per chiamare quelle cose altissime e tese all’azzurro che sbandieravano nel vento, di verde e di argento vivo, o quell’energia calda e vibrante che poteva toccarci e che nel mentre rendeva visibile
tutte le cose. Ma io sì. Avevo i nomi. O comunque sentivo di averli avuti, in un altro momento della mia vita. Fu quello il momento della mia rivoluzione più decisiva. Ora sono un padre single. Mi prendo cura di lei la maggior parte del tempo. Ma se guardo la nostra vita insieme mi rendo conto che la natura del nostro rapporto è stata improntata da quel momento di vertigine e stupore, in cui niente aveva più un nome.
Per mano nell’eternità
Non voglio insegnare a mia figlia cosa sia il coraggio o la paura. Desidero per lei, come per me, la vertigine dello stupore e la vertigine della tristezza. Perché tutto ciò che è vero anche brucia, e un uomo e una donna veri sono coloro che si lasciano bruciare, che ardono, senza riserve. Non so se finirà a credere nel Dio in cui credo io: in questo Padre che è anche abisso, in questo Figlio che è vivo e vegeto ed è anche crocifisso, in questo Spirito che è brezza, e tempesta ed è anche tremenda, assoluta assenza.
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Desidero per lei che non si senta mai costretta a schierarsi dalla parte della libertà o della prigionia. Perché lo stesso amore, se vissuto fedelmente, ci darà un tempo di gioia selvaggia, e poi un tempo di miseria schiacciante e di rabbia, paura, e poi di nuovo un senso di indissolubile salvezza e poi di nuovo paura…
Perché queste… sono solo parole.
Non so se ne sarò mai capace. Ma desidero solo insegnarle ciò che lei mi costringe a reimparare ogni giorno, senza più darmi scampo, costringendomi ora a desiderare l’eternità anche per lei. Perché quale padre potrà mai rassegnarsi all’idea che un giorno sua figlia morirà?
Desidero insegnarle a non mentire a se stessa. A ricordarsi quanto piccoli siamo di fronte a tutta questa morte e a tutta questa vita. A non negare l’evidenza di questo desiderio di eternità che abita in lei, e in tutti. E che, per quanto ne sappiamo, tutto è ancora possibile.