«La mia generazione ha sbagliato a non proporre una nuova idea di maternità alle giovani donne di allora, oggi ultra quarantenni.»Ammetto la mia ignoranza, non sapevo chi fosse Silvia Vegetti Finzi fino a ieri ma ciò che leggo in questa intervista comparsa sul Corriere della Sera cinque giorni fa è più che interessante. Per prima cosa, come donna, laureata, moglie, mamma, lavoratrice, sfinita dalla lotta impari tra il tempo e le irrespingibili chiamate al dovere su tutti i fronti, provo sollievo.
Il mea culpa di una vera femminista: la maternità andava ripensata e difesa
Perché sebbene nel mondo cattolico la coscienza di questa contraddizione tra l’ideale malimposto della parità tra i sessi e la maternità sia stata mostrata e persino curata – pensiamo solo all’enorme merito di Costanza Miriano-, il fatto che una personalità come la sua ne parli con chiarezza e laicissima parresia, solleva; permette di ritrovare parole comuni e finalmente ripetibili, non scartate a priori perché cattoliche (che sciocchezza!). Non si fanno più figli ed è una immane tragedia. E la colpa è pure nostra. Questo in sintesi il suo nudo pensiero.
«Silvia Vegetti Finzi, psicologa, ha scritto numerosi libri importanti sull’adolescenza, sul femminile, sulla maternità. È anche autrice di una delle più articolate storie della psicoanalisi mai scritte in Italia. Ci incontriamo nella sua luminosa casa milanese, dove si è trasferita nel 2018 dopo la morte del marito, Mario Vegetti, al quale è stata legata per sessantadue anni. Due figli e tre nipoti. (CorSera)
Non facciamo più figli.
Ma la colpa è anche nostra.Si spieghi meglio.
Io ho ottantadue anni, sono entrata nel movimento femminista tardi, nel 1980, ma sono poi stata molto attiva. E la mia generazione ha sbagliato a non proporre una nuova idea di maternità alle giovani donne di allora, oggi ultra quarantenni.» (Ibidem)
E il fatto che siano ultraquarantenni non è cronologico e basta; è tempo biologico, il che significa che quello naturale della maternità è finito.
Abbiamo insistito sulle priorità sbagliate
Avete insistito troppo sulla realizzazione professionale?
«Vi abbiamo insegnato ad essere figlie e non madri. A fare carriera e non a costruire un nuovo modello di maternità. Vi abbiamo spinto a cercare madri simboliche, da Virginia Woolf ai modelli più attuali, cercando di tenervi sempre in una condizione “filiale” e non “generatrice”. Non vi abbiamo passato il libretto delle istruzioni. Così oggi ci sono migliaia di quarantenni che non hanno avuto figli e quando chiedo loro il perché di questa scelta la risposta è quasi sempre “Perché c’erano altre priorità”».
E chissà quanta sofferenza ha raccolto nella sua professione: magari dissimulata o respinta con arroganza da chi vuole a tutti i costi essersi scelto “la parte migliore” – come la intenda il vangelo del mondo- e invece vorrebbe che gli fosse stata tolta in tempo.
Forse mi spingo troppo alla ricerca del paradosso ma mi concedo una breve riflessione personale, a margine di questa presa di coscienza pubblica e tanto salubre.
Diventare madri per non restare solo figlie. Ma anche per diventarlo davvero
Ha sbagliato, quella generazione di donne intellettuali e normali, perché senza diventare madri si resta soltanto figlie, come dice l’autrice intervistata, ma figlie biologiche. Se si diventa madri, invece, ci si scopre non solo capaci di generare e del tutto insufficienti al compito, ma le uniche in grado di buttarcisi; e, miracolo, si diventa profondamente figlie nella dimensione interiore e spirituale.
Senza avere tra le braccia la mia prima bambina non avrei mai saputo, con tutte le mie ossa e la carne segnata dalla gravidanza, che prima di tutto ero figlia. Che ero in vita per la volontà di qualcuno, che ero in questo miracolo incontenibile e folle, che stavo nell’esistenza senza alcun motivo pratico sufficiente se non la gioia, mia e Altrui. Dove si può mai imparare questa dimensione? Nel lavoro, nelle passioni, nello studio? Non se li si vive promuovendoli al rango di ideali supremi che non spetta loro. Almeno non per una donna.
La maternità: non solo trascurata anche sistematicamente attaccata
Ma c’è stato ben di peggio, e c’è ancora, possiamo aggiungere insieme all’intervistata ma con non rassegnata desolazione: la maternità non è stata semplicemente trascurata e mal compresa. E’ stata ed è oggetto di attiva distruzione. L’utero in affitto è uno degli apici di questa catena montuosa di orrori; insieme agli eserciti di embrioni crioconservati; insieme agli aborti sempre più estremi.
Non solo. Negli anni Ottanta c’è stata una corrente di pensiero che ha provato a demolire la maternità.
Che grave errore che abbiamo commesso, è il momento di riconoscerlo.
Ha ragione, è il momento storico di una vera emancipazione femminile, di un recupero profondo e intero di ciò che siamo. E per farlo occorre innanzitutto uscire dalla guerra contro i maschi, contro l’uomo e la sua virilità, contro la sua vocazione alla paternità. Lo dirà, nel prosieguo, che se loro ci generano come madri, noi li generiamo come padri. Ma prima si sofferma su un tema che decenni fa probabilmente le avrebbe fatto sfoderare gli argomenti più affilati mentre ora è del tutto ridimensionato. Le donne e il lavoro.
Però si deve a voi se oggi tante ragazze non hanno paura di confrontarsi con i colleghi uomini a scuola, all’università e sul lavoro.
Certo, ma sappiamo quello che succede: sono bravissime negli studi, si laureano meglio e prima degli uomini, magari cominciano a lavorare presto ma poi? Poi, scompaiono. Spariscono nel percorso della carriera e nella crescita professionale. Spesso per il cosiddetto «soffitto di cristallo», ma spesso anche perché non riescono a conciliare la maternità con il lavoro. Quello che avremmo dovuto fare è elaborare una maternità migliore, non cancellarla.
Lavorare come se non si avessero figli; essere madri come se non si lavorasse, altro che conciliazione
Una conferma, l’ennesima se si contano le dichiarazioni che raccogliamo tutte come donne normali, con vite normali e sovraccariche, lavori normali e anche belli ma che non ci interessa molto chiamare “carriera”, mi è venuta dalla lettera di una lettrice alle classiche rubriche “il direttore risponde” di una rivista femminile. Non ne prendo mai ma ho una figlia che cerca scuse per uscire di casa e fare piccoli acquisti, di preferenza in edicola e così mi ha portato F, il numero del 22 settembre.
“(…) Questa “stronzata” della parità ha portato a donne esauste e a crescita zero (…).
(…) A 56 anni sono stanca di credere alle bugie. Ho due lauree, due specialità, due figlie cresciute da sola perché mi è pure capitato il marito pazzo. Sono medico, ho fatto turni fino a 16 ore in ospedale, notti di guardia, la casa, la spesa e tutto il resto.(…)
Molte non fanno più figli e rinunciano alla vera felicità nella vita di una donna, essere madri. Non è questione di tornare indietro. No: andare avanti significa rispettare la natura della donna. (F, 22 settembre, Lettere alla direttrice)
E’ inutile, ciò per cui siamo fatte non si può respingere senza pagarne le conseguenze in termini di salute; non solo quella della donna ma quella di tutti.
La maternità di Maria SS e il suo valore simbolico universale
Ragionando di madri e figli è pressoché impossibile non arrivare a parlare della Maternità per eccellenza, da qualsiasi corrente di pensiero si sia partiti; la Madonna è sempre in qualche ricordo, in qualche angolo della mente, come immagine o racconto; ma chi crede sa che Maria è nostra Madre e per questo è realmente vicina a ciascuno di noi. La Vegetti Finzi reclama il bisogno di riflettere e meditare intorno all’Annunciazione e ad altri soggetti mariani nella storia dell’arte; come quello di Maria con Gesù e San Giovanni bambini.
Le annunciazioni sono uno scrigno di simboli materni: la paura, il coraggio, la dedizione, la crescita personale.
Aggiungo una cosa. In molte rappresentazioni mariane non c’è solo Gesù, c’è anche il piccolo Giovanni. I due bambini vengono raffigurati come coetanei ma fisicamente diversi: il Cristo è delicato e angelico, Giovanni è materico, ricciuto, a volte vestito di pelli di animali. Io ci vedo un messaggio di profondità straordinaria: il bambino del giorno e il bambino della notte. Quello reale e vissuto e quello non vissuto e non elaborato. Pensi quanto sarebbe importante per il femminile studiare ed assimilare tutto questo. Invece nulla. E allora che cosa vediamo? Maternità conflittuali, difficoltà ad integrare i ruoli e, per riflesso, una paternità debolissima.
Sarebbe bello riflettere in uno spazio pubblico e laico anche di un altro incontro tra Gesù e Giovanni, ancora precedente; quando entrambi si trovano nell’utero materno e il loro “appuntamento” è mediato dalle voci e dalle emozioni delle madri: si aprirebbero campi di riflessione sconfinati; poiché anche questa è una scena che dice sulla maternità qualcosa di fondamentale e taciuto: la vita del concepito è tale da subito e ha già una piena incidenza sulla storia del mondo. A sei mesi un bambino nel ventre materno sente e reagisce alla voce di un’altra persona; questo bimbo comunica con la propria madre e lei con lui. Pensiamo al passo del Vangelo di Luca:
Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. (Lc 1, 44)
Maschi e femmine: siamo diversi, per questo ci amiamo
Noi donne spesso ci lamentiamo e reclamiamo con forza ciò che poi, nella realtà dei fatti, non desideriamo e non ci serve davvero. Per carità, basta mariti che in casa non muovono un dito; che non sanno nemmeno come sia fatto un pannolino o che per trovare il sale in casa in mancanza della moglie hanno bisogno di Google Maps. Il carico è grande, non può portarlo solo una persona; ma siamo diversi e di questo, anziché continuare a recriminare, dovremmo ringraziare. A noi donne, moglie e madri se abbiamo la grazia immensa di diventarlo, servono uomini virili, paterni, forti e capaci di dare la vita; anche un giorno per volta, non necessariamente facendoci scudo col proprio corpo in caso ci trovassimo in mezzo ad una sparatoria. Altro che “mammi”!
Il «mammo»?
Che errore. Noi abbiamo bisogno di padri, non di mammi. La dissimmetria è un valore, io amo l’altro non il mio simile. Ma d’altra parte questo è il risultato di una maternità confusa. Il padre, simbolicamente, non esiste finché la madre non lo indica come tale. È sempre la madre che definisce la figura paterna e, al tempo stesso, ne trae forza. Bisogna capire che distilliamo potenza dalla differenza.
La gratitudine alla maternità ci renderebbe liberi; la presenza di veri padri ci renderebbe felici
E la mancanza di vera paternità e di virilità autentica si vede nella violenza che esplode nella nostra società; ogni volta che la leggiamo sui giornali o la vediamo in tv ci terrorizza perché ci pare che cieca, senza un ordine capace di contenerla o spegnerla. Il caso più vicino è quello del giovane e gracile Willy, più forte però dei suoi violentissimi e vigliacchi assassini. Ciò che manca in queste storie è proprio il contenimento degli istinti, la disciplina che sa gestire una sana aggressività; quello che manca, ancora una volta, è la paternità.
Penso che questi parossismi di mascolinità siano una reazione alla paura della femminilità. Donald Winnicott nei primi anni Trenta sosteneva che in ogni società persiste una grande paura delle donne. Si spiega con la dipendenza che si prova nei primi due anni di vita: senza una madre un neonato non sopravvive. E in questo mancato “grazie” alla madre risiede una violenza che tenta di abbattere quella dipendenza. E così, senza un’adeguata educazione, la virilità in molti casi cambia pelle, si confonde con la durezza e alla fine con la violenza. Specie contro le donne.
Alla base, dunque, c’è sempre una paura di essere sopraffatti.
Winnicott poi lega questo ragionamento alla politica e dice che le tirannie sono il risultato di questa paura: diventiamo devoti ad un essere che non dipende da nessuno, un tiranno, appunto, un potere assoluto.Torniamo ad una mancata- o monca – elaborazione della maternità.
Lo dico da sempre: se dessimo alla maternità il giusto peso, saremmo molto più liberi.
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Il tempo, la vera ricchezza. Il limite, la sola certezza?
Interrogata sulla fede risponde in un modo che oserei dire squisitamente femminile: con il nostro corpo che conosce cicli, che ha dei periodi limitati per dare la vita, che fa e si disfà, che genera e nutre, noi donne siamo segno del tempo umano per eccellenza e in questa vocazione comprendiamo di più la nostra creaturalità. Peccato che la conclusione che trae la nostra sia di un destino di finitezza; ma una intervista è troppo poco per sapere cosa si nasconda in un cuore.
«È strettamente legato al riconoscimento dei miei limiti. Vorrei fare tante cose ma non riesco, vorrei capire ma non ce la faccio. È allora che entro in un territorio diverso, quello del sacro. La fede per me è capire che siamo destinati alla finitezza».
Il vero lusso, oggi, è avere tempo, conclude infatti:
E mi lasci dire una cosa per chiudere: credo che oggi la vera grande povertà non sia quella dello spirito, la vera miseria è il tempo che ci manca e che non riusciamo a trovare mai.
Forse ci basterebbe ritrovare il volto del Padre per sapere che in ogni istante della nostra vita siamo affacciati all’eternità.
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