La storia di Stefano Visentin, da affermato ricercatore e fisico nucleare all’incontro con la teologia e il monachesimo: un cambiamento radicale e intellettuale di vita!
Siamo a Praglia, nel cuore dei Colli Euganei, in Veneto, fra campi di girasoli e boschi di castagni dai quali spunta imponente quest’abbazia benedettina dove pregano e lavorano una quarantina di monaci professi.
A guidarli, scrive il Corriere della Sera (7 agosto), è Stefano Visintin, un sessantunenne dall’aspetto giovanile e dai modi semplici che nascondono un passato sorprendente.
Era un fisico nucleare e per anni ha viaggiato fra l’Italia e gli Stati Uniti passando da un laboratorio all’altro, Trieste, New York, Padova, Rochester. «Studiavo spettrometria di massa ad alta energia, cioè la presenza di elementi chimici molto rari, tipo quelli dei meteoriti».
Rettore del Sant’Anselmo
Poi i primi dubbi di fronte ad un interrogativo: cosa guida il mondo? «Più mi armavo di strumenti tecnici – spiega al Corriere – e più aumentavano i dubbi. Ho capito cioè che sopra certe quote c’è solo la trascendenza e così a un certo punto ho detto no, non posso continuare su questa strada. E mi sono affacciato alla spiritualità monastica. Non è stato facile ma è stata la scelta giusta».
Una scelta certamente radicale con l’iscrizione alla facoltà di teologia, laurea, dottorato, insegnamento, fino a diventare Magnifico Rettore del Pontificio ateneo di Sant’Anselmo.
Da Einstein a San Benedetto
Dopo la carriera accademica, ecco la chiamata in abbazia. Dall’Istituto di Fisica nucleare, dunque, al monachesimo tradizionale, dalla scienza alla trascendenza, da ciò che si vede a ciò che non si vede.
Da Einstein a San Benedetto. Passando per autori come Tellhard de Chardin, gesuita, paleontologo «scrittore cristiano che si apriva alla scienza e alla tecnologia, uno dei miei favoriti», e Pascal «un matematico che mette insieme fede e ragione».
Il coronavirus visto dall’abate
L’abate Stefano ha un’idea chiara sul coronavirus: «Dicevo che la scienza non ci potrà mai salvare da ogni nostro male e la pandemia lo sta dimostrando. Basta un virus, un essere invisibile, e viene a galla tutta la debolezza della condizione umana. Pensavamo che le epidemie, sars, ebola, riguardassero ormai solo altri paesi, dove non c’è una sufficiente cultura scientifica. Non è così. Non avremo mai in mano la natura, nonostante il progresso e la ricerca, che ci può aiutare, sia chiaro, ma non può salvare il mondo».
L’uomo, conclude l’abate, «non sarà mai autonomo, autosufficiente. C’è qualcosa di molto più grande che sta sopra di noi e nulla potrà mai superarlo. Il peccato originale è sempre lo stesso: l’uomo che vuole farsi Dio. Magari è questo che Dio ha voluto dirci: bisogna essere più umili, spirituali».
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